bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 29 maggio 2014

Lessico famigliare

Nel corso della mia infanzia e adolescenza mi proponevo sempre di scrivere un libro che raccontasse delle persone che vivevano, allora, intorno a me. Questo è, in parte, quel libro: ma solo in parte, perché la memoria è labile, e perché i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito.
Natalia Ginzburg

siamo dentro il lessico famigliare di Natalia Ginzburg.
è, come ho già avuto modo di commentare relativamente allo stile della Ginzburg, un libro semplice, sotto tutti gli aspetti: descrittivo, narrativo e lessicale, appunto.
la scrittura della Ginzburg è piana, semplice, anche ripetitiva. usa le stesse parole, aggettivi soprattutto in una stessa frase, a volte ripete intere frasi più volte in un periodo. è strana questa abitudine descrittiva, che inusitata adozione lessicale, penso io. perchè ripetersi? non può non accorgersi della ripetizione, qualsiasi scrittore, rileggendosi, cercherebbe un sinonimo. lei no, ripete, senza tema e senza paura. rinforza? oppure non bada? oppure scrive come parla? non lo so ma è così, è un lessico personale.
quel che penso, quasi sbigottita, è che questa scrittrice, con questo lessico semplice e ripetitivo (mi ripeto anche io per farle onore), ha tradotto Proust, dico Proust, dal francese. qualcuno ha in mente Proust? beh io si, e stiamo parlando di un un universo parallelo, una dimensione dialettica e intellettuale incompatibile, una complessità lessicale inarrivabile, una difficoltà di costruzione grammaticale unica e certamente estranea alla mente della Ginzburg. stiamo parlando di La strada di Swann. mi dico allora che la Ginzburg doveva essere una donna intelligente, umile, aperta, senza pregiudizio e capace di accettare la propria natura e soprattutto quella degli altri.
ma, in fondo, quella sua frase d'apertura, sulla labilità della memoria, ha in sè una qualche evocazione proustiana, e questo suo libro Lessico famigliare è un tributo alla memoria, una rivisitazione della memoria, una glorificazione della memoria che santifica un passato indimenticabile.

Nella mia casa paterna, quand'ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: Non fate malagrazie! Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: – Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci! Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire. Diceva: – Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi! E diceva: – Voialtri che fate tanti sbrodeghezzi, se foste una table d'hôte in Inghilterra, vi manderebbero subito via.

io me lo sono goduto moltissimo, dalla voce di Margherita Buy, tanto che l'ho riascoltato due volte.
è un libro caldo, caldo come una coperta sul divano quando fuori piove, confidente e sereno, fiducioso. 
io mi sono sentita a casa. certo, non casa mia, credo anche che non sarei capace di una ricostruzione così serrata di modi abitudini linguaggi persone e accadimenti, ma nel calore di una casa e del suo odore.
credo che se potessi scrivere un libro così, se potessi ripassare nella memoria la mia storia familiare, sarei una persona migliore, pacificata, rasserenata, oltre il dolore, oltre il lutto, oltre lo sconforto che ogni storia familiare porta in sè, insieme alla bellezza della vicinanza.

Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all'estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c'incontriamo, possiamo essere, l'uno con l'altro, indifferenti, o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase, una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire "Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna" o "De cosa spussa l'acido cloridrico", per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l'uno con l'altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiri-babilonesi, testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e resuscitando nei punti piú diversi della terra, quando uno di noi dirà — egregio signor Lippman — e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: "Finitela con questa storia! L'ho sentita già tante di quelle volte!".

lunedì 26 maggio 2014

MIA FAIR 2014

e insomma, cammino cammino, sfinita, e campeggia, su uno dei mille stand, la frase di Mario Giacomelli:
La fotografia è una cosa semplice. Basta avere qualcosa da dire.
e voilà la verità.
probabilmente quel che si poteva dire, temo, è già stato detto. anni fa.
il digitale ha fatto della fotografia una manipolazione di immagini, ma la fotografia non c'è più.
è rimasta indietro e non la si ritrova più. dov'è??
quante foto ho visto? centinaia.
erano foto? no.
sono talebana? si.
cioè no, do alle cose il loro nome.
ho visto Vivian Meier e ho urlato: FOTOGRAFIA!!
ed ero vergine, non sapevo chi fosse e probabilmente mai lo saprò, ma la sua arte si chiamava fotografia.
ora l'arte, ovvero il suo contrario, sono photoshop, sfuocatura, mosso, seppiatura, accensione accecante irreale di colori o al contrario spegnimento completo fino alla sbiadimento totale delle immagini, pose improbabili, pose innaturali, inquadrature sempre uguali in sequenza, tentativi sexy solo pesantemente volgari, bianco e nero portato al limite estremo, bianchissimo nerissimo con limiti nettissimi improbabili, quindi falsificato, con effetto, per me, controproducente. è tutto falso.
senza uno straccio di idea.
e pure deprimente è il MIA FAIR, con le sue signore galleriste che se la tirano sempre da gran fighe...ne sapranno di fotografia o solo della biografia essenziale dell'ultimo arrivato? la galleria è regalo di papà o del consorte amministratore delegato? sono acida.
la riprova della mia autentica desolazione è che ha volte mi sono fermata e ho detto: ma guarda, una foto...e chi era? ah ah, Francesca Woodman. ma dai, anche lei qui. ho anche timidamente chiesto il costo di una sua foto e me ne sono andata estasiata dalla sua bravura e abbattuta per la sua inaccessibilità. oppure chi altro?
ah, bella la Loren, che foto!!, certo è Tazio Secchiaroli. oppure: ooohhh si, ed è Mario Giacomelli.
qualcosa si salva, lo riporto qui, qualcosa si salva, faticosamente si salva, ma torniamo all'analogico, meno trastulli, meno sbrodeghezzi, meno pampalughe, meno negrigure (cito da Lessico familiare della Ginzburg), ma, piuttosto, tempo, riflessione, pazienza, scelta di campo, pensiero, mente e cuore. e, sopra ogni cosa,  the right moment.
clic.
Giovanni Gastel

Francesco Jodice

Francesca W.

Candido Baldacchino

Francesco Bosso

 Cevasco@Marino

Giovanni Chiaramonte

 Renato Dagostin

 Neige De Benedetti
 Mario Giacomelli
 Todd Hido
 Enzo Obiso

 Marco Onofri

Tazio Secchiaroli
Federica Valabrega

troppe, ne ho messe troppe.
oltre i soliti noti, Neige De Benedetti, figlia di papà, unica vera sorpresa.



domenica 25 maggio 2014

Cildo Meireles

la sensazione è visiva, poi tattile, poi uditiva, poi olfattiva.
è sensoriale in toto.
l'arte contemporanea si muove così, cercando di prenderti tutto, di portarti in mondi nuovi, di farti esperire sotto nuove forme quel che vivi senza saperlo.
a volte cerca di riportarti alla memoria quel che hai dimenticato, o quel che non hai mai saputo, la follia e il dolore, la bellezza e l'orrore.
l'arte contemporanea non si accontenta, lo stupore deve passare da tutto il corpo, magari sconvolgendoti un po', scioccandoti. o non si accontenta o non si fida di sè, della sua capacità comunicativa ed espressiva.
quel che vedo all'Hangar Bicocca, tempio dell'arte contemporanea insieme al PAC di Milano, tende a somigliarsi sempre un po': installazioni e via con lo tsunami sensoriale,  mnemonico, emotivo, misterioso. se di tsunami si tratta.
quel che domina l'arte contemporanea è il corpo, il corpo e solo il corpo. non celebra la bellezza, anzi, se possibile si immerge nelle viscere e le porta in superficie, te le fa vedere, ti dice: questo è il corpo reale, questa è la nuova lingua che intende il mondo, la parola e il simbolico sono morti.
tranne alcune mirabili eccezioni, dove effettivamente l'originalità e la forza espressiva è veramente frutto di un talento -ricordiamoci che all'Hangar sono fisse in esposizione permanente le sette torri di Kiefer, che sono state veramente uno sballo emozionale (http://nuovateoria.blogspot.it/2012/05/hangar-bicocca.html)-  il tentativo è abbastanza sovrapponibile, ognuno con le sue modalità, ma senza mirabili eccezioni.
certo Mike Kelley (http://nuovateoria.blogspot.it/2013/07/mike-kelley-eternity-is-long-time.html) è matto e alla sua follia si assiste senza ombra nei suoi lavori, matto, ossessionato, psicotico, sganciato, disancorato. la Galindo mi ha dato da pensare a una qualche deviazione (http://nuovateoria.blogspot.it/2014/04/estoy-viva.html), ma  Meireles mi sembra sano di mente, forse troppo per il mestiere che fa, e cerca la sua via con installazioni più o meno riuscite, complessivamente gradevoli e curiose. Si viaggia nella trasparenza, camminando sui vetri e attraverso maglie da pescatori o guardando attraverso una vasca di pesci trasparenti,  si finisce in una stanza che ricorda, anzi che E' il mare, effettivamente avvertendo una senzione di tremolio, di ondeggiamento, di perdita dell'equilibrio.
si sosta davanti a una torre di radio che parlano contemporaneamnete lingue diverse, ci si avicina a una capanna sioux attorniata da una muro di candele e che contiene ossa di bue: un odore acre intollerabile mi travolge, e mi perseguita, anche allontanandomi.
si gioca sull'equivoco visivo, sulla necessità di sperimentare il reale, una boccia somiglia a un'altra  per forma e dimensione  ma ha ben altro peso, una è di plastica l'altra di qualche metallo pesante, si gioca sulla sinestesia, sulla contaminazione dei sensi nella percezione...e a tratti mi sembra di essere a scuola!, a una sperimentazione di fisica o di biologia.



Cildo Meireles. Installations è la prima mostra italiana dedicata a uno dei più importanti e celebrati artisti del secondo dopoguerra. La personale, a cura di Vicente Todolí, comprende 12 tra le più importanti installazioni realizzate dall’artista tra il 1970 e oggi. Tra i primi a sperimentare, fin dagli anni 60, installazioni immersive e multisensoriali che richiedono il totale coinvolgimento del pubblico, Cildo Meireles affronta tematiche sociali e culturali attraverso opere che rivelano pienamente il loro significato solo nel momento in cui sono attraversate, coinvolgendo oltre alla vista, anche l’udito, il tatto, l’olfatto e addirittura il gusto. La mostra si snoda attraverso un percorso spiazzante, caratterizzato da opere monumentali e piccolissime che catturano lo spettatore anche attraverso l’uso indistinto dei materiali operato dall’artista. Cildo Meireles, infatti, sceglie oggetti e materie in base alle loro caratteristiche simboliche o sensoriali, mettendo insieme elementi contrastanti dal punto di vista semantico o visivo. L’uso di grandi quantità di oggetti identici o simili per creare ambienti ed effetti visivi nuovi, il suono come elemento centrale nella relazione del pubblico con le opere, e lo spazio quale componente fondamentale nell’enfatizzare i paradossi e le metafore, sono elementi chiave dell’arte di Cildo Meireles efficacemente riassunti nelle 12 installazioni presentate presso Pirelli HangarBicocca. 









ho visto di meglio, ho visto di più.
se l'effetto deve essere sul corpo, il mio corpo chiede di più.

giovedì 22 maggio 2014

ATLAS

Triennale di Milano. 
Petrus-Atlas.
Da più di vent’anni, Petrus lavora sulla rielaborazione delle architetture cittadine, con una fortissima stilizzazione di elementi che tende a volte, nell'estrema ricerca di sintesi di linee e toni cromatici (tra cieli piatti e volutamente monocromi che incombono su una realtà depurata dal caos quotidiano), a sfiorare l'astrazione. Col tempo, il suo lavoro si è sempre più schematizzato dal punto di vista compositivo e si è "raffreddato", in un processo di graduale e progressiva sottrazione di elementi realistici o narrativi, in favore di una sempre maggiore geometria compositiva e strutturale. Attraverso i suoi quadri prende forma un originale affresco dell'architettura moderna e contemporanea, riletta attraverso una particolare e riconoscibilissima cifra stilistica. L’utopistico progetto di "Atlante urbano" di Marco Petrus trova così, nella mostra Atlas, una sua dimensione fisica, materiale e fortemente simbolica.









l'ho visto la prima volta su una copertina de La lettura.
poi l'ho rivisto in giro girando e girandomi sui cartelloni pubblicitari in città.
e oggi me lo sono visto in Triennale (luogo magnifico di questa città).
una sala, molta luce, pochi quadri.
perfetto.
mi piace da matti, questo Petrus, linee geometriche, contrasti di colore, visioni dal basso, spigoli e infilate di finestre, rivolgimenti upside-down, movimenti  ondulatori, curve, affollamenti. e rigore formale.
città ipotetiche, senza uomini, invivibili, irraggiungibili, ripetitive, alienanti e senza scampo.
di superficie, senza affondo.
metropolis.
cieli blu, gialli e rossi, case senza vita.
mi piace.


lunedì 19 maggio 2014

Mondo, sii, e buono

Al mondo

Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente,
fa' che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
ed ecco che io ribaltavo eludevo
e ogni inclusione era fattiva

non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso in me stesso.

Io pensavo che il mondo così concepito
con questo super-cadere super-morire

il mondo così fatturato
fosse soltanto un io male sbozzolato
fossi io indigesto male fantasticante
male fantasticato mal pagato
e non tu, bello, non tu «santo» e «santificato»
un po' più in là, da lato, da lato.

Fa' di (ex-de-ob etc.)-sistere
e oltre tutte le preposizioni note e ignote,
abbi qualche chance,
fa' buonamente un po';
il congegno abbia gioco.
Su, bello, su.
Su, munchhausen.*


Andrea Zanzotto
(tratta da La beltà, 1968)

Il riferimento è a un famoso episodio delle Avventure del Barone di Munchhausen (1785) di Rudolf Erich Raspe, quello in cui il nobile spaccone esce da una palude nella quale era caduto afferrandosi per i capelli e sollevandosi da sé. 

ironico e paradossale, ho anche io da chiedere al mondo d'essere buono. si può chiedere a un mondo di tirasi fuori da sé, forse se oggetto si, forse se composizione di soggetti no. non lo so. secondo me il mondo non è buono, oppure, come diceva Lacan, tutti i soggetti sono felici ma non lo sanno, fanno di tutto per non esserlo, per andare in opposta direzione. nella rinuncia c'è godimento, di morte, imprescindibile all'uomo. Zanzotto lo sa e ne scrive da poeta qual è, sa cosa sono la malinconia e la depressione che tolgono il senso, e cerca di restaurare, come dice lui stesso, con la poesia, il vuoto che c'è nel mondo.

venerdì 16 maggio 2014

Principessa Mononoke


Principessa Mononoke, principessa spettro, così la definisce la traduzione (infelice).
siamo nel mondo magico, nell'universo fatato di Hayao Miyazaki, questa volta potente e senza sconti.


l'uomo combatte l'uomo, combatte la forza immensa della natura,
la natura combatte l'uomo e il suo potere distruttivo, difende la sua eternità sulla frammentazione caduca e mortale dell'uomo.
tutte le forze sono in campo, il potere e l'arroganza, la ragione di sopravvivenza dell'uomo e l'immensità della natura, l'uomo che riconosce se stesso e la sua capacità di progettare la vita, la natura che impone l'istinto e la bellezza inarrivabile delle sue manifestazioni. c'è anche l'amore, così come l'odio, in fondo sono la stessa cosa, condividono la stessa matrice, la stessa forza che muove il sentimento.






come sempre in questo genio di regista le immagini sono splendide, la fantasia rappresentativa inarrivabile. 
come sempre in questo talento d'uomo, il discorso che sottende è sempre importante, è di vitale importanza.
come sempre il personaggio femminile, la principessa che non riconosce la sua appartenenza al genere umano e rivendica il suo essere lupa, è centrale l'elemento portante della narrazione e della lotta, ma il nostro principe Ashitaka, contaminato da una maledizione mortale dopo una lotta feroce con un dio maligno, che si mette in viaggio per scoprirne l'origine e chiedere una cura al grande Dio Bestia, l'unico in grado di guarirlo, è la figura più bella e amabile del racconto, vero pacifista, sempre disponibile ad ascoltare le parti, mediatore del compromesso finale, portatore di amore, fierezza e coraggio.
siamo in un mondo irriconoscibile per noi occidentali, abitato da forze benigne e maligne, da uomini e animali, dal dio bestia e dai kodama -spiriti della foresta-, da ciclo del sole e della luna, dal conflitto tra la città di ferro, la civiltà e la sua crescita, e la foresta, la natura incontaminata e intoccabile. 
ma il conflitto, a dispetto di ogni previsione disneyana, è anche tra i due protagonisti, Mononoke e Ashitaka: non si somigliano, non si appartengono e, nonostante l'amore, non si uniranno. 
il film è a tratti troppo lungo e sembra non risolversi mai, ma perdono al genio assoluto di Miyazakyi questo peccato di orgoglio. di essere orgoglioso ne ha ben donde: non c'è blu più blu del blu di Miyazaki.

martedì 13 maggio 2014

al fresco

non è mia abitudine recensire i ristoranti, ci vado raramente in fondo.
i soldi preferisco spenderli in biglietti di cinema teatri mostre ( enevannoviaparecchi!!) e mangiare al volo un stuzzichino prima o un gelato dopo lo spettacolo.

ma, l'occasione fu speciale, e meno male.

il posto fu delizioso, con anche un bel giardino all'aperto, da sfruttare quando mai sarebbe arrivato il caldo. caldo caldo.
me lo gustai dall'interno, osservando i cuochi, 5, di cui uno giapponese,  cucinare.
di chi fu l'ideaoriginaria di mostrare la cucina e i suoi componenti? dei giapponesi, non so, ma fu un'idea gagliarda.
pensai di mangiare milanese e invece mangiai terrone, ma terrone forte, e di gusti mediterranei indimenticabili.
pomodoro, bufala, pane di matera, pasta, olio, una delizia sopraffina.

La cucina è il cuore di al fresco. Per questa ragione è stata affidata nelle mani dell’abilissimo chef Kokichi Takahashi. (http://www.alfrescomilano.it/
Un giapponese di nascita, ma italianissimo d’adozione, già braccio destro (e sinistro) di Alessandro Negrini e Fabio Pisani de Il Luogo di Aimo e Nadia. 
Takahashi ama il profumo del basilico di Pra, la farina macinata a pietra, lo zafferano sardo e sa combinare e reinterpretare in modo straordinario quanto appreso nelle cucine dei grandi chef con i quali ha collaborato per dare ai suoi piatti tutta la naturalità e la bontà che un in un luogo come questo non possono mancare. 

ci ritrovammo in piena zona Tortona, Via Savona 50 (mia via natale per altro, in una casa poco più in là), oramai lanciatissima e trendissima in città, in un magazzino dismesso, poi trasformato in ristorante con giardino. fu un bel rifugio, una vera fortuna potersi riprendere, rammendare i buchi e ricomporre i frammenti in un luogo accogliente e profumato.




il vino, come il resto, fu ottimo, un fresco (!!) Fiano di Avellino, ce lo scolammo tutto e lui si scolò noi, dall'antipasto al dolce. ci raccontò il cameriere, sommelier per l'occasione, di una terra di coltivazione, in quel dell'azienda  agricola San Salvatore in provincia di Salerno, ove pascolano i bufali. 
citava l'etichetta: ho visto un bufalo tra le vigne ed ho bevuto vino. ho visto un bufalo tra le vigne e lui ha visto me.
le stesso facemmo noi.
fu una bella serata, tranquilla e sommessa, senza dichiarazioni d'amore ma con la promessa, tacita, di un tempo migliore. se mai ci fu, se mai ci sarà.


venerdì 9 maggio 2014

la ragazza con il turbante

Augustus Wijnantz,Veduta del Mauritshuis, 1830 (?)

Bologna, 24 Aprile 2014.
giornata di sole e calore stupenda, via con il freccia rossa. si arriva in un'ora! il treno va a 320 km/h e le macchine in autostrada, dal finestrino, sembrano delle cariole. già un'emozione.
si passeggia per Bologna e si arriva alla meta, precisi, in orario con la prenotazione
mostra: "La Ragazza con l'orecchino di perla", IL MITO DELLA GOLDEN AGE. DA VERMEER A REMBRANDT CAPOLAVORI DAL MAURITSHUIS,  Bologna, Palazzo Fava 8 febbraio - 25 maggio 2014. l'ho scritto proprio tutto, il titolo e il sottotitolo.
la mostra è uno spettacolo di grandezza e di bellezza.
la mia amatissima ragazza si mostrerà solo alla fine del percorso, con un meraviglioso colpo di scena, ma è chiaro che il suo nome, la sua fama, la sua riconoscibilità sono un richiamo accertato e acquisito, un riconoscimento immediato.
Da un paio d’anni il Mauritshuis – scrigno di opere somme da Vermeer fino a Rembrandt – è chiuso per importanti lavori di restauro e ampliamento, che ne vedranno la riapertura al principio dell’estate 2014, in una straordinaria veste che saprà unire l’intenso attaccamento al passato alla proiezione verso il futuro. La direzione del museo ha concepito l’idea, in questo lungo frangente di chiusura, di spostare una parte della collezione presso il Gemeentemuseum sempre a L’Aia, di modo che i visitatori che giungono da tutto il mondo non perdessero l’abitudine di incamminarsi da Amsterdam fin lì. Ma una parte, strepitosa, di quella stessa collezione ha preso, rarità senza precedenti, le vie del mondo. E in questa parte, è inclusa proprio La ragazza con l’orecchino di perla. Si è aperta la possibilità che il dipinto, prima di rientrare in Olanda definitivamente e dal Mauritshuis mai più muoversi, potesse, dopo New York, toccare un’ultima sede. E questa volta in Europa. A Bologna. A raccontare non solo l’evento legato alla presenza della Ragazza con l’orecchino di perla, ma anche l’intero secolo XVII in Olanda, la cosiddetta Golden Age, come recita il sottotitolo. Ulteriore, imperdibile occasione per vedere a confronto con Vermeer (presente con un secondo, grande dipinto, Diana e le sue ninfe) anche Rembrandt, compreso addirittura con quattro meravigliosi quadri. Ma poi, da Hals a Ter Borch, da Claesz a Van Goyen, da Van Honthorst a Hobbema, da Van Ruisdael a Steen, l’intero secolo sarà ripercorso attraverso i capolavori del Mauritshuis.

bene, fatte le dovute presentazioni, devo dire che la mostra è ricca di capolavori, di atmosfere uniche, di uno stile ineguagliabile. mi è piaciuto tutto.
i paesaggi 
Salomon van Ruysdael, Veduta di un lago con imbarcazioni a vela, 1650-1651 circa

Jan van Goyen, Veduta del Reno vicino a Hochelten, 1653
 i ritratti
Harmenszoon van Rijn Rembrandt, Ritratto di uomo anziano, 1667

gli interni con figure
Jan Steen, Ragazza che mangia ostriche, 1658-1660 circa

Jan Steen, Al vecchio che canta il giovane fa eco, 1665 circa
le nature morte
Carel Fabritius, Il cardellino, 1654
meraviglioso cardellino olandese, sei della stessa natura, ineffabile e misteriosa, dell'apparizione nella stanza successiva, l'ultima.
è sola, la mia ragazza, in una grande stanza buia, c'è solo lei, illuminata come una diva, circondata di gente, di ammiratori, tanti occhi sul tuo sguardo.
la mia passione per te nasce in tempi non sospetti, molto prima della tua partecipazione al libro di Tracy Chevalier, che ho anche letto, che ti ha trasformata dalla ragazza con il turbante, quale eri, nella ragazza con l'orecchino di perla. la mia passione nasce da giovane, nei miei studi liceali di storia dell'arte e diventa amore in un viaggio in Olanda - e lì, a casa tua, ti ho visto dal vivo per la prima volta- con i miei genitori, mia madre persa nel suo Alzheimer, mio padre ancora baldanzoso, ancora volitivo, impositivo e colto. mi portava in giro come un trofeo, io ero la sua ragazza con la laurea in medicina, brava, bravissima, sempre stata la prima della classe. mia madre, c'è una sua foto seduta su una panchina davanti al Mauritshuis, era disorientata, piccolina, rannicchiata e indifesa, come il cardellino di Carel Fabritius.


la mia ragazza me la sono portata dietro da quel viaggio e l'ho incorniciata e ce l'ho davanti al mio letto, nella mia camera da letto, da sempre, forse da prima che nascessi, io.
mi guardi da sempre, meno male.
tu sei la fanciulla con il turbante, questa è la verità, perchè quel turbante è il vero mistero. di donne con gli orecchini, di perla o meno, Vermeer ne ha dipinte anche altre, ma il turbante è solo tuo. da dove viene quest'idea, orientaleggiante: non certo dalla moda olandese. allora, tu, da dove vieni?, chi sei? è di due colori quel tuo turbante, una parte blu pare disegnata con la polvere di lapislazzuli, e una parte gialla che scende sul collo con una coda ed esalta il movimento appena intrapreso dal tuo corpo. ti sei appena voltata vero? chi ti ha chiamata? sei stupita, si vede, un turbamento lieve ti ha fatto voltare incuriosita. il tuo stupore si legge nei tuoi occhi, completamente riversi verso chi ti sta guardando, l'iride scolpita nell'angolo dell'occhio e tutta la bianca cornea dietro come una scia, e si vede dalla tua bocca, il vero capolavoro del tuo volto. è appena dischiusa, si intravedono i denti ma non sorridi, eppure sembri piacevolmente colpita, si vedono luccicare il tuo labbro inferiore e l'angolo sinistro nelle pieghe delle labbra. sono umide e risplendono alla luce che ti illumina. il tuo orecchino è un altro piccolo mistero, sarà di perla? non si direbbe, è argenteo, ed è solo individuabile dalla luce che si riflette nell'angolo superiore della sfera e dal riverbero su di esso del colletto bianco del tuo vestito. non si vede nessun gancio, sembra appeso per miracolo.
chi sei, bellissima ragazza? io lo so, sei la fantasia miracolosa del tuo autore, vieni dal nulla, sei divina, metafisica, sei la luce che viene da dentro, sei bastevole a te stessa, sei illuminata di te, sei il mistero della vita, sei lo sguardo più conturbante del mondo, sei l'immagine femminile più bella che io abbia mai visto.
e, guardandoti, alla mostra, ho pianto, come in un incontro fatale.