bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 31 gennaio 2019

L’ammore nun’è ammore

As an unperfect actor on the stage
Who with his fear is put besides his part

Comme a n’attore ‘e mezza tacca se scorda ‘o personaggio
quanno sta annanz’o pubblico e recita nu cesso

“Dario Jacobelli, poeta napoletano scomparso prematuramente nel 2013 si dedicò negli ultimi anni della sua vita alla traduzione in napoletano e al tradimento, come amava definirlo, di 30 Sonetti di Shakespeare. Non aveva scadenze, non doveva rispettare le indicazioni o correzioni di nessun editore. Per committenti aveva i suoi amici più cari ai quali dedicava ogni sua nuova traduzione. I Sonetti in napoletano suonano bene. Battono di un proprio cuore. Indossano una maschera che li costringe a sollevarsi dal foglio per prendere il volo, tenendo i piedi per terra. ”
Lino Musella
al teatro Franco Parenti di Milano con "L’ammore nun’è ammore".

si, i sonetti di Shakespeare tradotti in napoletano suonano bene, anzi, benissimo.
la voce di Lino Musella è forte e chiara e per me, che il napoletano non lo so, più che sufficiente per farmi apprezzare poesia e musicalità. nessun tradimento, come recita il libro di Dario Jacobelli (30 sonetti di Shakespeare traditi e tradotti da Dario Jacobelli) anzi, un'operazione davvero riuscita, musicale e teatrale, un vero godimento dell'anima. per ogni sonetto una messa in scena di parole e musica, un ritratto della bellezza così sentito da far commuvere, sono certa che il Bardo avrebbe approvato, la sua invocazione all'amore ha trovato casa negli accenti di Napoli.

Comme a n’attore ‘e mezza tacca se scorda ‘o personaggio
quanno sta annanz’o pubblico e recita nu cesso,
o pure comm'a na furia china 'e raggia,
che schiatta'ncuorpo po' na smania in eccesso.

Pur'io quanno nun me sento sicuro me scordo d'e parole
ca si vuò fa l'ammore ea dicere, fosse sul pe' decenza
e me tremmano e cosce e nu nureco in gola
E m'e 'nchiova 'a paura e all'ammore cu tutt'a putenza.

Sperammo allora ca 'sti versi miei, ca sulo chesto tengo
portarranno spia da' voce zitta e muta 'chisto core,
e chello ca desiderio 'a te, quanno addò vengo
Tu mo darraje, comme si t'essa parlato pe' doie ore.

Te prego, te scongiuro liegge e silenzi ca l'ammore mio te sape dì
pecchè bastano l'uocchie sulamente pe' chi l'ammore overo vo' capì


As an unperfect actor on the stage,
Who with his fear is put besides his part,
Or some fierce thing replete with too much rage,
Whose strength's abundance weakens his own heart;

So I, for fear of trust, forget to say
The perfect ceremony of love's rite,
And in mine own love's strength seem to decay,
O'ercharg'd with burden of mine own love's might.

O let my books be then the eloquence
And dumb presagers of my speaking breast,
Who plead for love and look for recompense
More than that tongue that more hath more express'd.

O, learn to read what silent love hath writ:
To hear with eyes belongs to love's fine wit.

domenica 27 gennaio 2019

Eduard Belsky, donne fate sogni






Affordable Art Fair 2019

sei

entro alla casa delle Cultura, via Borgogna, è martedì, sono le 20. mangio prima un hamburgher, entro presto, l'incontro è alle 20.30, ma ho paura di non prendere posto, ci sono Recalcati e Vegetti Finzi che parlano di corpo e desiderio, due psicoanalisti, e diverse psicoanalisi, a confronto, mi interessa. Vegetti Finzi non c'è, è malata, sono infastidita, di Recalcati che parla di corpo mi è già tutto noto e infatti nulla di nuovo mi giunge, serata senza soddisfazione. corpo pulsione desiderio amore eterosessuale amore per la donna per l'alterità corpo bulimico corpo anoressico sessuazione genitale pregenitale perverso polimorfo e la costola di adamo attrazione per la cosa fascinazione per il gesto. so tutto, esco, sono stanchissima e fa un freddo polare, delusa indispettita, esco sono su via Borgogna è la stessa via di prima
ma
non è più la stessa.
lungo i muri, prima accesi di luci, di gente, di negozi, di spese, di saldi, di aperitivi, di commercio, di ricchezza, di Milano mioddiocos'è diventata Milano che meraviglia Milano, di benessere, di lavoro ecco

lungo i muri

1
2
3
4
5
6

case di cartone
coperte, moltissime coperte
corpi sepolti
per terra
valigie
casse di cartone
case di cartone e di oggetti
piattini per l'elemosina
sporcizia
odore

6 sepolti vivi sotto le coperte
nessun volto
solo sagome di corpi
insieme
vicini
per evitare gli assalti
per fare gruppo
scongiurare la morte

6 sepolti
portano dall'uscita della casa delle cultura all'entrata della metropolitana di San Babila

due ragazzotti vicino a me commentano
acri
ostili
minacciosi
citano salvini
citano la merda
sono loro o quelli a terra?
ora sono le 22.15, passassero alle 12.15 chissà

6 sepolti vivi sotto le coperte in una notte di gelo
nella splendida milanomioddiocos'èdiventatamilano
separano la cultura dalla paura
entro in metrò
ma
non sto bene
non so
cosa farò
come sono
in che mondo vivo
milano

venerdì 25 gennaio 2019

Elliott Erwitt, ironia, empatia






No, non bisogna parlare — egli pensò, quand’ella gli passò avanti. — È un segreto necessario, importante per me solo e inesprimibile a parole.

“Ma io, guardando il moto delle stelle, non posso immaginarmi la rotazione della terra, e ho ragione di dire che le stelle camminano.
E gli astronomi potrebbero forse capire e calcolare qualcosa, se prendessero in considerazione tutti i complessi e svariati movimenti della terra? Tutte le loro meravigliose conclusioni sulle distanze, sul peso, sui moti e le rivoluzioni dei corpi celesti sono basate soltanto sul movimento apparente degli astri intorno alla terra immobile, su quello stesso moto che adesso è dinanzi a me e che è stato così per milioni di persone durante secoli ed è stato e sarà sempre eguale e potrà essere sempre controllato.
E proprio così come sarebbero oziose e incerte le conclusioni degli astronomi non basate sulle osservazioni del cielo visibile, in rapporto con un meridiano e un orizzonte, così sarebbero oziose e incerte anche le mie conclusioni non basate su quella comprensione del bene, che è stata e sarà sempre eguale per tutti e che mi viene dischiusa dal cristianesimo e può essere sempre controllata nell’anima mia. La questione poi delle altre credenze e dei loro rapporti con la Divinità, non ho io il diritto e la possibilità di risolverla”.
— Ah, non te ne sei andato? — disse a un tratto la voce di Kitty, che tornava in salotto. — Che hai, sei agitato da qualcosa? — ella disse, osservandogli attentamente il viso al chiarore delle stelle.
Tuttavia ella non avrebbe scorto bene il viso di lui se di nuovo un lampo, che nascose le stelle, non lo avesse illuminato. Alla luce del lampo ella guardò bene tutto il suo viso e, avendo visto ch’egli era calmo e gioioso, gli sorrise.
“Lei capisce — egli pensava — sa a che cosa penso. Devo dirglielo o no? Sì, glielo dirò”. Ma nel momento in cui egli voleva cominciare a parlare prese a parlare anche lei.
— Ecco, Kostja, fammi un piacere — ella disse — va’ nella stanza d’angolo e guarda come hanno accomodato tutto per Sergej Ivanovic. Che ci vada io non sta bene. L’hanno messo il lavabo nuovo?
— Va bene, ci andrò senz’altro — disse Levin, alzandosi e baciandola.
“No, non bisogna parlare — egli pensò, quand’ella gli passò avanti. — È un segreto necessario, importante per me solo e inesprimibile a parole.
Questo nuovo sentimento non mi ha cambiato, non mi ha reso felice, non mi ha rischiarato a un tratto, come sognavo, proprio come il sentimento per mio figlio. Anche qui non c’è stata nessuna sorpresa. E fede o non fede, non so cosa sia, ma questo sentimento è entrato in me egualmente inavvertito, attraverso la sofferenza, e si è fermato saldamente nell’anima.
Mi arrabbierò sempre alla stessa maniera contro Ivan il cocchiere, sempre alla stessa maniera discuterò, esprimerò a sproposito le mie idee, ci sarà lo stesso muro fra il tempio dell’anima mia e quello degli altri, e perfino mia moglie accuserò sempre alla stessa maniera del mio spavento e ne proverò rimorso; sempre alla stessa maniera, non capirò con la ragione perché prego e intanto pregherò, ma la mia vita adesso, tutta la mia vita, indipendentemente da tutto quello che mi può accadere, ogni suo attimo, non solo non è più senza senso, come prima, ma ha un indubitabile senso di bene, che io ho il potere di trasfondere in essa!”.


sono due i finali del romanzo di Tolstoj.
uno è dedicato ad Anna,
l'altro è dedicato a Levin.
io credo che nel libro lo spazio dedicato a quest'ultimo nel romanzo sia molto, ma molto, superiore a quello dedicato alla prima. e credo, certamente non solo io, che il favore dello scrittore vada a Levin, in tutto e per tutto.
a lui il compito di dipanare la vita, di torturarsi alla ricerca di un senso, di trovarlo al fine nella compiutezza del Bene, quello che lui ha il potere di trasfondere in essa.
se Anna ha strappato l'esistenza travolta dalla mancanza di senso che la sua avidità di possesso del tutto ha corroso fino alla morte, Levin acquisisce passo dopo passo l'andamento possibile della vita.
se Anna è divorata dal sollevamento del velo, se delira nella convinzione che dell'altro dobbiamo vedere le viscere e conoscere ogni pensiero, Levin sa che No, non bisogna parlare —  È un segreto necessario, importante per me solo e inesprimibile a parole.
quanti errori passano dall'idea che l'amore sia completa conoscenza.
casomai, è proprio l'accettazione del totale mistero. 

giovedì 24 gennaio 2019

psychosis 4.48

Un attacco d'urla denota l'impellente collasso nervoso
Solo una parola sulla pagina ed ecco il dramma.
Io scrivo per il morto
Per il mai nato
Dopo le 4:48 non dovrei più parlare
Ho raggiunto la fine della desolata e ripugnante favola di un giudizio internato in una carcassa aliena, deformato dallo spirito maligno della maggioranza morale.
Sono stata morta per molto tempo
tornata alle radici
Canto senza speranza al confine


spettacolo incredibile
un'ora
terriccio per terra, lampadari rotti, pezzi di vetro, palline di una tombola
entra, vestita di uno straccio, spettinata, occhi bistrati
guarda, con occhi immensi, il pubblico, guarda e tocca, del suo pubblico, i visceri, il cervello e la pancia
parla, lancia parole come pallottole
a volte illogiche
a volte sparse 
a volte commoventi devastanti
a volte intelligenti
a volte poetiche
la voce è roca, è interiore, è piangente, supplicante, tenera e carnea
c'è odore, acre di terra, di sudore, di psicosi
lei è, come non succedde spesso, l'ho visto solo qualche volta, quel che dice
lei è matta, lei è a pezzi, lei è dissociata, lei è arrabbiata, lei è disperata, lei è il corpo della sofferenza
non dice con il cervello, dice con il corpo
lei è Elena Arvigo, un genio della scena, attrice vera
il testo è Psychosis 4.48
l'autrice è Sarah Kane, drammaturga inglese morta suicida 20 anni fa, poco dopo la stesura, senza spazio senza tempo, di questo testo testimonianza.
“Il mio è un teatro profano ma non osceno. Pensano che i miei lavori siano deprimenti mentre io parlo di speranza. Per me la funzione del teatro è quella di far sperimentare una cosa attraverso l’arte in modo che non ci sia più la necessità di sperimentarla effettivamente nella vita reale. Se sperimentiamo in teatro, come pubblico, quel che significa commettere un atto di violenza estrema, magari ne proveremo una repulsione tale da impedirci di andare a commettere un atto di violenza estrema fuori nelle strade. Io credo che la gente possa cambiare, e credo sia possibile cambiare il nostro futuro, ed è per questo che scrivo quello che scrivo”. (Sarah Kane)

"Non è stato a lungo, Non era a lungo, Io non ero li a lungo. Ma bevendo caffè amaro nero, Ho catturato l'odore di medicinali in una nuvola di tabacco atavico,e qualcosa mi tocca ancora in quel posto, e una ferita di due anni fa si apre come un cadavere e una vergogna seppellita da tempo ruggisce il suo orrendo orrore decomposto.
Una stanza di facce inespressive osserva blandamente il mio dolore, così privo d'intenzione dev'essere il male.
Dott Questo e Dottor quello e il dott "Cos'è quello" che sta passando e deve aver pensato di fare una puntata per stuzzicare.

Bruciando in un rovente tunnel di sbigottimento, la mia umiliazione è completa,mentre tremo senza ragione e balbetto, senza aver niente da dire riguardo la mia "malattia" , che in ogni modo riguarda solo il fatto che nulla è importante, visto che tanto morirò.

E sono incagliata da quella calma voce psichiatrica che mi dice che esiste una realtà obbiettiva in cui il mio corpo e la mia mente sono una cosa sola.
Ma io non sono qui, e non ci sono mai stata, dott Questo prende appunti e dott Quello si sforza in un simpatico mormorio.
Osservandomi, giudicandomi, annusando l'aroma di fallimento debilitante che sgorga dalla mia pelle,la mia graffiante disperazione e il panico debilitante , mentre mi apro terrorizzata al mondo, chiedendomi perchè tutti mi sorridono e mi guardano, consci della mia vergogna.
Vergogna Vergogna VERGOGNA


“Liberarsi di quello che lo inquieta” ripeté Anna

E a un tratto si ricordò dell’uomo schiacciato al suo primo incontro con Vronskij e capì quello che doveva fare. Dopo essere scesa con passo veloce, leggero, per i gradini che andavano verso le rotaie, si fermò accanto al treno che le passava vicinissimo. Guardava la parte sottostante dei carri, le viti e le catene e le ruote alte di ghisa del primo carro che scivolava lento, e cercava di stabilire con l’occhio il punto mediano fra le ruote anteriori e le posteriori e il momento in cui questo punto mediano sarebbe stato di fronte a lei.
“Là — si diceva, guardando nell’ombra del carro la sabbia mista a carbone di cui erano sparse le traverse — là, proprio nel mezzo, e lo punirò, e mi libererò da tutti e da me stessa”.
Voleva cadere sotto il primo vagone che giungesse alla sua altezza nel punto mediano; ma la sacca rossa che aveva preso a togliere dal braccio, la trattenne, ed era già tardi; il punto mediano le era passato accanto. Bisognava aspettare il vagone seguente. Un sentimento simile a quello che provava quando, facendo il bagno, si preparava a entrar nell’acqua, la prese, ed ella si fece il segno della croce. Il gesto abituale della croce suscitò nell’anima sua tutta una serie di ricordi verginali e infantili, e a un tratto l’oscurità che per lei copriva tutto si lacerò, e la vita le apparve per un attimo con tutte le sue luminose gioie passate. Ma ella non staccava gli occhi dalle ruote del secondo vagone che si avvicinava. E proprio nel momento in cui il punto mediano fra le ruote giunse alla sua altezza, ella gettò indietro la sacca rosso, ritirò la testa fra le spalle, cadde sulle mani sotto il vagone e con movimento leggero, quasi preparandosi a rialzarsi subito, si lasciò andare in ginocchio. E in quell’attimo stesso inorridì di quello che faceva. “Dove sono? che faccio? perché?”. Voleva sollevarsi, ripiegarsi all’indietro, ma qualcosa di enorme, di inesorabile la colpì alla testa e la trascinò per la schiena. “Signore, perdonami tutto!” ella disse, sentendo l’impossibilità della lotta. Un contadino, dicendo qualcosa, lavorava su del ferro. E la candela, alla cui luce aveva letto il libro pieno di ansie e di inganni, di dolore e di male, avvampò di una luce più viva che mai, le schiarì tutto quello che prima era nelle tenebre, crepitò, prese ad oscurarsi e si spense per sempre.

continuo a pensare alla dinamica del suicidio di Anna e cerco di immaginarmela. non capisco tutti i passi e faccio fatica a visualizzare la scena. non so pechè qualcosa mi si oscura nel cervello e perdo la lucidità per capire. questo passo è pieno di dettagli inquietanti, come la sacca rossa, il contadino che lavora sul ferro (soggetto presente negli incubi di Anna che presagise la tragedia) e la candela che si spegne (riferimento a un passo i cui Anna pensa “Sì, mi agita molto, e la ragione è data per liberarsene; perciò bisogna liberarsene. E perché non spegnere la candela, quando non c’è più nulla da guardare, quando fa ribrezzo guardare tutto? Ma come? Perché questo capotreno è passato di corsa sulla traversa? perché gridano quei giovani, in quello scompartimento? Perché parlano, perché ridono? Tutto è menzogna, tutto inganno, tutto malvagità...”.).
leggo e rileggo, ascolto all'audiolibro, e qualcosa mi sfugge e mi inquieta. Anna muore per vendetta, sapendo, e godendo, e sperando che lui soffrirà, verrà punito, e si pentirà del male che, lei pensa, lui le ha fatto. ciò che Anna desidera è una dedizione assoluta che preveda solo il suo nome scritto nella mente dell'altro, auspica un possedimento completo dell'altro: lei deve essere l'unico motivo di vita dell'altro, e niente di meno è accettabile, e per avere questo assoluto è disposta a perdere la sua vita, dimentica che poi non ne potrà godere. la passione senza velo, che alza il velo dell'impossibile, è solo l'anticamera della morte.
questo libro, nei passi su Anna rasenta davvero l'assoluto, nulla può andare più vicino alla narrazione dell'eros che si fonde con la morte di questo romanzo.
mi inquieta che nulla di simile si possa mai più scrivere, ma almeno una volta è stato scritto. 

venerdì 18 gennaio 2019

la morte di Nikolaj, la nascita di Dmitrij

la morte
Mentre il prete leggeva la preghiera, il morente non dava alcun segno di vita; gli occhi erano chiusi. Levin, Kitty e Mar’ja Nikolaevna stavano in piedi accanto al letto. 
Il prete non aveva ancora finito di leggere, che il morente si stirò, sospirò e aprì gli occhi. Il prete, finita la preghiera, appoggiò sulla fronte fredda la croce, poi la ravvolse lentamente nella stola e, dopo aver sostato ancora due minuti in silenzio, toccò la mano enorme, divenuta fredda ed esangue. — È finito — disse il prete e voleva andar via; ma improvvisamente i baffi sottili del morente si mossero, e con chiarezza nel silenzio, emessi dal profondo del petto, si sentirono i suoni netti e precisi: 
— Non del tutto.... Presto. 
Dopo un istante il viso si rischiarò, sotto i baffi apparve un sorriso, e le donne, raccoltesi, si diedero a vestire il morto, affaccendandosi. La vista del fratello e la presenza della morte rinnovarono nell’animo di Levin quel senso di paura dinanzi all’inesplicabile inevitabilità della morte, che lo aveva sconvolto quella sera d’autunno, quando il fratello era giunto da lui. Questo senso, adesso, era ancora più forte; ancora meno di prima egli si sentiva in grado di capire il senso della morte, e ancora più terribile gliene appariva l’inevitabilità; ma ora, grazie alla vicinanza della moglie, questo senso non lo gettava nella disperazione: malgrado la morte, egli sentiva la necessità di vivere e di amare. Sentiva che l’amore lo salvava dalla disperazione e che l’amore, sotto la minaccia della disperazione, diveniva ancora più forte e puro. Dinanzi ai suoi occhi si era appena compiuto un mistero di morte, rimasto sempre inesplicabile, che ne sorgeva un altro, altrettanto inesplicabile, che richiamava all’amore e alla vita. Il medico confermò le sue supposizioni riguardo a Kitty. Il suo malessere era dovuto alla gravidanza.

la nascita
Fuori di sé, entrò di corsa nella stanza da letto. La prima cosa che vide fu il viso di Lizaveta Petrovna. Esso era ancora più agitato e più severo. Il viso di Kitty non c’era più. Nel posto dov’era prima, c’era qualcosa di mostruoso e per l’aspetto di tensione e per il suono che ne usciva. Egli cadde con la testa sul legno del letto, sentendo che il cuore gli si spezzava. L’orribile grido non finiva, s’era fatto ancora più orribile, ma poi, come se fosse giunto al limite estremo dell’orrore, si calmò a un tratto. Levin non credeva al proprio udito, ma non si poteva dubitare: il grido s’era calmato e si sentiva un silenzioso affaccendarsi, un fruscio, un respirare ansioso, e la voce di lei felice e affannata, viva e tenera che pronunciava piano: “È finito”.
Egli sollevò il capo. Abbassate sulla coperta le braccia senza forza, straordinariamente bella e calma, ella lo guardava senza parole e voleva, ma non poteva sorridere. E a un tratto da quel mondo misterioso e orribile, estraneo, in cui aveva vissuto in quelle ventidue ore, Levin si sentì trasportato in un attimo nel mondo solito di prima, ma splendente, adesso, d’una tale luce nuova di felicità, ch’egli non la sopportò. Le corde tese si strapparono tutte. Singhiozzi e lacrime di gioia, ch’egli non aveva in nessun modo preveduto, si sollevarono in lui con una forza tale, agitando tutto il suo corpo, che per lungo tempo gli impedirono di parlare. Caduto in ginocchio davanti al letto, egli teneva dinanzi alle labbra la mano della moglie e la baciava, e questa mano con un debole movimento delle dita rispondeva ai suoi baci. E intanto, là, ai piedi del letto, nelle abili mani di Lizaveta Petrovna, come la fiammella d’una lampada, oscillava la vita d’un essere umano che prima non c’era mai stato e che avrebbe vissuto e creato degli altri esseri nello stesso modo, con lo stesso diritto, con la stessa importanza di sé.
— Vivo! vivo! È pure un maschio! Non vi agitate! —
Levin sentì la voce di Lizaveta Petrovna, che batteva con la mano tremante la schiena del bambino. — Mamma, è vero? — disse la voce di Kitty.
Le risposero i singhiozzi della principessa. E in mezzo al silenzio, come una risposta indubitabile alla domanda della madre, si sentì una voce affatto diversa da tutte le voci che parlavano nella camera. Era il grido ardito, temerario, che non voleva considerare nulla, d’un nuovo essere umano, che non si capiva donde fosse venuto fuori. Prima, se avessero detto a Levin che Kitty era morta e che lui era morto insieme con lei, e che avevano per bambini gli angeli, e che Dio era lì dinanzi a loro, non si sarebbe stupito di nulla; ma adesso, tornato nel mondo della realtà, faceva grandi sforzi per capire ch’ella era viva, sana e che l’essere che strideva in modo così disperato era suo figlio. Kitty era viva, le sofferenze erano finite. Ed egli era inesprimibilmente felice. Questo lo capiva e ne era pienamente soddisfatto. Ma il bambino? Donde veniva, perché, chi era? Non poteva in nessun modo abituarsi a questo pensiero. Gli sembrava qualcosa di superfluo, una sovrabbondanza a cui per lungo tempo non poté abituarsi. 
... 
Quello ch’egli provava per quel piccolo essere era proprio tutt’altra cosa da quello che si aspettava. Non c’era nulla di allegro e di gioioso in questo sentimento; al contrario, un nuovo senso di paura. Era la coscienza di un nuovo campo di vulnerabilità. E questa coscienza era così tormentosa nei primi tempi, il terrore che quell’essere impotente soffrisse era così forte, che proprio per questo non avvertiva lo strano sentimento di spensierata gioia e perfino di orgoglio ch’egli aveva provato proprio nel momento in cui il bambino aveva starnutito.
(Anna Karenina, Lev Tolstoj)


la morte, la vita, l'inizio e la fine del nulla.

giovedì 17 gennaio 2019

musicomane De Andrè

Cosa avrebbe potuto fare alla fine degli anni Cinquanta un giovane nottambulo, incazzato, mediamente colto, sensibile alle vistose infamie di classe, innamorato dei topi e dei piccioni, forte bevitore, vagheggiatore di ogni miglioramento sociale, amico delle bagasce, cantore feroce di qualunque cordata politica, sposo inaffidabile, musicomane e assatanato di qualsiasi pezzo di carta stampata? Se fosse sopravvissuto e gliene si fosse data l’occasione, costui, molto probabilmente, sarebbe diventato un cantautore. Così infatti è stato ma ci voleva un esempio. 
Fabrizio De André

non mi aspettavo una serata jazz, e invece è arrivata, regalata.

alla fondazione Feltrinelli c'è la presentazione di un libro, Falegname di Parole di Luigi Viva e mi aspetto dei reading, delle chiacchiere, interviste, qualche canzone con la chitarra.
invece mi si presenta, seppure con bei 20 minuti di ritardo, un signore, il sig. Luigi Viva, che mi parla del poeta con molta confidenza e vicinanza. non so chi sia, poi mi si chiarisce che di Fabrizio De Andrè era collaboratore e amico. il signore in questione dice alcune cose azzardate ma lo perdono perchè mi confida anche molte informazioni sull'uomo e sul cantante, sull'anarchico e sull'uomo civile e c'è da appassionarsi.
inoltre c'è il Modern Jazz Group (Luigi Masciari, arrangiamenti e direzione musicale; Francesco Bearzatti, sax; Pietro Iodice, batteria; Giampiero Locatelli, piano; Alfredo Paixão, basso) composta da personaggi improbabili, ma assolutamente godibili.
suonano de Andrè jazzandolo: come scriveva Fresu su La Lettura, si può fare, con De Andrè si può fare.
vengono narrati aneddoti, ci sono poche foto ma molte interviste audio inedite. si sente solo la voce magnetica di De Andrè che parla di musica e di scherzi e di impegno politico e della nonna: sentire la voce che parla di una persona che non c'è più mi fa un effetto potente, mi sento commuovere, mi sento attratta da un mistero che nessuno può capire.
scopro che Fabrizio De Andrè e Tenco si conoscevano già dai tempi del Modern Jazz Group (1956/58) dove avevano militato entrambi, Fabrizio alla chitarra, e Luigi - presenza saltuaria - al sax.
Così De Andrè riferì a Luigi Viva quel primo incontro: 
"A quel tempo ci conoscevamo appena, con lui le prove non le ho mai fatte; arrivava, suonava e subito dopo se ne andava". La vera amicizia tra i due nacque nel 1960, quando arrivò il primo successo di Tenco con "Quando": De Andrè andava in giro affermando di essere lui l'autore della canzone. un giorno, alla Cambusa di Piazza De Ferrari, Tenco lo affrontò. Così Gianfranco Reverberi racconta l'episodio a Luigi Viva: "Mi ricordo quando Luigi, divertito, mi raccontò questa storia. Si conoscevano appena e gli era giunta voce che Fabrizio andava in giro dicendo che "Quando" l'aveva scritta lui. Luigi non ci pensò due volte e andò a cercarlo. Una sera finalmente lo incontra e gli fa: - senti un po', sei tu che vai in giro dicendo che hai scritto "Quando"? A questo punto pare che Fabrizio gli abbia risposto: - guarda, ero con una donna alla quale piaceva "Quando". Ho detto che l'ho scritta io e me la sono fatta. Al che Luigi, scoppiando a ridere: - Beh! Se le cose stanno così..."  (http://luigi-tenco.tripod.com/frames/deandre.htm)
durante il concerto un signore, mooolto bizzarro, in prima fila, con capelli bianchi ma lunghi raccolti in un codino, si agita pazzamente. si scompone, si muove a tempo di musica, sembra dirigere un'orchestra. il signore degli azzardi allude al disturbatore in prima fila e penso oddio adesso lo buttano fuori. invece è un simpatico scherzo (sono cretina) e lo chiama sul palco. si tratta di Mark Harris, non lo conosco, però si mette al piano e mi fa ammattire di gioia.
scopro che è un compositore e tastierista statunitense che ha collaborato e suonato con De Andrè per molti anni ed è un giullare felice della musica, si agita al piano come sulla sedia, è matto, è adorabile.
una serata che più improbabile non si può, ancora De Andrè mi spezza il cuore. mille di questi giorni.

domenica 13 gennaio 2019

Lion la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco

Chimera 
Suo padre fu Tifone, il cui corpo gigantesco culminava in cento teste di drago. Giace relegato sotto una delle isole vulcaniche della nostra terra (Ischia o la Sicilia), ancora fremente della rabbia che lo porto' un giorno lontano a sfidare gli dei, a cacciarli dall'Olimpo ed a ferire Zeus. 
Sua madre fu Echidna, la vipera, per meta' donna bellissima e per meta' orribile serpente maculato. Viveva in un antro delle terre di Lidia, cibandosi della carne degli sventurati viaggiatori.
Chimera e' solo uno degli esseri mostruosi generati da Tifone ed Echidna. Suoi fratelli furono Cerbero, cane infernale dalle tre teste, la famosa Idra uccisa da Eracle, e Ortro feroce cane a due teste guardiano delle mandrie del gigante Gerione. 
Molte e diverse sono le rappresentazioni iconografiche del mostro leggendario.  All'Iliade invece sembra ispirato l'artefice della Chimera di Arezzo, leone davanti, capra sul dorso e serpente dietro.
(http://www.etr.it/castelli/novelle/chimera.htm)


"Lion la testa, il petto capra, e drago la coda; 
e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco ... "
(Iliade, VI, 223-225 )

la Chimera appare su un prezioso vaso etrusco conservato al Museo Archeologico, spunto per il titolo della mostra che indaga il legame tra Milano e gli etruschi. "Il Viaggio della Chimera" è una bella, bellissima, esposizione di oggetti e manufatti etruschi, di una bellezza spiazzante. è straordinario osservare il genio artistico dell'uomo e parliamo del VI secolo a.C. ce ne dimentichiamo, ma siamo e siamo stati capaci di bellezze eccelse.











venerdì 11 gennaio 2019

la signorina Else, a teatro

"Vorrei gridare il mio saluto al cielo prima di tornare giù in mezzo alla gente. Ma dove andrà il mio saluto? Sono così sola. Terribilmente sola, tanto che nessuno può immaginare la mia solitudine. Amore mio, io ti saluto. Chi sei? Ti saluto mio promesso sposo! Ma chi sei?"

La signorina Else, di Arthur Schnitzler (1924)

che bella la rappresentazione di Tiezzi al Piccolo Teatro Studio.
si tratta di un testo straordinario, che conosco bene, e ho letto più volte, di enorme intensità, di veridicità psichica, di discesa negli inferi dell'angoscia.
ne ho anche già scritto, folgorata dalla lettura (https://nuovateoria.blogspot.com/2013/09/la-signorina-else.html)
Else cade, lasciata cadere dalla perdita di un padre che la vende per interessi, sola, massacrata dalla colpa e dalla vergogna, accasciata dal simbolico che perde consistenza. colui che dovrebbe proteggerla, così giovane e sognante, tramite la "voce" della madre la getta nel reale più insopportabile, ovvero lo sguardo perverso dell'altro, lo sguardo adulto che chiede soddisfazione, lo sguardo senza pietas. 
spogliata delle sue difese contro l'invadenza del mondo, si mostra nuda e perde la testa e il senno, si perde, entra in angoscia, va in confusione, perde i riferimenti reali, uomini e donne della bella società viennese perdono i connotati umani e diventano i mostri dei peggiori incubi, allucinazioni e deliri. meglio morire, non si deve avere paura di morire se questo è vivere.
come già scrivevo anni fa, Else si spacca letteralmente, si frantuma, senza un senso che possa tenerla insieme. la salvezza del padre passa attraverso il suo corpo, la sua mercificazione. una giovane donna di 19 anni, e questo valeva allora come oggi anche se le apparenze odierne di semplificazione e accelerazione sessuale potrebbero far pensare il contrario, non è in grado di tenere insieme una visione unitaria della propria persona quando da una parte deve rispondere a una responsabilizzazione così schiacciante e dall'altra deve cedere un corpo che ancora non conosce, che ancora non sente suo, un corpo giocattolo che ancora non ha conosciuto l'attenzione dell'amore e che già deve svendersi in un gesto di prostituzione. vaneggia su di sé, la sua bellezza, le sue prime fantasie ed esperienze nell'illusione di avere consapevolezza del proprio corpo, e quindi di essere preparata a un gesto così seduttivo e spudorato, ma si vede proiettata in una dimensione conflittuale con la sua formazione, l'educazione genitoriale che l'ha sostenuta fino ad allora: è proprio dai suoi genitori che arriva il dettato di usare il suo corpo per ottenere un sostegno economico. come si conciliano due indicazioni così profondamente antitetiche, dove aggrapparsi per tenere salda la propria integrità se proprio da lì, ove riteniamo origini e trovi sostegno e protezione, riceve l'indicazione di sfaldarsi?
Schnitzler e Freud si parlavano, si stimavano, si scrivevano, uno trovava nell'altro conferma delle proprie intuizioni.
certo, a Schnitzler spetta l'arte della scrittura.
e a Federico Tiezzi l'arte della regia.
bella presentazione scenica, bellissima, strepitoso quel fine sequenza con volti sfigurati dall'angoscia  trasformati inmascgere aliene (e la maschera di coccodrillo riprende lo spettacolo dell'anno scorso sull'interpretazione dei sogni di Freud, proprio a segnarne una continuità artista intellettuale e interpretativa) e con le rose rosse sparse sul terreno, vicino al tavolo anatomico, luogo della vivisezione della vita di Else, luogo del sacrificio della purezza in nome del cinismo.
strepitosi i suoi interpreti, Lucrezia Guidone e Martino D’Amico, ancora una volta il teatro mi sa dare momenti di gioia esaltante.





giovedì 10 gennaio 2019

blue note again

ci prendo gusto, Fabrizio Bosso e Enrico Rava.
la sera, notte, al Blue Note è una goduria.
le trombe evocano grandi spazi, per me.
poi dormo male, ho freddo nel letto, ma fa parte del pacchetto.
anche le occhiaia e l'aria tirata.
e poi i giochetti con le foto.





lunedì 7 gennaio 2019

librastro

è che non vorrei che si dicesse che ho dei pregiudizi.
allora leggo anche quello che non leggerei per mio interesse ma che è meglio che io legga per farmi un'opinione.
non posso dire che mi abbia delusa.
non mi aspettavo nulla. potrei rimanere delusa leggendo Roth o Oz o Ernaux o Murakami o Tolstoj, ovvero laddove io abbia aspettative, altissime. 
non posso dire che mi abbia annoiata.
in verità, carpita una certa rivelazione, l'ho letto in poche sere, 4 o 5, ci ho messo un lampo. un libricino, intendiamoci, sebbene di 196 pagine (davvero??). certo per leggere Gli anni di Ernaux ci ho messo due mesi, forse di più, ma non per il volume di pagine, per la corpulenza della parola.
non posso dire che non mi sia piaciuto.
ricordo quando ho letto il racconto collettivo su La Lettura, un esperimento di scrittura a più mani, edito a puntate sull'inserto del Corriere, come si faceva una volta. vi hanno partecipato diversi scrittori, tra i quali Avallone, Veronesi, Genovesi, Trevi, Ciabatti e altri. al termine dell'esperimento gli 8 scrittori si sono ritrovati alla sala Buzzati della Fondazione Corriere e ne hanno dibattuto. non sono andata all'incontro, ma mi ero iscritta, ma ho letto il resoconto dell'intervista su La Lettura. era interessante leggere degli scrittori che ne discutevano tra loro, erano tutti contenti, tutti amici, tutti soddisfatti, tutti divertiti, tutti esaltati. ma come siamo stati bravi. non uno, dico NON UNO, che si sia chiesto: ma com'è venuto? sarà piaciuto? com'era il racconto nella sua globalità? è venuto bene l'esperimento?
posso rispondere io: NO. il racconto era brutto, noioso, ovviamente senza alcuno stile (dato che ci hanno scritto in 8), una lettura e una scrittura davvero deprimenti.
è straordinaria la vanità degli scrittori, e solo raramente è ben riposta.
non posso dire che sia scritto male. 
diciamo che non è scritto. frasi brevi, spezzate, quasi mai compiute, in un periodo si passa repentinamente dalla prima (io) alla terza persona (Noemi), a volte proprio non si capisce. no, non si capisce. a volte manca il verbo, a volte il soggetto, a volte non regge la frase. potrebbe trattarsi di un tentativo di trascrivere il pensiero senza mediazione della sintassi ma, no, nemmeno quello, è spesso un'accozzaglia di parole. alla fine del libro rincorrevo il senso senza reperirlo.
non posso dire che sia banale.
potrei dire che non si coglie il tema, per quanto ci sia un tentativo estremo, maldestro, di spiegarlo, di spiattellarlo a tutti i costi. il problema è che chi scrive ci tiene molto a spiegarti le cose, le sue cose, a dirti come funzionano le cose, le sue e quelle degli altri, fa dire ai personaggi non quel che si dice ma quel che si vorrebbe far capire. non è la storia che dice dei personaggi e da loro un senso, ma i personaggi che dicono, che spiegano, la storia. ci sono dettagli assolutamente inutili, uno poi mi ha colpito mortalmente, purtroppo nelle primissime pagine ed è lì che mi sono giocata il libro. il presunto rapitore si presenta in farmacia a chiede di acquistare il farmaco per curare le allergie di cui soffre il fratello rapito. chi scrive (uno scrittore??) specifica che il presunto rapitore non chiede il generico ma il farmaco di marca.
ora.
diciamocelo.
ma che dettaglio è?
ho aspettato la fine del libro per capire se quel dettaglio (è un libro giallo?) avesse una ragion d'essere e no, non ce l'ha. inoltre si tratta di un errore grossolano perché se ho capito l'epoca in cui si fa accadere il rapimento (senza cellulari, con le cornette del telefono, con gli elenchi telefonici) i generici dei farmaci proprio non erano in voga. quindi si tratta di un dettaglio non solo inutile ma anche sbagliato.
è vero che oggi si pubblicano libri immondi e di tutti i tipi e che l'editoria fa pena, ma qui, chi ha letto il libro prima di pubblicarlo (qualcuno lo ha letto??) non ha chiesto ragioni di questa dettagliata deragliata imprecisione?
o forse, chissà, mi sono persa qualcosa…
non posso dire che non mi piaccia il genere.
perchè non c'è alcun genere, non mi sono orientata nelle persone, nelle storie, nei personaggi, nelle parole, nelle descrizioni, nelle metafore, nelle allusioni, nei rimandi, nelle fantasie (ammesso che ci fossero), non c'è genere perché oggi chi scrive in Italia ha idee molto confuse su cosa sia la scrittura. e pure pensa di insegnarmelo come è accaduto nella mia assolutamente fallimentare esperienza alla scuola Molly Bloom. vergogna.
insomma cosa posso dire di "Matrigna" di Teresa Ciabatti?
che mi ha fatto schifo.

venerdì 4 gennaio 2019

novecento atto I

ho scoperto che c'era anche la madre di una mia amica.
lo ha definito consolatorio.
potrei dire lo stesso, anche se la mia consolazione non può essere paragonata a quella della madre della mia amica che ha appena perso una figlia di 56 anni, morta di tumore il 26 dicembre 2018.
qualcosa ha colto anche me, nel senso di una consolazione, non saprei bene dire perchè, ma questa definizione si addice alla disposizione di spirito con cui sono uscita dalla cineteca Oberdan, domenica scorsa. la cineteca Oberdan è la mia seconda casa, e figurarsi che a volte mi dico che non la frequento abbastanza, perdo un sacco di film (di tutta la rassegna su Michelangelo Antonioni, e tutta quella su Zhang Yimou, ne ho visto o rivisto solo pochi titoli) ma, in questo caso, ovvero la rassegna su Bernardo Bertolucci, non ho perso praticamente nessun film, complici le festività natalizie.
non saprei se ho un titolo preferito, nel senso che Il te nel deserto e Ultimo tango a Parigi sono due enormità, e nel senso che ad ogni visione si aggiunge una valutazione positiva, una atto consolatorio sul cinema. così so per certo che ci sono stati grandissimi cineasti, e alcuni di casa nostra.
nel caso di Novecento, di cui domenica 6 gennaio vedrò la seconda parte, mi travolge il senso della storia, per quanto io sia al corrente delle polemiche insorte alla sua uscita. sono poco interessata all'adesione assoluta alla realtà, mi interessa lo spirito utopico e idealista: l'ho condiviso con tutta la mia forza per cui ritrovarlo per quasi tre ore di film mi ha restituito solo un grandissimo sollievo.
devo dire però che l'emozione più forte è stato vedere, da un certo punto in poi della narrazione del film, gli attori che lo hanno animato nel pieno della loro rigogliosa e bellissima giovinezza. parlo di De Niro, di Depardieu, della Sandrelli, della Betti (sempre perversa), di Sutherland, della Sanda. 
ho provato gioia, emozione, euforia. ma perchè dico io? ma perchè tanta emozione nel vedere attori ormai anziani in un'epoca in cui erano belli giovani e proiettati nel futuro. forse nella mia testa ha operato una sorta di coincidenza tra le speranze socialiste del film e la giovane età e la bellezza fisica e la proiezione di vita tutta intera. non ho pensato neanche per un attimo che è andato tutto in malora, il pensiero non mi ha sfiorato mai, ho creduto, come mi capita al cinema, che tutto fosse possibile, anche l'uguaglianza, o meglio la lotta per l'uguaglianza, e la forza della vita quando è potente e generativa. certamente non è a me che penso, è ai miei figli, ma anche questo è un atto di idealismo totale considerato che nessuno di questi pensieri li sfiora minimamente: metto in loro speranze che non coltivano, e in questo senso, un altro film, "Lontano da qui" di Sara Colangelo, mi ha colta sul vivo proponendo la disperata necessità di poesia e di bellezza di una madre che vede sfiorire le proprie idealità osservando figli, e un mondo, che proprio non le somigliano.
è la fatica più grande della genitorialità adulta, accettare l'assoluta diversità dei figli da noi.
posso continuamente mettere nel piatto richiami culturali ma rischio solo di stare male nel vederli continuamente rifiutati. 
quindi si, è stato consolatorio andare al cinema a vedere Novecento atto I.
quel che rischio è di finire di credere solo nei film, e quando sono al cinema credo di una fede assoluta, quando invece il reale mi racconta tutta un'altra storia.


giovedì 3 gennaio 2019

Pavia



























che bella Pavia, che giornata fantastica.