bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 31 dicembre 2018

sabato 29 dicembre 2018

Amos Oz

è morto.
un'altra stella cade.
nel buio non si scorge più niente.

mercoledì 26 dicembre 2018

santo natale

il natale è venuto male, come una ricetta sbagliata, indigesta.
gli ingredienti non erano buoni, ognuno ha fatto la sua parte.
il fratello pensa sempre di essere sul set, non deve rilasciare o fare un'intervista, si dimentica che è a casa, elargisce i regali come un'elemosina, esce senza sapere niente di noi, non ha chiesto nulla su nessuno, esce quindi come è entrato. spiacevole.
la sorella spara a zero su anaffettività e "con tutto quello che si fa per voi", non sa nemmeno di cosa parla, è chiaro che non pensa, ma ha fiato e lo mette nella ramanzina. spiacevole e inopportuna.
la madre non si smentisce mai, presenza acida e distruttiva, fa scenate e si lamenta, arma la figlia contro il fratello, la figlia è parlata dalla madre, che brutta cosa le famiglie, tutte perverse. spiacevole, inopportuna e sgradita.
ora rimediamo, quel che si fa per voi deve sparire, così sarà chiaro che per noi non si fa niente, facciamo da soli da sempre. quel che governa il fare per voi è il denaro, il cognato fa perchè i soldi nemmeno più sa dove metterli, ma il fare dei soldi governa la mente degli stolti.
nel tempo la separazione è diventata totale e insanabile, anche i cugini lo sentono, non si parlano più, noia, tutti a capo chino sul proprio cellulare, una fotografia agghiacciante, per me possiamo smettere domani.
ma si sa, la forza maligna delle tradizioni di famiglia è più forte di ogni buon senso.
quel che c'è di buono sono il libro su Ver Sacrum

e il cd di Gerald Clayton
il resto spero di digerirlo presto e la fisiologia farà il suo corso.

venerdì 21 dicembre 2018

l'eclisse - ci vediamo domani e dopodomani e l'altro ancora e stasera


un accadimento ogni 10 minuti.
lento, ma il film è potente.
dice cose importanti.
dice che l'amore non c'entra con l'uguaglianza. nè con la diversità.
l'amore c'entra solo con l'amore, che non ha motivi, nè definizioni, è una fede senza prova, un dogma.
quella bellezza di quell'amore, e solo di quello, che non ha nulla da dire se non la bellezza dello stare insieme ridendo, durerà un istante e non tornerà mai più.
e dopo essersi dati un appuntamento alla stessa ora nello stesso posto ("ci vediamo domani e dopodomani e l'altro ancora e stasera") i due amanti si lasciano celando qualcosa e, mentre il sole si eclissa, il pulman passa alla stessa ora, nessuno dei due si presenterà.
un finale aghiacciante, un quadro di De Chirico, direi senza speranza se non quella del ricordo.
il film è un monumento alla bellezza di Monica Vitti, per non parlare di quella di Alain Delon.
due monumenti.
"Chissà perchè si fanno tante domande.… Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene… e poi forse non bisogna volersi bene".

giovedì 20 dicembre 2018

sanguine


















la mostra alla Fondazione Prada. Sanguine, è stata a tratti, semplicemente il contatto con l'orrore.
con le deformità della morte, sotto vari aspetti.
e secondo me è questa la cultura del barocco, un dialogo lugubre e funesto che sottolinea l'annientamento, la decadenza della bellezza e della carne, l'inesorabilità della fine, la mostruosità dell'abisso infernale in un tempo in cui la religiosità non tiene il passo e non governa più il simbolico, il grottesco delle maschere. 
la morte cova ovunque, nel contrasto delle forme, nel tempo che passa, nell'incubo della fine.
la mostra apre con l'oggetto più rappresentativo di tutti quelli che verrano nelle ampie sale successive, più o meno fortunate.
un enome cesto di variegati fiori bianchi, il cui profumo, fortemente già inquinato dai molti fiori già appassiti, è così forte da oltrepassare il piacere per toccare il disgusto della nausea.
eccolo, il barocco, sanguine, l'odore della morte.

mercoledì 19 dicembre 2018

venerdì 14 dicembre 2018

teatro dell'arte, al diavolo il teatro

abbasso il teatro dell'arte, un posto infrequentabile, la galleria in alto è inadatta al teatro, pieno di vetrate, di stanghe che tagliano le scene, di punti ciechi, di luci provenienti da tutte le parti, dalle sale illuminate adiacenti e non chiuse alla sala interna che inondano di chiaro e disturbano la visione (e guai per QUESTA visione che richiederebbe un buio assoluto), per non parlare delle luci delle scale.
la mia visione di questo splendido spettacolo sarebbe stata ottimale, ALTROVE.
più volte mi sono lamentata, 
per un Baryšnikov visto anni fa con una linea nera fissa causa vetrate incorniciate (che svettano ovunque, qualsiasi angolazione della galleria in alto è penalizzata da un ostacolo alla visione del palco)
e
per una Bergamasco l'anno scorso (il noiso uomo seme) assistito in balconata da una serie di poltrone ribassate che, ancora una volta, comportano una stanga visiva ineliminabile.
un teatro da evitare, assolutamente. almeno facessero prezzi diversificati, in platea ok, altrove a tuo rischio e pericolo ma a prezzo ribassato.
invece: niet.

macbettu, al diavolo i cordelli

si, mi sono seduta nel posto lasciato libero da Cordelli.
questa polemica un po' è divertente, un po' è desolante.
il sig. Cordelli, critico teatrale del Corsera che impazza sul quotidiano e su la Lettura, scrive a settembre in modo sprezzante che di un Macbeth in sardo non se ne sentiva l'esigenza.
"poi ci sarà mecbettu in sardo. non vedo l'ora di non vederlo."
gli accordo la mia stima per l'uso intelligente della lingua italiana e la battuta tagliente, ma, in reltà, è stato bocciato. nemmeno con debiti a settembre. ripetente per presunzione e, direi, ignoranza.
se lo avesse visto avrebbe capito che il testo di quel genio cosmico del bardo non è necessario al lavoro teatrale di Alessandro Serra.
penso proprio che non avrebbero nemmeno dovuto mettere i sottotitoli in italiano.
nulla.
solo il sardo e tutta la meraviglia scenica nella loro nuda ancestrale realtà.
bastano e avanzano.
chi vuole deliziarsi del testo immenso shakespeariano vada a leggerselo.
qui siamo in un altro teatro.
teatro di corpo, e di suono.
in bacbettu domina il suono, tutto il suono, anche quello del dialetto, ma non solo.
il suono delle voci, dei fischi, dei fruscii, dei cori. strepitosi.
il suono scuotente dei tuoni e dei rombi. potenti e spaventosi.
il suono delle lamiere dei tavoli, dei sassi. evocativi.
il suono del pane carasau sotto le scarpe. geniale.
il suono di "macbettuuuuuu", gridato più volte in scena, nel buio sotto la lama tagliente di una luce dal basso. più forte di pugno in viso.
il suono sguaiato delle streghe che in scena mimano gesti apparentemente ludici (e la gente ride, ma perchè??) ma che rimandano alla follia, alla stregoneria, alla magia, all'inconsulto, al delirio, all'inconscio, all'imponderabile, vera dimensione travolgente del Macbeth di Shakespeare. ipnotico.
oltre al suono, le luci.
altre al suono, i corpi.
certo i corpi: c'è in scena una sorta di animalità, o di bestialità umana, corpi forti, duri, grandi, disumani nella ferocia, animaleschi nell'ingordigia.
le scene sono potenti, si mangiano la parola, al diavolo i testi, per questa volta.
al diavolo i cordelli.
al diavolo i preconcetti.
vedere per credere, vedere per criticare, vedere per godere.


giovedì 13 dicembre 2018

«Freddo, vero? Pare inverno». Stringendosi il coltello al seno, Miss Meadows la fissò con odio. Tutto in lei era dolciastro e sbiadito come miele. Un’ape impigliata nel groviglio di quei capelli giallognoli non sarebbe stata una sorpresa. «Sì davvero tagliente» disse Miss Meadows, tetra.

di Kathrine Mansfield.
una delizia.
acuta arguta spiritosa divertente.
un racconto raggiante di intelligenza narrativa.
al ritmo sconbussolato del cuore corrisponde quello melodrammatico del canto.
un vero incanto.
me lo ha letto Iaia Forte, brava, allegra e viva come si addice al testo, ieri sera, al teato No'hma, gentilmente offerto da Livia Pomodoro.

Con la disperazione – una gelida, acuta disperazione – conficcata nel cuore come un perfido coltello, Miss Meadows, in toga e tòcco e con la bacchetta in mano percorreva i freddi corridoi che portavano alla sala da musica. Ragazze di tutte le età con le gote rosate dal vento, traboccanti d’allegria e di eccitazione dopo la corsa verso la scuola in quella bella mattina d’autunno, si affrettavano, saltellavano, svolazzavano tutt’intorno a lei; dalle aule echeggianti veniva un fitto tambureggiare di voci […].
L’insegnante di scienze fermò Miss Meadows.
«Buongiorno» gridò, con la sua voce melliflua e strascicata. «Freddo, vero? Pare inverno».
Stringendosi il coltello al seno, Miss Meadows la fissò con odio. Tutto in lei era dolciastro e sbiadito come miele. Un’ape impigliata nel groviglio di quei capelli giallognoli non sarebbe stata una sorpresa. «Sì davvero tagliente» disse Miss Meadows, tetra.
L’altra fece uno dei suoi sorrisi zuccherini.
«Mi sembri intirizzita» disse. I suoi occhi azzurri si spalancarono; dentro c’era una luce beffarda. (Che si fosse accorta di qualcosa?)
«Oh, non esageriamo» disse Miss Meadows, e passò oltre, ricambiando il sorriso dell’insegnante di scienze con una piccola smorfia.
La quarta, la quinta e la sesta erano radunate nella sala da musica; c’era un rumore assordante. Sulla piattaforma, accanto al piano, c’era Mary Beazley, la preferita di Miss Meadows, incaricata degli accompagnamenti. […] Quando vide Miss Meadows avvertì le altre con un forte «Ps! pss! ragazze!» e Miss Meadows, le mani nascoste nelle maniche e la bacchetta sotto il braccio, attraversò la corsia centrale, salì gli scalini, si voltò di scatto, afferrò il leggio d’ottone, se lo piantò davanti e batté due colpi secchi con la bacchetta per fare silenzio. «Silenzio, per favore! Subito!» e, senza guardare nessuno, i suoi occhi percorsero quel mare di camicette di flanella colorata pieno di facce ondeggianti, di mani rosee, di frementi fiocchi a farfalla e di album spalancati. Sapeva benissimo quello che stavano pensando. «La Meady è furibonda». Be’, che lo pensino pure! Le sue palpebre ebbero un tremito; gettò indietro la testa con aria di sfida.
Che importanza potevano avere i pensieri di quelle creature per una persona che come lei stava morendo dissanguata, ferita al cuore, al cuore, da una simile lettera...
«... Sento con sempre maggiore chiarezza che il nostro matrimonio sarebbe un errore. Non che io non ti ami. Ti amo quanto mi è possibile amare una donna, ma, per essere sincero, sono giunto alla conclusione che il matrimonio non fa per me e che l’idea di sistemarmi mi dà solo un senso di...» e la parola «ripugnanza», cancellata a malapena, era stata sostituita da «disagio».
Basil! Miss Meadows si diresse a grandi passi verso il pianoforte, Mary Beazley, che non aspettava altro, si chinò in avanti e i riccioli le ricoprirono le guance mentre sussurrava: «Buongiorno, Miss Meadows», e faceva il gesto di porgerle un bellissimo crisantemo giallo. Quel piccolo rituale andava avanti ormai da un mucchio di tempo, esattamente da un trimestre e mezzo. Faceva parte della lezione come l’aprire il pianoforte. Ma quel mattino, invece di prenderlo e infilarselo nella cintura dicendo, china su di lei: «Grazie, Mary. Che meraviglia! Apri a pagina trentadue», Miss Meadows, con grande costernazione della ragazza, ignorò del tutto il crisantemo e non rispose al saluto, ma disse con voce glaciale: «Pagina quattordici, prego, e segna bene gli accenti».
Che momento imbarazzante! Mary arrossì fino alle lacrime, ma Miss Meadows aveva già rivolto l’attenzione al leggio; la sua voce squillò nell’aula. «Pagina quattordici. Cominceremo da pagina quattordici. Lamento. A quest’ora dovreste già saperlo bene, ragazze. Lo canteremo senza controcanto, tutte insieme. E senza troppo sentimento. […]».
Alzò la bacchetta: diede due colpi sul leggio. Mary suonò il primo accordo e tutte quelle mani sinistre si abbassarono battendo l’aria e quelle giovani voci afflitte si unirono in coro:
Troppo presto, ahimè!, sfioriscon le ro-o-se del piacere;
Subito l’autunno cede al cu-u-po inverno.
Fuggono, ahimè, fuggono i lieti concenti,
All’orecchio che ascolta si perdono lontano.
Santo cielo, si poteva pensare a qualcosa di più tragico di quel lamento? Ogni nota era un sospiro, un singhiozzo, un gemito di atroce tristezza. Miss Meadows alzò le braccia nelle ampie maniche e cominciò a dirigere con tutt’e due le mani. «... Sento con sempre maggiore chiarezza che il nostro matrimonio sarebbe un errore...» lei scandiva il tempo. E le voci gridavano: Fuggono, ahimè, fuggono. Che cosa poteva averlo spinto a scrivere una lettera del genere? Che motivo poteva esserci? Era stato come un fulmine improvviso. La sua ultima lettera parlava soltanto di una libreria di quercia patinata che aveva comprato per i «nostri» libri e di un «elegante mobiletto da ingresso» che aveva visto, «un aggeggio molto carino con una civetta intagliata su un supporto che regge tre spazzole da cappello negli artigli». Come si era divertita all’idea! Era così tipicamente maschile pensare all’utilità di tre spazzole da cappello! All’orecchio che ascolta, cantarono le voci.
«Da capo», disse Miss Meadows «ma questa volta col controcanto. Sempre senza sentimento». Troppo presto, ahimè! Con la malinconia aggiunta dai contralti era difficile non rabbrividire. Sfioriscon le rose del piacere. 
L’ultima volta che era venuto a trovarla Basil aveva una rosa all’occhiello. Come le era parso bello in quello smagliante abito blu e con quella rosa d’un rosso cupo! E lui lo sapeva. Non poteva non saperlo. Prima si era passato una mano sui capelli, poi sui baffi, e quando aveva sorriso i denti gli brillavano.
«La moglie del direttore continua a invitarmi a cena. È una bella seccatura. Non riesco mai ad avere una serata tutta per me, in quel posto».
«Ma non puoi rifiutare?».
«Be’, sai, un uomo nella mia posizione non può permettersi d’essere impopolare».
I lieti concenti, gemettero le voci. I salici, fuori delle finestre alte e strette, ondeggiavano al vento. Avevano perso metà delle foglie, e quelle rimaste, piccolissime, si contorcevano come pesci presi nella lenza. «... Il matrimonio non fa per me...».
Le voci tacquero; il pianoforte aspettava.
«Benissimo» disse Miss Meadows, ma sempre con un tono così strano e gelido che le ragazze più giovani cominciarono a sentirsi spaventate. «Ma ora che lo sappiamo bene, lo canteremo con sentimento. Con quanto più sentimento potete. Pensate alle parole, ragazze. Usate l’immaginazione. Troppo presto ahimè!» gridò Miss Meadows. 
«Deve prorompere – forte – come uno scoppio di dolore. E poi, nel secondo verso, deve sembrare che in quel cupo inverno soffi un vento freddo. Cupo inve-e-rno!» gridò in un modo così orribile che Mary Beazley, sul suo sgabello, sentì un brivido correrle giù per la schiena. «Il terzo verso dovrebbe essere un crescendo. Fuggono, ahimè, fuggono i lieti concenti, sempre più forte fino all’inizio dell’ultimo verso, All’orecchio, e poi quando siete a che ascolta dovete cominciare a morire – a sfiorire, finché si perdono lontano deve essere solo un tenue sussurro. Potete rallentare quanto volete sull’ultimo verso. Avanti, per favore». Di nuovo due colpetti leggeri; di nuovo alzò le braccia. Troppo presto, ahimè! «... e l’idea di sistemarmi mi dà solo un senso di ripugnanza...». Era ripugnanza la parola che aveva scritto. Come dire che il loro fidanzamento era definitivamente rotto. Rotto! Il loro fidanzamento! La gente era già rimasta abbastanza sorpresa quando si era fidanzata. [...] Aveva trent’anni, Basil ne aveva venticinque. Era stato un miracolo, un vero miracolo, sentirgli dire mentre tornavano a casa dalla chiesa in quella notte così buia: «Sai, non so come, ma ho scoperto di volerti bene». E le aveva afferrato un capo del boa di struzzo. All’orecchio che ascolta si perdono lontano.
«Ripetere! Ripetere!» disse Miss Meadows. «Più sentimento, ragazze! Da capo!».
Troppo presto, ahimè. Le ragazze più grandi erano paonazze; qualcuna delle più giovani si mise a piangere. Grosse gocce di pioggia battevano contro i vetri, e si udivano i salici sussurrare «... non che io non ti ami...».
«Ma, caro, se mi ami» pensò Miss Meadows «non importa quanto grande sia il tuo amore. Amami pure come puoi». Ma sapeva che lui non l’amava. Non essersi nemmeno preoccupato di cancellare bene quella parola «ripugnanza» perché lei non potesse leggerla! Subito l’autunno cede al cupo inverno. Per giunta, avrebbe dovuto lasciare la scuola. Non avrebbe più potuto guardare in faccia l’insegnante di scienze né le sue allieve quando la cosa fosse risaputa. Sarebbe dovuta scomparire. Si perdono lontano. Le voci cominciarono a morire, a sfiorire, a bisbigliate... a svanire...
Improvvisamente la porta si aprì. Una bambina in azzurro attraversò rumorosamente il corridoio tra i banchi, a capo chino, mordendosi le labbra e rigirandosi il braccialetto d’argento che portava a uno dei piccoli polsi rossi. Salì gli scalini e si fermò davanti a Miss Meadows. 
«Be’, cosa c’è, Monica?». 
«Oh, scusi, Miss Meadows», disse la bambina, un po’ ansimante, «ha detto Miss Wyatt che l’aspetta in direzione».
«Va bene» disse Miss Meadows. E si rivolse alle ragazze: «Vi chiedo il favore di non fare chiasso durante la mia assenza. Conto sulla vostra parola». Ma erano tutte troppo spaurite per comportarsi diversamente. […]
Nei corridoi silenziosi e freddi i passi di Miss Meadows echeggiavano. La direttrice sedeva alla sua scrivania. […]. «Si sieda, Miss Meadows» disse con molta cortesia. Poi prese una busta rosa da sotto il tampone di carta asciugante. «L’ho mandata a chiamare perché è arrivato questo telegramma per lei».
«Un telegramma per me, Miss Wyatt?».
Basil! Si era suicidato, pensò Miss Meadows. Allungò subito la mano, ma Miss Wyatt trattenne il telegramma per un attimo. «Spero che non siano cattive notizie», disse, con un tono che era soltanto cortese. E Miss Meadows lo aprì in fretta. «Non badare lettera dovevo essere impazzito comprato mobiletto ingresso oggi Basil» lesse. Non riusciva a distogliere gli occhi.
«Spero che non sia nulla di grave» disse Miss Wyatt, sporgendosi in avanti. «Oh, no, grazie, Miss Wyatt» arrossì Miss Meadows. «Tutt’altro. È...» e fece una risatina di scusa «è del mio fidanzato che dice... che dice...». Una pausa. «Capisco» disse Miss Wyatt. Un’altra pausa. Poi: «Lei ha ancora un quarto d’ora di lezione, vero, Miss Meadows?». «Sì, Miss Wyatt». Si alzò. Si avviò verso la porta quasi di corsa.
«Un attimo solo, Miss Meadows» disse Miss Wyatt. «Non approvo che le mie insegnanti ricevano telegrammi nelle ore di scuola, a meno che non si tratti di cose molto serie, come una morte», spiegò Miss Wyatt «o un grave incidente, o qualcosa del genere. Le buone notizie, Miss Meadows, possono sempre aspettare».
Sulle ali della speranza, dell’amore, della gioia, Miss Meadows tornò di corsa alla sala da musica, attraversò il corridoio tra i banchi, salì gli scalini e si accostò al pianoforte.
«Pagina trentadue, Mary», disse «pagina trentadue» e, raccolto il crisantemo giallo, se lo portò alle labbra per nascondere un sorriso. Poi si volse alle ragazze, batté il leggio con la bacchetta: «Pagina trentadue, ragazze. Pagina trentadue». 
Qui oggi veniamo cariche di fiori,
Ceste di frutta e nastri colorati,
Per felicita-a-rci.
«Ferme! Ferme!» gridò Miss Meadows. «È orribile. È spaventoso». E rivolse alle allieve un sorriso raggiante. «Che cosa vi succede? Ma ragazze, pensate a quello che state cantando. Usate l’immaginazione. Cariche di fiori. Ceste di frutta e nastri colorati. E poi felicitarci». Miss Meadows interruppe per un attimo. «Avete un’aria troppo triste, ragazze. Questo bisogna cantarlo con calore, con allegria, con entusiasmo. Felicitarci. Ricominciamo. Veloci. Tutte insieme. Avanti!». E questa volta la voce di Miss Meadows si levò sopra le altre – piena, profonda, vibrante di sentimento.

 (K. Mansfield, Lezione di canto, in Tutti i racconti, trad. di C. Campo, Adelphi, Milano 1993)

ascolto e sorrido, sussulto e provo gioia, ma che invenzione la parola.

l'adorazione dei magi ma preferivo gli angeli dal cielo


dopo tutti i Raffaello e i Tiziano e pure i Piero della Francesca, Perugino piace ma non altrettanto.
a me.
inoltre anche a palazzo Marino le visite si fanno sempre più stringate: anche in assenza di coda fuori, lo posso testimoniare, c'è una pressa che disturba.
ora dobbiamo concludere per lasciare posto alla visita successiva.
quale?
anche le ultime visite al Fai sono state un autentico disastro, lì code anche di oltre un'ora (pure con tessera di adesione), e visite di meno di 10 minuti, scadenti.
la visita a palazzo Marino? devi essere fortunato e, anche questo, lo posso testimoniare.
nel primo gruppo a cui partecipo ci accompagna una gentile signorina che parla sottovoce e da informazioni irrilevanti dimenticandosi completamente del quadro che ha davanti, perdendosi in dettagli sulla scuola del Verrocchio e della sua maestria come orafo. si ma questo è un Perugino.
il gruppo successivo, che ho aspettato senza andarmene perché 5 minuti scarsi mi sono sembrati pochi e a cui mi sono furtivamente accodata, ha un gentile ragazzo come accompagnatore e la qualità della sua presentazione è di molto superiore alla prima.
ma di molto.
quindi attenzione, schivate la signorina e, se potete, aggiudicatevi il signorino.

detto ciò il quadro, con tutti quei dettagli pregiati, dalle vesti, ai copricapi, alla descrizione naturalistica, mi sembra, come anche commentava il Vasari, molto di maniera. pare che il Perugino fosse un po' ossessionato dal commercio, si dedicasse molto alle repliche in serie pensando al guadagno. ohibò, già nell'ottica dell'economia di mercato? il restauro esalta i colori brillanti, i drappeggi sono meravigliosi, ma io non mi sono portata a casa niente. una volta piovevano angeli in quel del palazzo (caro Raffaello, quanto ci manchi), ora si, si vede una cometa, ma dal cielo non mi trafigge nulla.

lunedì 10 dicembre 2018

gli oggetti di Castiglioni e la curvatura dello spazio di Piano












una mostra non proprio riuscitissima, molto sgangherata, disordinata, soprattutto nella prima parte, credo descrittiva dei suoi progetti architettonici. poi, nella seconda parte, la mostra si fa espositiva dei suoi prodotti di design. nella sala di esposizione delle lampade Flos Parentesi, famosissime, ho ritrovato le trovate del salone del mobile, quello stile lì, caro alla Urquiola probabilmente.
mi sono portata a casa la sensazione di un Achille Castiglioni gran giocherellone, seppure serissimo, che ha costruito e decostruito tutti gli oggetti possibili, perfino cucchiai per divorare la nutella fino all'ultima traccia, che anche nello scrivere delle lettere metteva un estro talentuoso, che era un gran fumatore, 
ma non ho capito nulla del senso del suo progetto.
ieri ho visto un film su Renzo Piano, L'architetto della luce di Carlos Saura, e sono uscita galleggiando in un senso divino dello spazio e del tempo, ho visto l'architetto Piano (e i mastri non sono eterni purtroppo) dentro la curvatura quantistica, l'ho visto oltre il tempo e dentro la luce, una posizione forse metafisica.
ecco, direi che Patricia Urquiola, curatrice della mostra, non mi ha regalato nulla, una visione piccola piccola, direi miope di Castiglioni. o forse Renzo Piano è un genio e Castiglioni un buon lavorante.
non lo so.

domenica 9 dicembre 2018

a piedi nudi nel parco



biblioteca degli alberi e porta nuova, un dicembre, il 9.