bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 29 settembre 2017

the ballad of sexual dependency

"Non eravamo emarginati. eravamo noi a emarginare la società. Vivevamo la nostra vita come la volevamo vivere in quel momento".
se abitate a Milano, ma anche se non ci abitate, non potete mancare alla Triennale, alla voce Nan Goldin, The ballad of sexual dependency.
Ispirato alla "The Threepenny Opera" di Bertolt Brecht e Kurt Weill, "The Ballad Of Dependency" è un'intera esistenza trasposta in slideshow: 700 immagini a colori montate in una sequenza di 45 minuti si susseguono su una colonna sonora che va dai Velvet Underground a Maria Callas, spaziando dal punk al pop all'opera.
si tratta di un'opera intensa e vivida, originale e onesta, senza veli, senza maschere.
una fotografia sfacciata, senza regole, certamente non formali, nemmeno morali.
foto e foto e foto, New York anni 80, tutte d'interni, si susseguono, quasi tutte scattate nello stesso modo, soggetti illuminati con il flash su sfondo scuro.
su tutti quella luce livida e, francamente, disperata.
io ho visto disperazione, devastante, abbandono, segregazione, dipendenza, botte, trascuratezza, povertà e miseria, luoghi sudici se non criminali.
sarà stata vera libertà?
"La mia arte è un audiovisivo. Non smetterò di farla evolvere per tutto il corso della mia vita. Questo lavoro è nato nel 1979 ma la Ballad continua a essere un  scena."

bisogna stare lì, e partecipare, stare in scena. 










































domenica 24 settembre 2017

sommesso viola sofferente

c'è inoltre, certamente, un grado della sofferenza cui gli angeli prestano ascolto, raggi estremi di sofferenza, che gli uomini non percepiscono neppure,che penetrano il loro mondo denso, e solo dall'altra parte, nel bagliore di un angelo, si tingono di un sommesso viola sofferente, come l'ametista nelle druse del cristallo di rocca.

Rainer Maria Rilke a Marie Thurn und Taxis

impossibile parlare di musica

Scrivere di musica è come danzare di architettura», dice una massima di volta in volta attribuita a Frank Zappa, a Elvis Costello, a Thelonious Monk. Ma persino il parlare, di musica classica, è un’attività stramba. Perché la musica, quella di Beethoven, di Mahler o di Arvo Pärt, ha una socialità timida, ritrosa: non appena si manifesta, scompare. Ed è terribilmente difficile rievocarla.  
Pensate, per contrasto, a quanto accade con la lettura. È un’attività intima, solitaria. Non la si pratica collettivamente. Anche quando ci si ritrova in luoghi appositi — che sia la sala di una biblioteca o una stanza matrimoniale, prima di addormentarsi — ognuno legge un proprio libro, una propria storia. Di quel libro, di quella storia, è però poi facile parlare, ed esprimiamo opinioni, formuliamo idee, consigli, discutiamo con gli amici, teniamo vive cene conviviali evocando questo o quel titolo. Ognuno letto, naturalmente, in privato. 
Con la musica classica, invece, accade il contrario. La ascoltiamo in gruppo, persino in massa, affollando sale da concerto insieme ad altre centinaia di persone, che spesso sono a noi care, vicine, magari affra- tellate proprio dalla frequentazione ripetuta di quei luoghi, di quel repertorio. Eppure, quando usciamo di lì, quando l’emozione che abbiamo collettivamente provato si dissolve, i discorsi svaporano, si perdono. E, naturalmente, non va meglio con i dischi, o con un concerto visto in tv: sul momento grondiamo di felicità, di brividi, del desiderio di condividere, almeno a parole, ciò che abbiamo provato; ma poi, quando ci ritroviamo con gli altri, ogni possibile discorso sulla musica svanisce, irrimediabilmente. Racconteremo a chi ci sta di fronte i libri letti quest’estate, magari persino le mostre visitate, ma ci guarderemo bene dal provare a coinvolgerlo nel ricordo di un Allegretto, nel confronto tra due pianisti, nell’illuminazione che ci ha colto davanti alla partitura appena stesa da un compositore vivente. Non sapremmo come farlo. E le delusioni che abbiamo provato in passato, quando abbiamo tentato di tradurre quella pelle d’oca in parole, ci sconsigliano persino di provarci. Così, una volta di più, ci ritroviamo a pensare che la musica classica sia come una camminata in montagna: puoi suggerire a un amico un percorso ma non puoi trasferirgli ciò che solo le tue gambe hanno conosciuto. Ed è bello così. 

Nicola Campogrande, La lettura 27/8/17

ha ragione Campogrande, direttore artistico, da due anni, del festival MiTo.
come condividere la gioia di un ascolto musicale?
io non lo so.
e visto che non lo sa nemmeno lui, mi tranquillizzo.
io mi esalto e quest'anno ne ho avuto ben donde, 12 concerti, tra pomeriggi e sere, me la sono goduta alla grande.
MiTo mi fa da scuola, imparo la musica da poco tempo, non ne ho avuta nessuna educazione giovanile, ma piano piano mi avvicino a questa gioia e ne sono emozionatissima.
non ne so, non so dire, ma certi brani, concerti, sinfonie, quintetti, anche quest'anno, mi hammo messo in grazia di dio.

Quattro paesaggi, La natura artificiale di Vivaldi, Nord, La fabbrica tra i ciliegi, Il giorno dei cori, L'origine del mondo, Fuoco, Tramonti scandinavi, Aria, Irlanda e Scozia, American landscapes, Tempeste, ecco qua, c'è da esserne sazi in tema di "Natura", il tema del festival di quest'anno.
Vivaldi mi è piaciuto moltissimo (in particolare il bis tratto dal Farnace), il quintetto per archi in do maggiore opera 29 di Beethoven, il concerto in re minore per due violini, archi e basso continuo di Bach, la quinta sinfonia in mi minore op.64 di Cajkovskij, e, sopra ogni cosa, il Trio in mi bemolle maggiore op.100 D.929 di Franz Schubert (la musica adottata da Kubrick in Barry Lindon per capirci).
https://youtu.be/e52IMaE-3As
certamente l'associazione con Barry Lindon, uno dei migliori film di sempre, conferisce al brano musicale fama e una connotazione figurativa forte, ma allora parliamo di Barry Lindon e non del trio di Schubert.
rimane l'inafferabilità narrativa della musica, quella sua fruizione immediata e irripetibile nella parola, d'altronde, "we live in minutes, and not in years".

venerdì 22 settembre 2017

Rothenburg ob der Tauber




















meravigliosa Baviera.

solo la bellezza è divina e insieme visibile

Poiché la bellezza, o mio Fedro, solo la bellezza è insieme amabile ed evidente: essa è – notalo bene – l’unica forma dell’incorporeo che i nostri sensi riescono ad accogliere e a sopportare. Altrimenti, che avverrebbe di noi se la divinità stessa, la ragione cioè e la virtù e la verità, ci apparissero in modo sensibile? Non periremmo, non bruceremmo d’amore, come già Semele di fronte a Zeus? La bellezza è dunque, per l’animo senziente, la via che conduce allo spirito: la via soltanto, null’altro che un mezzo, mio piccolo Fedro… E poi disse la cosa più sottile, lo scaltro corteggiatore: disse cioè che l’amante è più divino dell’amato, poiché il dio è nel primo, non nel secondo; forse il pensiero più dolce e più irridente che mai sia stato pensato, traboccante di tutta la malizia, dell’arcana voluttà del desiderio.

è un libro sulla decadenza, forse per questo Luchino Visconti lo ha agguantato e diretto in un film.
è un libro sulla bellezza, ma con le sue crepe, con gli odori di fogna, con le rughe, con i belletti, i ringiovanimenti e, alla fine di tutto, la morte.
quanti riferimenti al dominio imperante dell'illusione dell'immortalità che ha invaso la mente di uomini e donne, gli uni che arrancano dietro a donne di 20 o 30 anni più giovani, le altre che si annientano dietro a maschere di plastica oscene, si ritrovano nei pensieri crepuscolari di Aschenbach.
è un libro di apparizioni, continue, insistenti, l'immagine e lo sguardo sono un filo conduttore di tutta la narrazione. Tadzio appare e quell'apparizione, ripetuta e sofferta, è l'inizio della curva discendente, l'inizio di un ripensamento su uno stile di vita dedicato al dovere che, improvvisamente, vira verso il piacere dei sensi, in un moto inarrestabile, incontenibile, incontrollabile, al limite della morale, insaziabile e, invitabimente, fatale. 

Era la familiare via della laguna, quella che passa davanti a San Marco e percorre il Canal Grande. Sul sedile semicircolare di prua, Aschenbach se ne stava col braccio appoggiato al parapetto, facendosi schermo della mano agli occhi. Oltrepassati i giardini pubblici, si schiuse ancora e sparì la grazia principesca della Piazzetta; poi cominciò la grande sfilata dei palazzi, e allo svolto dell’arteria d’acqua apparve la mirabile campata marmorea di Rialto. Egli guardava col cuore infranto; e respirava a lunghe boccate, piene di doloroso dolcezza, l’atmosfera della città, quel lieve sentire putrido di mare e di palude: quello stesso da cui aveva voluto fuggire tanto in fretta… Come, come mai gli era stato possibile non sapere, non pensare fino a qual punto tutto ciò facesse parte del suo cuore? Quello che al mattino era stato un mezzo rimpianto, un’ombra di dubbio circa l’opportunità del suo passo, ora si tramutava in affanno, in reale sofferenza, in un’angoscia dell’anima così forte da riempirgli più volte gli occhi di lagrime: un’angoscia che – si ripeteva – egli non avrebbe mai preveduta. Ché, evidentemente, in fondo a quell’amarezza si annidava il pensiero, a tratti addirittura lancinante, che non gli sarebbe stato più concesso di rivedere Venezia, che quello era un addio per sempre. Per la seconda volta era apparso certo come la città gli riuscisse esiziale, per la seconda volta s’era visto costretto ad abbandonarla a precipizio; necessariamente d’ora in poi sarebbe stata per lui una dimora impossibile ed esclusa, un soggiorno superiore alle sue forze; e sconsigliato da parte sua il ritentarlo. Sì, questo egli sentiva: se partiva ora, il pudore e l’orgoglio gli avrebbero per sempre interdetto il ritorno all’amata città, al cui contatto per ben due volte il suo fisico aveva ceduto; e quel cimento fra le aspirazioni dello spirito e le possibilità della carne assumeva di colpo, agli occhi del senescente, tale importanza e gravità, la sconfitta fisica gli appariva così obbrobriosa, così ad ogni costo deprecando, che non riusciva a perdonarsi l’inconsulto fatalismo con cui, il giorno prima, si era risolto a subirla e ad ammetterla senza dare strenua battaglia. Via via che il vaporetto s’avvicinava alla meta, dolore e smarrimento sempre più sconvolgono il suo animo turbato. 
...
e così si verificò lo strano caso: venti minuti dopo essere arrivato alla stazione, il pellegrino si trovò sul Canal Grande, in via di ritorno verso il Lido. Bizzarra avventura, inverosimile e umiliante, grottesca e fantastica insieme: aver preso definitivo e desolato congedo da un luogo, e poi, per un capriccio, per un risucchio del destino, tornare a vederlo entro il giro di un’ora! Spumeggiando a prua, bordeggiando agile e arguto tr gondole e vaporetti, il piccolo scafo puntava veloce alla sua meta con un unico passggero a bordo, che sotto una maschera di indispettita rassegnazione si sentiva trepidante e baldanzoso al pari di un monello scappato di casa. Ancora, di quando in quando, gli si muoveva dentro un riso al pensiero di quel disguido: più propizio di così, egli si diceva, nessun beniamino della sorte poteva uagurarselo! Avrebbe dovuto dare spiegazioni, affrontare visi sbalorditi; be’, dopo di che – si disse – ogni cosa tornerà a posto, sarà evitata una disgrazia, rimediato un grave errore; e tutto ciò che aveva creduto di lasciarsi addietro gli si sarebbe di nuovo dischiuso; tutto sarebbe stato, finché gli piacesse, ancora suo… Del resto, lo illudeva la veloce corsa, o davvero, per colmo di gioia, finalmente il vento soffiava dal mare? Le onde battevano sulle pareti di cemento dello stretto canale che attraversa l’isola fino all’Hôtel Excelsior. Una corriera automobile era lì ad attendere il reduce e lo portò, lungo il mare increspato, in linea retta all’Hôtel des Bains. Giù per la scalinata gli venne incontro il piccolo direttore baffuto dalla finanziera a coda di rondine. Con sommesse, suadenti parole deplorò l’accaduto, che definì spiacevolissimo per lui personalmente e per la direzione; si disse tuttavia convinto che Aschenbach aveva fatto bene a decidere di tornare lì per aspettare il baule. Purtroppo la sua camera era stata già occupata, ma ve n’era subito un’altra, ugualmente buona. «Pas de chance, monsieur» gli disse sorridendo il ragazzino svizzero dell’ascensore, mentre la cabina saliva. Ed ecco il fuggiasco di bel nuovo acquartierato in una camera pressoché identica, per posizione e arredo, alla precedente. Dispose nella stanza il contenuto della sua valigetta e popi, affranto, stordito da quella mattinata turbinosa e singolare, sedette in una poltrona presso la finestra aperta. Il mare, adesso, era di una tinta verde pallida, l’aria pareva più fine e più 28 pura, più colorite le cabine e le imbarcazioni sulla spiaggia, benché il cielo rimanesse grigio. le mani congiunte in grembo, Aschenbach guardava fuori, contento di essere di nuovo lì, corrucciato e scotendo il capo al pensiero dei suoi tentennamenti, di come conosceva male i suoi desideri. Così se ne stette seduto una buona ora, in pace, seguendo vuote fantasticherie. Verso mezzogiorno scorse Tadzio: aveva il suo vestito a righe col fiocco rosso. Di ritorno dal bagno, attraversava la barriera della spiaggia e, seguendo la passerella, rientrò nell’albergo. Aschenbach di lassù lo riconobbe subito, ancor prima che l’occhio ne percepisse esattamente l’immagine, e si provò a qualcosa come: “Oh Tadzio, ecco, rivedo anche te!”. Ma nello stesso istante sentì quel fiacco saluto crollare e ammutire di fronte alla realtà del suo cuore; sentì che gli fremeva il sangue, che l’anima sua gioiva e dolorava, e comprese che solo per Tadzio aveva tanto sofferto, partendo.

venerdì 15 settembre 2017

Ma proprio mentre sprofondava nel vuoto di queste fantasticherie, ecco tutto a un tratto, sulla linea orizzontale della riva, stagliarsi una figura umana.

Il panorama qui era vasto, multiforme e improntato a liberalità. I suoni delle lingue più conosciute si fondevano in uno smorzato sussurro. L’abito da sera, universale assisa di costumatezza, collegava esteriormente in una cornice signorile le varie specie di umanità. Accanto alle facce lunghe e scarne degli americani si vedeva la numerosa famiglia dei russi, signore inglesi, bambini tedeschi con bambinaie francesi. L’apporto slavo sembrava predominante: proprio lì vicino sentì parlare polacco. 
Era un gruppo di adolescenti o poco più che tali, raccolto attorno a un tavolino di vimini, sotto la sorveglianza di un’istitutrice o dama di compagnia che fosse: tre giovinette che mostravano dai quindici ai diciassette anni di età, e un ragazzo dai capelli lunghi sui quattordici anni. Aschenbach notò con meraviglia la bellezza perfetta di quest’ultimo. Il volto pallido e gentilmente assorto, incorniciato dai capelli biondo miele, la linea schietta del naso, la bocca vezzosa, l’espressione soave e divina di gravità ricordavano le sculture greche dell’epoca aurea; e alla pura compiutezza dell’aspetto si univa una grazia così rara e insigne che lo scrittore si confessò di non aver mai veduto, né in natura né in alcun prodotto delle arti figurative, un simile capolavoro. Da un altro particolare fu richiamata la sua attenzione: l’evidente netto contrasto fra i criteri educativi che rispecchiava l’abbigliamento e, in genere, tutto il contegno del fratello in confronto alle sorelle. Le vesti delle ragazze – la maggiore delle quali poteva già dirsi una donna fatta – erano compassate e austere al punto da imbruttirle: tre tonache monacali identiche, di media lunghezza e di tinta mattone, disadorne e volutamente goffe nel taglio, rilevate unicamente da un colletto bianco rovesciato, e tali da mortificare e da impedire ogni avvenenza fisica. I capelli lisci e ben aderenti al capo, davano ai loro visi l’espressione vuota e insignificante delle converse. Era ben ravvisabile la mano di una madre, che evidentemente non pensava nemmeno a seguire anche col ragazzo la severità pedagogica ritenuta idonea alle figlie. Visibilmente l’esistenza di lui si svolgeva in un’atmosfera di tenerezza e di sollecitudine. Neppure un colpo di forbici aveva toccato la sua bella chioma: come nella celebre statua della Spinario, essa cadeva ricciuta sulla fronte, sopra gli orecchi e giù fino agli omeri. L’abito inglese alla marinara, dalle maniche a sbuffo che, restringendosi verso il basso, aderivano agli esili polsi delle mani ancora infantili ma ben fatte, conferiva alla leggiadra figuretta, con le sue cordelline, i fiocchi e i fregi, un che di lussuoso, di opulento. Seduto di tre quarti rispetto ad Aschenbach, egli teneva l’uno sull’altro i piedi calzati di scarpe di vernice nera e con un gomito si appoggiava al bracciolo della poltrona, sostenendo la guancia col pugno chiuso, in un atteggiamento di grazia noncurante, affatto alieno dalla compostezza quasi subalterna delle tre sorelle. Che fosse sofferente? La pelle del viso, in verità, risaltava col biancore eburneo sotto l’oro scuro del nimbo di ricci. O forse era null’altro che un figlio viziato e coccolato, l’oggetto di un amore partigiano e capriccioso? Aschenbach propendeva a crederlo. A quasi ogni natura di artista è innata una tendenza procace e proditoria ad ammettere ingiustizie creatrici di bellezza, a mostrarsi comprensivo e benigno di fronte a un’aristocratica predilezione. 

La morte a Venezia.
Thomas Mann.

che vertigine questo libro.
un rapimento.
la mia ammirazione è assoluta.
che uso sbalorditivo della parola.
e ne leggo una traduzione, chissà nella sua forma originale.
la morte compare dall'inizio, nella forma di un'apparizione funerea, misteriosa e inquietante in un cimitero, nelle prime pagine del libro.
e molte saranno le apparizioni nel corso della narrazione, come allucinazioni o fantasmi, macchie inconsce che prendono consistenza.
l'apparizione di Tadzio suona come una premonizione di morte, una folgorazione di aristrocratica bellezza, crudele e definitiva, una condanna, che rasenta l'umiliazione e il ridicolo, all'infimo, all'abisso.

Or dunque, vedi che noi poeti non possiamo essere né saggi né dignitosi? Che fatalmente cadiamo nell’errore, fatalmente rimaniamo dissoluti venturieri del sentimento? Menzogna, millanteria è la nostra padronanza dello stile, buffonaggine la nostra fama e gli onori di cui godiamo; grottescamente ridicola la fiducia riposta in noi dal volgo, temeraria e indifendibile impresa l’educazione del popolo e della gioventù per mezzo dell’arte. Come potrebbe infatti fungere da educatore colui che irrimediabilmente e per sua propria natura è spinto verso l’abisso? Vorremmo sì distogliercene, vorremmo acquistare dignità; ma ovunque dirigiamo i nostri passi, esso ci attira. Così avviene che rinneghiamo la forza dissolvitrice della conoscenza: poiché, mio Fedro, la conoscenza non possiede dignità né rigore; è consapevole, comprensiva, clemente, priva di riserbo e di forma; ha simpatia per l’abisso, è l’abisso medesimo. Noi dunque la ripudiamo energicamente, e da questo momento ogni nostro studio avrà di mira la bellezza, ossia la semplicità, la grandezza e il nuovo rigore, la seconda spontaneità, la forma. Ma forma e spontaneità, mio Fedro, conducono al desiderio delirante, facilmente portano il nobile animo a orribile colpe sentimentali, che a lui stesso, nel suo armonioso rigore, appariranno infami; portano, insomma, anch’esse all’abisso. Vi portano, intendimi bene, noi poeti: perché a noi non è dato elevarci, è dato soltanto imbestiarci. E ora, Fedro, io me ne andrò e tu rimarrai qui; e aspetta di non vedermi più, per andartene.

giovedì 14 settembre 2017

non un singolo figlio, ma i padri, che come frane di monte posano al fondo nostro

Terza Elegia

Una cosa è cantare l'amata. Un'altra, ahimè,
quell'occulto colpevole Dio-fiume del sangue.
...
Vedi, noi non amiamo come i fiori, attingendo
da un'annata soltanto; a noi quando amiamo
sale alle braccia un'immemorabile linfa. O fanciulla
è così: noi non amiamo in noi, un essere solo, futuro, ma 
l'immenso fermento; non un singolo figlio,
ma i padri, che come frane di monte
posano al fondo nostro; ma l’arido greto
di madri di un tempo; ma tutto
il muto paesaggio sotto il Destino
nuvoloso o limpido: questo, fanciulla, era prima di te.
...


Se debbo dirTi dove era il mio sentimento del mondo, la mia felicità terrena, debbo confessare: era sempre, in quel guardare dentro di tanto in tanto, negli istanti inmcredibilemnte rapidi, profondi senza tempo di questo divino guardare dentro.

Rilke a Lou, 1910

l'amore ai tempi di Rilke. Lou Salomè e di...FREUD.

le stelle non sono ereditarie (EmilyDickinson)

Logofobia

Dopo, mi sveglio
nel buio rosso
a scrivere
gia dinh
su questo block-notes giallo.

Scrutando tra le lettere
scorgo
nella terra
sottostante l'azzurro sfocato
delle ossa.

Rapido-
trapano l'inchiostro
in punto fermo.
Il foro più fondo
dove il proiettile,

penetrata
la schiena di mio padre,
è arrivato
a fermarsi.
Svelto - ci scendo

dentro.
Entro
nella mia vita
come le parole
entrano in me -

cadendo
dentro
al silenzio
di
questa bocca
spalancata

Ocean Vuong
Cielo notturno con fori d'uscita, 2017


venerdì 8 settembre 2017

spegnimi gli occhi

Spegnimi gli occhi: posso vederti 
 sigillami gli orecchi: posso udirti 
 e senza piedi ancora posso venire da te 
 e senza bocca ancora posso implorarti. 
 Spezzami le braccia: col mio cuore 
 ti stringerò come una mano, 
 strappami il cuore e il mio cervello pulserà 
 e pur se getterai nel fuoco il mio cervello 
 ti porterò nel sangue.

Da Rilke a Lou


giovedì 7 settembre 2017

da quali stelle siamo caduti per incontrarci?

Io non sono in grado di vivere secondo modelli, nè potrò mai essere di modello a chicchessia, mentre sono sicura che plasmerò la mia vita a modo mio, quali che possano esserne le conseguenze.

Lou Andreas Salomé (ventenne), Uno sguardo sulla mia vita.




















Nell'estate del 1882 Nietzsche si era cullato nella speranza di aver trovato il suo ater ego nella Signorina Salomé, e di riuscire, in sua compagnia e con il suo aiuto, a progredire verso i propri obiettivi. La Signorina Salomé non aveva intenzione di annullarsi in lui. Dal veemente desiderio di Nietzsche di intima comunanza si riconosce il carattere appassionato del suo animo. Come suonano sublimi e commoventi, in lui, l'errore e la delusione. 

Ida Overbeck in Nietzsche nei ricordi e nelle testimonianze dei suoi contemporanei.

sempre vita















Giancarlo Vitali, una scoperta consolante, c'è vita, molta vita, mi nutro.
tutto sgorga da una fonte vitale, fiori sanguigni, carne rossa, volti pieni, colori balenanti, pennellate grondanti colore e spessore, i miei occhi sono ubriachi. il mio cuore gongola.
"una pittura sontuosa e trionfante di sughi, succhi, rapine cromatiche, carnali ascendenze, debordanti di fiumi di rose, di peonie e di sangue", ecco cosa dice Giovanni Testori, lui si che sapeva scrivere.
chissà quanto altro non so e non saprò mai.
intanto ora so questo.

domenica 3 settembre 2017

dica al signor Rilke

Dica al signor Rilke che io ho anche una figlia diciannovenne [Anna] che conosce le sue poesie e, in parte, sa recitarle a memoria..

lettera di Sigmund Freud a Lou Salomé, 1915

sabato 2 settembre 2017

l'opera al nero, la fine di Zenone

Poi, in tutto quel frastuono distinse un rantolo. Respirava a grandi e rumorose inspirazioni superficiali che non empivano il torace; qualcuno che non era più del tutto lui, ma sembrava un po' in disparte a sinistra, considerava con indifferenza quelle convulsioni d'agonia. Così respirava un corridore sfinito nel raggiungere il traguardo. Era calata la notte, senza che egli potesse distinguere se in lui o nella stanza tutto era buio. Anche la notte si moveva; le tenebre si scansavano per far posto ad altre, abisso dopo abisso, strato oscuro su strato oscuro. Ma quel nero, diverso da quello che si vede cogli occhi, vibrava di colori originati, per così dre, dalla loro stessa assenza: il nero tendeva al verde livido, poi si mutava in bianco puro; il bianco pallido inclinava al rosso oro senza che tuttavia venisse meno il nero originario, proprio come la luce degli atri e l'aurora boreale trasaliscono nella notte comunque nera. Per un istante che gli parve eterno, un globo scarlatto palpitò in lui o fuori di lui, sanguinò sul mare. Come il sole estivo nelle regioni polari, la sfera sfavillante sembrò esitare, pronta a scendere di un grado verso il nadir, poi con impercettibile sussulto risalì verso lo zenit e alla fine si dissolse in un giorno abbagliante che era allo stesso tempo notte.
Non vedeva più, ma i rumori ancora lo raggiungevano. Come non molto tempo prima a San Cosma, nel corridoio risuonarono passi precipitosi: era il carceriere che aveva notato sul pavimento una chiazza nerastra. Un momento prima il terrore avrebbe afferrato l'agonizzante all'idea di essere ripreso e costretto a vivere e morire qualche ora di più. Ma l'angoscia ormai era cessata: era libero; l'uomo che veniva verso di lui poteva essere solo un amico. Fece o credette di fare uno sforzo per sollevarsi, senza saper chiaramente se lo soccorrevano o se al contrario era lui che portava aiuto. Il cigolar delle chiavi nella toppa e dei catenacci non fu per lui che un rumore acutissimo di porta che si apre.
Non oltre è dato andare nella fine di Zenone.

venerdì 1 settembre 2017

La morte di Ivan Ilijc

— È finito! — disse qualcuno, chinandosi su di lui. Egli udì quelle parole e le ripetette dentro di sè. «È finita la morte», disse nel suo pensiero. «La morte non esiste più». Diede un respiro, ma rimase a metà del respiro, s'irrigidì e morì.