bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 28 novembre 2013

chi è dio per Anne Sexton?

“Spogliatevi della vita come dei pantaloni,
delle scarpe, della biancheria, 
spogliatevi della carne, 
scardinate le ossa. 
In altre parole 
togliete di mezzo 
il muro che vi separa da Dio”
Bella, passionale, economicamente fortunata. Forse non avrebbe ascoltato la poesia che aveva sottopelle, se il suo analista, dopo il primo tentativo di suicidio, non le avesse suggerito di scrivere. Una terapia che è valso il Pulitzer nel 1967 e la fama mondiale, nonché il ruolo di maggiore esponente tra i poeti confessionals americani. Ma neanche la famiglia e le figlie sono bastate a sanare quel turbamento che ha tanto a lungo assillato i giorni e le notti: solo il suicidio ha segnato la fine di una vita tutt’altro che comune, per una donna che ha trovato la propria strada poetica, diversa da tutti i contemporanei e i poeti tradizionali, perché istintiva e di modesta formazione intellettuale.
così leggo su un blog e proseguo sulla scia per dire che Anne Sexton è veramente un enigma per me.
trascinata nei bassifondi del vivere dal dolore la perversione la sofferenza la malattia la sessualità più brutale e la morte, la morte sempre ovunque, in ogni riga, in ogni respiro, in ogni parola, in ogni pensiero.
abusata da bambina e abusante sua figlia a sua volta, la Sexton scopa sempre, ogni parola che emetta e che scriva. scopa si fa montare trapassare martellare da tutto da tutti da ogni cosa dal padre dalla madre da chiunque. la sua vita è un abuso continuo, la sua vita non è disgiungibile da una sessualità pervasiva massacrante e degradante. 
fu famosissima in vita, seduceva il mondo con ogni parte del suo corpo, era uno schianto di donna, era sensuale e vestita di rosso, faceva sesso rilasciando interviste, probabilmente prendendo il te, figuriamoci tracannando martini al bar.
faceva sesso e ogni volta, così, toccava la morte. ad ogni penetrazione, vera o simbolica sia chiaro, si faceva permeare dalla morte per poi tornare in vita e riprovarci, e poi riuscirci davvero, finalmente, anche lei come la Plath, con la morte pulita e silenziosa e indolore del gas, chiusa in un garage a motore acceso. era il 1974, aveva 45 anni.
la penso immersa in una fatica immane, una fatica sessuale continua, una forma di eccitazione indomabile e necessaria per vivere, una forma parossistica, una schiavitù perversa senza fine. 
e su tutto, in ogni poesia, domina dio, che fa e che disfa, dio che può e distrugge, dio dio dio, ma chi è questo dio nella sua mente?
The priest came,
he said God was even in Hitler. 
I did not believe him 
for if God were in Hitler 
then God would be in me.
(The sickness unto death)
di certo non il dio dei cieli, è un dio metafisico, un oltre irraggiungibile, un oltre che la domina, che la ancora al terreno, che la radica in una contrapposizione continua tra corpo reale e immagine sognata.
è quel dio che quando: l’uomo dentro la donna stringe un nodo perché mai più loro due si separino e la donna si fa fiore che inghiotte il suo gambo e il Logos appare e sguinzaglia i loro fiumi. Quest’uomo e questa donna con la loro duplice fame hanno cercato di spingersi oltre la cortina di Dio, e ci sono riusciti per un momento, anche se poi Dio nella sua perversione scioglie il nodo.
non era sostenuta da una gran cultura, e il confronto con la Plath è perdente su tutti i fronti in questo campo, ma la sua poesia era un fiume, era facile, immediata, incisiva, senza scampo.

ho scoperto a Bookcity che anche Peter Gabriel scrisse di lei in una canzone, Mercy Street, tratta da una sua poesia, omonima.
Eccoli:

45 Mercy Street, Anne Sexton
Nel mio sogno
reale fino al midollo
cammino su e giù per Beacon Hill
cercando un cartello stradale,
Mercy Street.
Non c’è.

Provo per Back Bay.
Non c’è.
Non c’è.
Eppure conosco il numero,
Mercy Street, 45.
Conosco il vetro colorato
della finestra nell’atrio,
le tre ali della casa
con il parquet sui pavimenti
Conosco i mobili e
Mamma, nonna e bisnonna e servi.
Conosco la credenza con gli Spode,
la vaschetta del ghiaccio, argento solido,
dove il burro posa in bei quadrati,
come strani denti di gigante,
sul grande tavolo di mogano.
Lo conosco bene.
Non c’è.

Dove siete andati?
Mercy Street, 45,
con la nonna inginocchiata
nel suo corsetto di stecche di balena
che prega, a bassa voce, ferocemente,
davanti alla bacinella,
alle cinque del mattino
a mezzogiorno,
sonnecchiando sulla sedia a dondolo
il nonno schiaccia un pisolino nella dispensa,
la nonna suona il campanello per la cameriera, di sotto,
e Nana culla Mamma, con un fiore gigante
sulla fronte, per coprire un ricciolo
di quando era buona ed era …
E là, dove fu concepita,
e, dopo una generazione,
me,
la terza che avrebbe concepito,
un fiore di nome Orrido, sbocciante
da un seme straniero.

Cammino con un vestito giallo
e una borsetta bianca piena di sigarette,
pillole, portafogli, chiavi
e ho ventotto anni, o quarantacinque?
Cammino. Cammino.
Accendo i fiammiferi ai cartelli stradali,
perché è buio,
scuro come pelle morta
e ho perso la mia Ford verde,
e la mia casa nei sobborghi,
e due bambini piccoli
succhiati via come polline dall’ape che sono,
e un marito,
che si è seccato gli occhi
per non guardarmi più dentro,
e cammino e guardo
e non è un sogno,
ma solo la mia vita,
dove le persone sono alibi
e la strada è perduta
per sempre.

Indosso gli occhiali scuri.
Non mi importa.
Imbullona pure la porta, pietà,
cancella il numero,
strappa via i cartelli stradali.
Cosa può contare, cosa può contare
questa spilorcia che sono,
chi lo vuole un passato,
che uscì da un morto battello
lasciandomi solo della carta?

Non c’è.

Apro la borsetta,
come fanno le donne,
e pesci nuotano avanti e indietro
tra le banconote e il rossetto.
Li afferro uno per uno
e li getto ai cartelli stradali,
e lancio la borsetta
nel fiume Charles.
Poi tiro fuori il sogno
e lo getto sul muro di cemento
dello stupido calendario
in cui vivo
la mia vita,
e i suoi faticosi taccuini


Mercy StreetPeter Gabriel, in So (1986)
Looking down on empty streets, all she can see
Are the dreams all made solid
Are the dreams all made real

All of the buildings, all of those cars
Were once just a dream
In somebody's head

She pictures the broken glass, she pictures the steam
She pictures a soul
With no leak at the seam

Lets take the boat out
Wait until darkness
Let's take the boat out
Wait until darkness comes

Nowhere in the corridors of pale green and grey
Nowhere in the suburbs
In the cold light of day

There in the midst of it so alive and alone
Words support like bone

Dreaming of mercy st.
Wear your inside out
Dreaming of mercy
In your daddy('s arms again
Dreaming of mercy st.
'swear they moved that sign
Dreaming of mercy
In your daddy's arms

Pulling out the papers from the drawers that slide smooth
Tugging at the darkness, word upon word

Confessing all the secret things in the warm velvet box
To the priest-he's the doctor
He can handle the shocks

Dreaming of the tenderness-the tremble in the hips
Of kissing Mary's lips

Dreaming of mercy st.
Wear your insides out
Dreaming of mercy
In your daddy's arms again
Dreaming of mercy st.
'swear they moved that sign
Looking for mercy
In your daddy's arms

Mercy, mercy, looking for mercy
Mercy, mercy, looking for mercy

Anne, with her father is out in the boat
Riding the water
Riding the waves on the sea


e anche questo è un modo per conoscere, poesia e musica, arte e vita.

Una come lei 
In giro sono andata, strega posseduta 
Ossessa ho abitato l'aria nera, padrona della notte; 
sognando malefici, ho fatto il mio mestiere 
passando sulle case, luce dopo luce: 
solitaria e folle, con dodici dita. 
Una donna così non è una donna. 
Come lei io sono stata. 

Ho trovato nei boschi tiepide caverne, 
e pentole e amuleti, tavole 
e armadietti, infinità di oggetti 
e sete ho ammassato; 
per elfi e vermi cene ho preparato: 
mugolando ho sistemato 
le cose fuori posto. 
Una donna così non è capita. 
Come lei sono stata. 

Sul tuo carro, o cocchiere, son salita, 
a braccia nude ho salutato paesi che passavano, 
e le ultime strade luminose, ho conosciuto, 
sopravvissuta alle tue fiamme che ancora rompono le gambe 
e alle tue ruote che ancora rompono le ossa. 
Una donna così non ha vergogna di morire. 
Come lei io sono stata.

Noi
Ero avvolta nella pelliccia
nera, nella pelliccia bianca
e tu mi svolgevi
in una luce d’oro
poi m’incoronasti,
mentre fuori dardi di neve
diagonali battevano alla porta.
Mentre venti centimetri di neve
cadevano come stelle
in frammenti di calcio,
noi stavamo nel nostro corpo
(stanza che ci seppellirà)
e tu stavi nel mio corpo
(stanza che ci sopravviverà)
e all’inizio ti asciugai
i piedi con una pezza
perché ero la tua schiava
e tu mi chiamavi principessa.
Principessa!


Oh, allora
mi alzai con la pelle d’oro,
e mi disfeci dei salmi
mi disfeci dei vestiti
e tu sciogliesti le briglie
sciogliesti le redini,
ed io i bottoni,
e disfeci le ossa, le confusioni,
le cartoline del New England,
le notti di gennaio finite alle dieci,
e come spighe ci sollevammo,
per acri e acri d’oro,
e poi mietemmo, mietemmo
mietemmo.



Ancora, ancora, ancora
Hai detto che la rabbia sarebbe tornata
proprio come l'amore

Ho una sembianza nera che non
mi piace. È una maschera, me la provo.
Migro verso lei e la sua rana
s'accovaccia sulle mie labbra e defeca.
È una vecchia, è anche povera.
Ho provato a tenerla a dieta.
Non le do l'estrema unzione.

C'è un bell'aspetto che indosso
come un grumo di sangue.
Me lo sono cucito sul seno sinistro.
Ne ho fatto una vocazione.
La lussuria si è piantata in esso
e io ho accostato te e il tuo
bambino allo sbocco del latte.

Oh la nerezza è assassina
e il colmo del latte trabocca
e tutto il meccanismo mi funziona
ed io ti bacerò quando
avrò fatto a pezzetti un'altra dozzina di uomini
e tu morirai un po',
ancora, ancora.

martedì 26 novembre 2013

rosso occhio cratere del mattino. Sylvia Plath

Bookcity 2013.
cose buone e meno buone.
tra quelle buonissime, sabato sera: Due ragazze americane, Anne Sexton e Sylvia Plath.
e stiamo parlando dell'eccellenza, della poesia femminile alla sua massima espresssione, due donne, diperate, pazze di dolore, bipolari, suicide, stracolme di talento, diverse molto ma molto diverse tra loro fatta eccezione per l'attrazione fatale verso la morte, animate da una vena poetica inarrivabile.
per me sono entrambe due colossi (per dirla con la Plath) della poesia mondiale, entrambe parlano una lingua che scardina, personalmente mi travolgono, mi trascinano nel loro abisso con una potenza inaudita, mi fanno attraversare dai brividi e dalla paura. le trovo sconvolgenti, la loro forza trascinante è pari alla loro adesione alla morte e al suicidio.
la conversazione, definiamola così, cui ho assistito a bookcity sabato sera, è stata sviluppata da Elena Petrassi, appassionata e studiosa delle due poetesse, in un luogo piccolo e sconosciuto, un'associazione chiamata Apriti Cielo, sostenuta e gestita da due signore in età. una, entrando, la guardo e mi dico: l'ho già vista. dove dove dove? ha un modo e una vestizione che mi dicono qualcosa, qualcosa non della persona in particolare, ma di uno stile in genere. scopro che le composizioni alle pareti sono sue e che richiamano le poesie della Sexton. qualcuno le chiede come sia nata la sua curiosità verso la bellissima poetessa americana e dice di aver condiviso con lei l'esperienza dell'ospedale psichiatrico, dei medici, degli psicofarmaci, della malattia mentale. ecco dove l'ho vista: in ospedale.
la mia vita si interseca con le vite sofferenti degli altri, anche fuori dall'orario di lavoro, in fondo me le vado a cercare, queste sofferenze, queste due donne poeta che amo sono malate, malate di morte. e me la spiegano.

Sylvia Plath, nel 1955

quel che voglio raccontare qui, dopo averlo imparato dai bei modi della relatrice, sono le infinite diramazioni che la poesie di queste donne hanno creato. voglio riportare una delle poesie più belle della Plath, una delle 40 poesie che ha scritto, probabilmente in fase maniacale, dopo la separazione del marito, il poeta Ted Hughes, pubblicate nella raccolta Ariel.
ed è Ariel la poesia.

Ariel
Stasi nel buio. Poi
l’insostanziale azzurro
versarsi di vette e distanze.

Leonessa di Dio,
come in una ci evolviamo,
perno di calcagni e ginocchi! -

La ruga
s’incide e si cancella, sorella
al bruno arco
del collo che non posso serrare,

bacche
occhiodimoro oscuri
lanciano ami -

Boccate di un nero dolce sangue,
ombre.
Qualcos’altro

mi tira su nell’aria -
cosce, capelli;
dai miei calcagni si squama.

Bianca
godiva, mi spoglio -
morte mani, morte stringenze.

E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino

nel muro si liquefà.
E io
sono la freccia,

la rugiada che vola
suicida, in una con la spinta
dentro il rosso

occhio cratere del mattino.

della separazione da Ted Hughes, il marito che la lasciò per un'altra donna, suicida anch'essa pochi anni dopo, si è detto di tutto e di più. Silvya Plath veniva da una solida famiglia borghese, il padre, Otto, di origine tedesca, che morì quando lei aveva otto anni, era una figura assolutamente edipica, un padre, un colosso come lo definì lei stessa, la matrice prima e ultima della sua carne. la sua nascita e la sua morte stessa. i suoi studi furono assidui e feroci, si impegnò ossessivamente a raggiungere le vette della perfezione in ogni cosa. avrebbe voluto spostare un uomo eccelso, svettante, brillante e di successo e guarda caso lo trovò. Ted Hughes viene considerato, ed è, un poeta di altrettanta fama e bravura ma non di eguale talento, uno dei più insigni della sua generazione. ma il fallimento li travolse, lui la tradì, si separarono e lei si suicidò -non forse non a causa di questo abbandono, il suicidio lo aveva già tentato nel '53 senza riuscirci, molto prima di conoscere il marito- serrando la cucina con il nastro adesivo, scrivendo la poesia Orlo, preparando la colazione per i suoi due figli, e infilando la testa nel forno.era il 1963, aveva 30 anni.
dopo oltre 30 anni dalla morte della moglie, forse per tentare una redenzione, forse per autentico dolore, forse per sola ispirazione, Hughes scrisse una raccolta di poesie, Lettere di compleanno, completamente dedicate alla moglie, al loro matrimonio, ai figli, al loro fallimento.

“Verrà la fama. Fama per te, soprattutto.
La fama è inevitabile. E quando arriverà l’avrai pagata con la felicità, tuo marito e la vita”

Poesia tratte da “Poesie di compleanno

Why are you so solemn?
 
Più alta
di quanto non saresti più stata.
Ondeggiavi così snella
che le tue lunghe, perfette gambe americane
sembravano salire su su su.
Quella mano divampante,
quelle lunghe dita danzanti,
di eleganza scimmiesca.
E il viso: una palla tesa di gioia.
Ti vedo là, più chiara, più vera
che in tutti gli anni nella sua ombra -
come se ti avessi visto quell’ unica volta e poi più.
La cascata sciolta dei capelli
quella molle cortina
sul viso, sulla cicatrice.
E il tuo viso
una gommosa palla di gioia
intorno alla bocca dalle labbra africane, ridente,
dipinte di cremisi.
E i tuoi occhi
strizzati nel viso, succo di diamanti,
incredibilmente luminosi,
come succo di lacrime
che potevano anche essere lacrime di gioia,
una spremuta di gioia.
Volevi strabiliarmi
con il tuo brio. 

dei due figli il maschio morì suicida nel 2009, la figlia è pittrice e scrittrice, scrive poesie a sua volta. questa è dedicata a sua madre, la scrisse inorridita dall'uso mediatico, stravolto e cannibalico, della figura di sua madre.

Lettori

di Frieda Hughes

Vogliono soffiare vita nei cadaveri dei loro bambini morti
Le hanno portato via i sogni, raccolto parole da chi
ha sofferto su di sé la loro pena.

Hanno inflilano le dita nelle mutandine del suo cervello
in ogni pagina che ha scritto.  La vogliono nuda.
Vogliono sapere chi l’ha creata.

Hanno cercato di piumare di nuovo l’uccellino.

L’avvoltoio con la sua testa insanguinata
succhiava umori
dentro la sua pancia,

Hanno studiato la sua forma,
le sue ragioni,
la sua stessa morte.

Mentre la loro madri giacevano in tombe tranquille,
imbellite da quell’ordinata, regolare ghiaia smeraldo
mazzi di fiori nel vaso della marmellata, hanno riesumato la mia.

Persino le conchiglie che avevo lasciato sulla sua bara.

L’hanno rigirata come un pezzo di carne sul carbone
per scrutare i segreti delle sue cosce consumate,
dei suoi seni rinsecchiti.

Le hanno tirato fuori le orbite degli occhi per scoprire cosa vedesse,
morsicato la sua lingua in piccoli morsi
per parlare con la sua voce.
Ma ognuno di loro assaggiava carne diversa,
mangiava organi distinti,
toccava altra pelle.

Insistevano nell’essere quello
che la conosceva meglio,
quella che aveva la ricetta giusta.

Quando uscì dal forno
l’avevano ripulita dalle interiora, pelata,
guarnita per bene.

L’hanno reclamata come loro.
E io che per tutto questo tempo pensavo
che più di ogni altra cosa lei fosse mia.

pubblicata l’8 novembre 1997 sul Guardian.

anche Anne, che per breve tempo frequentò Sylvia, durante la comune frequentazione del corso di poesia tenuto da Robert Lowell, professore della Boston University, e con la quale condivise sedute al bar, condite da martini e confessioni reciproche sulla passione per la morte, l'attrazione per il suicidio, la disperazione del vivere, scrisse poche righe per lei.

La morte di Sylvia
Come hai potuto scivolare giù da sola nella morte
che ho desiderato così tanto e così a lungo,

la morte che tutte e due dicevamo di aver superato
... la morte di cui parlavamo tanto, a Boston,
mentre ci scolavamo tre martini extra dry.

ma erano diverse, profondamente diverse. Anne invidiava la cultura e la formazione rigorosa di Sylvia, ma la sua scrittura era facile, era un fiume in piena. Sylvia scriveva soostenuta da un forte rigore, da una conoscenza e uno studio assiduo della lingua, ma faticava a trovare la vena, scrivere era laborioso. la Sexton era una donna audace, bella, sensuale, sessualmente molto promiscua, brillante e già nota in vita. intratteneva il suo pubblico parlando delle sue esperienza psichiatriche manicomiali, seduceva, rilasciava interviste in cui flirtava con la telecamera, una disinibizione pericolosa. Sylvia era timida, introversa, ombrosa, la sua fama arrivò ben dopo la sua morte. 
così la descrisse Robert Lowell:
"…..E' straziante, riandando al passato, capire che il segreto dell'ultima irresistibile fiammata di Sylvia Plath e' nascosto nella discrezione, nel garbo estremo della sua penosa timidezza. Non e' mai stata una mia allieva, ma per due mesi circa, sette anni fa, segui' il mio corso di poesia alla Boston University. La rivedo, opaca contro il cielo luminoso di una finestra priva di qualsiasi panorama ….. Era alta, snella, con il busto lungo e fragile, i gomiti aguzzi, era nervosa, imbarazzata, gentile — una presenza tesa e brillante che la timidezza paralizzava. La sua umilta', la sua disponibilita' ad accettare tutto quanto veniva generalmente ammirato parevano darle a volte un'esasperante docilita' che nascondeva la sua pazienza e la sua audacia fuori moda. Ci mostro' allora poesie che in seguito, piu' o meno cambiate, vennero pubblicate nel suo primo libro, The Colossus. Erano poesie dai toni bassi, perfette nella struttura, facili all'allitterazione e a un'angoscia dolente ed intimista. Un bastardo che si sforza di galoppare / Spinge lo sciame dei gabbiani a volar via dal litorale Non prestai allora, ne' saprei dire perche', un'attenzione molto profonda a nessuna di quelle poesie. Avvertii la sua raffinatezza, la sua confusione, e non seppi immaginare la sua stupefacente, trionfante completezza futura".

e mi dico che le figure più grandi sono sempre straziate e ubriacate dall'odore della morte. 

lunedì 25 novembre 2013

un dono per questa terra folgorata. giornata mondiale della violenza contro le donne.

era parecchio tempo ormai che ne avevo perse le tracce, a parte quelle che ogni tanto lascia dalla mia parrucchiera che, per chi non lo sapesse, condivido con mia sorella di blog.
ho ritrovato lellacostaèmiasorella allo IED, istituto europeo di design di Milano, ove si teneva quest'anno, ormai due settimane fa, la rassegna della Canon su fotografia e dintorni.
un venerdì sera mi sono avventurata a sentire Oliviero Toscani che, ormai senza dubbio, non mi piaceva prima e non mi piace adesso, arrogante e presuntuoso, e poi mi sono ritemprata una domenica a sentire Lella, che mi piace, sempre.
ha presentato, insieme a Denis Curti, direttore di Contrasto e vicepresidente della fondazione Forma, persona adorabile direi, le rappresentanti illustri dello sguardo fotografico al femminile in una rassegna intitolata "lasciarsi sorprendere dalle immagini".
se si invita lellacostaèmiasorella è per parlar di femmine. non so, forse si potrebbe anche allargare lo sguardo, appunto. comunque mia sorella di blog è donna intelligente e mai dice cose a caso, guarda le fotografie con occhio attento e vigile, si vede che dello sguardo sa bene cosa farsene, allenata e talentuosa.
ho scoperto cose nuove, sguardi diversi, mi sono lasciata stupire, come richiesto.
mi hanno insegnato che Julia Margaret Cameron era zia di Virginia, Woolf.
credo si trattasse di una famiglia fuori dal comune.

Julia Margaret Cameron
lo stile vittoriano, evidente e inconfondibile, assume carattere singolare nella sfuocatura, l'uso dei filtri, l'interpretazione, l'uso del chiaro scuro. l'immagine dell'angelo conferma la sua epoca ma allo stesso tempo esprime un'autorialità femminile, ferma la fotografia nel suo tempo, il tempo dell'autrice. la trovo magica e ipnotica.




Francesca Woodman
mi hanno riparlato di Francesca Woodman, ma forse, almeno in questo caso, sapevo più io di loro.
Fotografia del corpo, corpo della fotografia.




Diane Arbus
mi hanno ripresentato Diane, Arbus, e ho confermato l'idea che avevo di donna forte e invincibile, capace di guardare, e mostrare, l'inguardabile con quel talento encomiabile di dare dignità a qualsiasi cosa forma persona, all'umanità intera.
Mi fido solo dei miei occhi, diceva. e ognuno di noi ha solo i propri occhi di cui fidarsi, a pensarci bene. non ho mai visto ne mai vedrò con gli occhi di un altro. ma il suo motto era in linea con la sua funzione di provocatrice, di guastatrice di coscienze.
Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. E' porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. E' un modo di vivere. diceva Cartier-Bresson, e la Arbus, come lui, inquadrava i suoi soggetti dal basso, stemperando la retorica dell'immagine, cogliendo, si dice, l'istante decisivo dell'allineamento perfetto.



Tina Modotti 
mi hanno ricordato Tina Modotti, friulana trapiantata negli Stati Uniri e poi in Messico, italiana di risonanza mondiale.
Ogni volta che si usano le parole "arte" o "artista" in relazione ai miei lavori fotografici, avverto una sensazione sgradevole dovuta senza dubbio al cattivo impiego che si fa di tali termini. Mi considero una fotografa, e niente altro.


Margaret Bourke-White 
mi hanno mostrato alcune foto di Margaret Bourke-White, fotogiornalista e soprattutto donna.  Lella si è soffermata su questa foto, e credo proprio a ragione. lo sguardo è in un primo tempo rapito dai corpi martoriati e accatastati ma subito dopo viene sequestrato dall'immagine della donna, l'unica nella foto, che ritrae il suo sguardo, l'unica in un mondo di uomini che camminano indifferenti. è quella donna che sottrae l'attenzione ad ogni altra immagine del della foto, quella donna, lei,  è la fotografa che si ritrova nel gesto umile e sofferente di chi c'è, è testimone, ma non vorrebbe vedere.


Anche questi sono versi di guerra
Anche questi sono versi di guerra
Composti mentre infuria, non lontano, non vicino
Seduti di sghembo a un tavolo rischiarato da lumi
Mentre cingono le porte di palme
Anche questo è un canto verso
Dio Che chini lo sguardo sui suoi vermi e ci travolga
Amati e non amati.
Non una tregua – un dono
 Per questa terra folgorata.

Antonella Anedda da Notti di pace occidentale

Donna Ferrato 
siamo negli ani '80 e questa fotografa fissa indelebile la violenza domestica, la violenza sulle donne.





oggi siamo nel 2013, 25 novembre, 
ed è la GIORNATA MONDIALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE.
siamo davanti a un orribile macabro esempio di globalizzazione mondiale, nel tempo e nello spazio, sono qui per dire anch'io che c'è bisogno di pace, c'è bisogno di tregua, un dono, per questa terra folgorata.

Notti di pace occidentale

Per trovare la ragione di un verbo
perché ancora davvero non è tempo
e non sappiamo se accorrere o fuggire.

Fai sera come fosse dicembre
sulle casse innalzate sul cuneo del trasloco
dai forma al buio
mentre il cibo s’infiamma alla parete.

Queste sono le notti di pace occidentale
nei loro raggi vola l’angustia delle biografie
gli acini scuri dei ritratti, i cartigli dei nomi.

Ci difende di lato un’altra quiete
come un peso marino nella iuta
piegato a lungo, con disperazione.

giovedì 21 novembre 2013

Il coc­co­drillo ti morde con lo sguardo

Ancorato alle millenarie radici della sua cultura, la reinterpreta reinventandola, aprendola alle tensioni della contemporaneità, toccando nei suoi versi tutti i grandi interrogativi del nostro esistere e ricordandoci che la poesia è la nostra unica lingua madre. Vive e poeta da esiliato non solo dalla sua terra, spingendo al confine estremo il suo vedere. Un esule assoluto e distante cantore, profondo al di là del nostro spazio-tempo. 
Così la giuria del Premio Internazionale Nonino 2012 ha raccontato Yang Lian, poeta cinese esiliato dopo il massacro di Tienanmen, annunciandone la vittoria.
Yang Lian è nato a Berna 1955, ma poco dopo segue la fami­glia di ritorno in Cina. Ini­zia a scri­vere poe­sie nel 1976 e circa tre anni dopo pub­blica in una rivi­sta indi­pen­dente. Nel 1989, dopo molti viaggi all’estero, è costretto a un lungo periodo di esi­lio, per aver con­dan­nato pub­bli­ca­mente le scelte del Governo cinese a seguito degli avve­ni­menti di Piazza Tie­nan­men. Nel 1994 decide di sta­bi­lirsi a Lon­dra, dove attual­mente vive e lavora. Le sue opere sono state tra­dotte in 25 lin­gue. In Ita­lia, i suoi versi sono stati pub­bli­cati da Einaudi nell’antologia “Nuovi poeti cinesi”, nel 2004 è uscita la rac­colta “Dove si ferma il mare” per Scheiwil­ler. È uno dei vin­ci­tori del Pre­mio Nonino 2012.
mi sono avventurata tra Lacan e la Cina, e, tra molte cose noiose o poco comprensibili del prestigioso convegno cui ho assistito a ottobre, almeno una è stata folgorante. come ho già avuto modo di dire Claudia Pozzana ha fatto una lezione magistrale parlando e spiegando i nuovi poeti cinesi, intersecandoli con la lezione di Lacan. ha citato poesie di una bellezza ancestrale e moderna allo stesso tempo. 
ha citato Yang Lian, poeta che ho già avuto modo di conoscere sul mensile Poesia e del quale ho già avuto modo di parlare (http://nuovateoria.blogspot.it/2013/04/questa-stanza-che-ti-pensa-in-cui-non.html).
ecco comparire i coccodrilli: Lacan usa la metafora del coccodrillo per parlare della madre, la famelica bocca materna che azzanerebbe e ingloberebbe i propri stessi figli se non ci fosse il palo "paterno" a tenerle aperte le fauci. è l'intervento del padre che impedisce il divoramento cannibalico della madre verso i propri figli. e allora...guarda un po' questa poesia com'è divorante...
ma il coccodrillo è anche, o forse chissà soprattutto, il pericolo mortale insito nella lingua che anima l'inquietudine di ogni poeta, soprattutto contemporaneo: ogni carattere cinese, dice Yang Lian, è una trappola nella quale cadono intere generazioni. insomma, come emanciparsi da una tradizione così potente, ancestrale, viscerale, inglobante e diventare un poeta moderno?

Coccodrilli

1
Il coc­co­drillo ti morde con lo sguardo
pal­pe­bre come foderi di coltelli
nascon­dono denti insonni

sen­tieri nella carne
pre­mono verso lo stagno
sei divo­rato dalla tua stessa occhiata

2
Boc­che enormi sui volti altrui
a te è rima­sta solo una dentiera
corallo infranto verde inchiostro

mac­chie di san­gue      fauci spalancate
postura minac­ciosa
resa

3
Grasse sca­glie in acqua morta
senti un bru­li­chio di formiche
stri­sciare fuori dalle fes­sure delle ossa

gra­vida dopo un pru­rito spasmodico
l’utero come un formicaio
una covata di coc­co­drilli innati carnivori

4
Il rumore dello strappo ha un che di gioioso
bel­lezza dello stri­dore degli scheletri
il tuo nome affila i tuoi denti

il tuo san­gue     con­di­vide il tuo piacere
quando sta­bi­li­sci la morte altrui
ancora una volta uccidi te stesso

5
Appena dal midollo fan­goso le men­zo­gne ti attaccano
vieni schiac­ciato sotto una pesante armatura
mura crol­late

cadono intorno
le alghe ascoltano
nel corpo la bat­ta­glia senza nessuno

6
Dopo feroci assas­si­nii e can­ni­ba­lici banchetti
può esserci ancora pentimento
in forma di con­ti­nui rigurgiti

che forse sono invece le scuse dovute dai morti
per quella puzza di resti maldigeriti
nello sto­maco del padrone

7
Il coc­co­drillo come un ideo­gramma che stringe le narici
ti disde­gna
non fa che flut­tuare su que­sta pagina bianca

dispe­rato chiedi aiuto
con ideo­grammi da tempo latenti
spro­fon­dando nell’acqua piena di coccodrilli

Yang Lian

Que­sta poe­sia è tratta dal volume “Nuovi Poeti Cinesi”, a cura di Clau­dia Poz­zana e Ales­san­dro Russo, Einaudi 1996.
di Yang Lian leggo che è un poeta straordinario con una sensibilità occidentale, modernista, unita a una cinese, antica, quasi sciamanica. è capace di entusiasmarti e terrorizzarti. il suo lavoro è un ponte tra la tradizione cinese e il modernismo occidentale, la portata della sua immaginazione è sorprendente.
detto questo la poesia mi piace e mi colpisce, è densa e aspra, alcune parole feriscono a morte, altre puzzano di putrefazione, altre richiamano aiuto e piangono disperazione.  
Una poesia non è altro che un tentativo di trascendere i confini della lingua e un poeta è solo qualcuno che si arrampica sui muri, che tenta di superare quel muro costruito dai capolavori del passato.

lunedì 18 novembre 2013

Jole Veneziani


Esattamente.
alla Villa Necchi Campiglio di Milano, dentro la villa, passeggiando nella villa, nella sale della villa, sulle scale della villa e persino nelle cucine, si svolge la mostra sulla stilista Jole Veneziani.
la mostra, quindi, è doppia, e doppia è la felicità e pure il godimento.
la mia reflex si è sbizzarrita, a metterle tutte le foto che ho scattato di post ne devo fare due; diciamo che ho scelto quelle che, oltre alle creazioni della Jole, divina adorata me la immagino osannata dalle sue preziosissime clienti, mettono in mostra la bellezza della villa.
per me è stato un viaggio nell'eleganza, nella ricchezza, nel futile e nella bellezza, nel clamore e nella spettacolarità, nella cura e nel talento, nel lusso e nell'inarrivabile.
subisco il fascino di questo mondo anni 50, delle dive del cinema e dell'eleganza sartoriale, di questi vestiti dalla fattura magistrale, di questa Jole Veneziani, stilista di origine tarantina, trasferitasi ancora bambina a Milano, dove apre il primo atelier di pellicceria nel 1943. dopo pochi anni nasce il reparto di Haute Couture e ben presto l'estro di Jole, o della Jole..., diventa il punto di riferimento della più esigente clientela milanese e non solo. nel '52 riceve infatto il Giglio d'oro della moda, importante riconoscimento conferito a chi si distinguesse, con il maggior numero di vendite all'estero, nell'affermazione della moda italiana.
ricchezza e successo.
inoltre siamo a Villa Necchi Campiglio di Milano (via Mozart 14), che è un Bene del FAI, realizzata da Piero Portaluppi tra il 1932 e il 1935 per il nucleo familiare composto da Angelo Campiglio, sua moglie Gigina Necchi e sua cognata Nedda. il mondo dei Necchi Campiglio è quello dell’alta borghesia industriale lombarda, classe agiata, ma anche tenace lavoratrice e al passo coi tempi. a Portaluppi subentrerà Tomaso Buzzi, che, nel secondo dopoguerra, conferirà alle sale un aspetto più classico e tradizionale.












i vestiti e la villa sono strepitosi, il mio divertimento è stato incontenibile.
leggendo la presentazione della mostra:
Per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, il lussuoso atelier della Veneziani al numero 8 di via Montenapoleone non è stato solo la grande officina creativa di uno stile unico e universalmente apprezzato, ma anche un centro di aggregazione della mondanità milanese, grazie alle clienti celebri, attrici e regine del ‘bel mondo’, con cui lei, temperamento curioso e vivacissimo, intrattenne anche rapporti di amicizia. 
Da quelle sale dorate e risplendenti di specchi sono passate Josephine Baker, Marlene Dietrich, Maria Callas, Elsa Martinelli, Lucia Bosè, Wally Toscanini, Anna Proclemer, Giovanna Ralli, Paola Pitagora, Anna Bonomi Bolchini, Ljuba Rizzoli, Emanuela Castelbarco, Sandra Milo, Franca Rame, Ornella Vanoni. 
Con alcune di esse s’instaurò un rapporto di forte complicità. È il caso di Sandra Milo, la quale, in occasione della prima a New York di Giulietta degli spiriti di Fellini, “mi aveva chiesto – ricordava la Veneziani – di prepararle un guardaroba tutto azzurro, per stare in carattere col personaggio interpretato che doveva apparire come una donna morbida, burrosa, gentile, zuccherina”. Nel suo atelier, contraddistinto da un permanente profumo di caramello che saliva dalle cucine dello storico caffè Cova e da un gusto, ancora dominante nella ricca Milano borghese del secondo dopoguerra, per quel Settecento rivisitato già ritornato in voga negli anni del Secondo Impero, Jole Veneziani regnava tra stuoli di lavoranti, modelle che si muovevano come eleganti danzatrici e, com’ebbe modo di scrivere Edgarda Ferri, “quiete collaboratrici che si affacciavano da una tenda di raso dai riflessi dorati per dire: «è al telefono la contessa SB», oppure: «Sta arrivando la marchesa BD», o ancora «è al telefono Wally Toscanini»”.
la rassegna, curata da Fernando Mazzocca, oltre a presentare abiti d’epoca, bozzetti e fotografie, oggetti di sartoria, scelti tra gli oltre 15.000 pezzi dell’Archivio Veneziani, nell'ultima parte offre anche filmati, documenti, fotografie, stralci cinematografici come, appunto Giulietta degli Spiriti di Fellini.
Non manca niente, c'è tutto, due ore di lusso, buon gusto, nostalgia e uno stile che non esiste più.




venerdì 15 novembre 2013

bulimica

Si secca sull'impiantito del bagno il sangue
accanto alla mia testa mentre poso avvolta
a gomitolo fetale e guardo il gocciolio dei tubi.

Sono una pozza sporca di buio dopo lo spurgo-
in vesti nere su un letto di mattonelle polari, la schiena
nuda spalancata tra la cintola alla vita e il top striminzito,

in silenzio e in soggezione della vasca ferma.
La luna fioca del mio corpo è sconvolta
da pallide rive di braccia e collo e viso,

rese anche più pallide dal chiaro di luna e dalle stelle.
A mezzanotte il bagno è ammutolito.
Incastonato nell'orbita del mio fissare morto

il water smette di sibilare. Lì dinnanzi, ore fa,
innocente come una matta, stavo in ginocchio,
e sentivo un santo scarno delirare dentro di me-

"Svuotala, svuotala, e sarà magra!".
Mi aggrappavo al patto come membrana
a una costola, rigettando quella fame.

Ebbra al fiato di lei, chinata
a un pozzo, la svuotavo,
la svuotavo, la svuotavo,

bruciandone le erbacce e gli imbrogli,
sconfinavo nelle camere del corpo
a stuprarlo con due dita scabre.

Questo fuoco può lambire e sciogliere,
ma non perdona: le mie dita entrano,
si, ma a dissecarsi e scottarsi

nella passione caustica dei succhi delle budella.
Essuda il corpo, riluttante.
Diffidane.

Erutta, lei, maniacalmente,
finchè il sangue non la rende santa, arida, vuota.
Nè le lacrime nè il facile sciacquone

possono rappezzarla una cerimonia,
che si allontana nella vigilia della magrezza.
Freddo il  corpo si rovescia in gocce mielose

sulle mattonelle; cedono i ginocchi;
dondolano sgraziati i gomiti dalla ciambella
del WC; demente cade una testa

su una bilancia, esce il sangue dal naso.
Ora, raggomitolata accanto ai tubi gocciolanti,
eccola a pesare il peso di quella testa, in vesti nere

che incorniciano braccia, collo, viso.
Le mattonelle non scaldano l'insensibile.
Ci muoviamo come spiriti.

Leanne O'Sullivan

ecco un'altra autrice anglosassone, irlandese per la precisione.
non sono certa che questa sia una poesia, per le mie concezioni di essa ne dubito.
dopo la folgorazione dei giovani poeti cinesi -e ce ne sono ancora parecchie di poesie da postare- questo stile non mi appaga, non mi parla di poesia, non è poesia che mi guardi.
però il tema è bruciante, l'angoscia della bulimia la conosco, l'ho incontrata ormai molte volte nel mio cammino di conoscenza della psiche.
e questa prosa poetica, diciamo così, ne tenta certamente l'esplorazione con coraggio, franchezza, spietata lucidità.
si avverte l'angoscia ma anche l'abbrutimento, la pena e anche lo schifo.
si sente bene quell'anelito di santità che sempre accompagna l'anoressia bulimia, quell'estremo tentativo di purificarsi dal mondo, dal cibo, dall'oggetto, dalla dipendenza.
si tocca l'aspirazione all'astrazione e allo svuotamento che passa attraverso la merda del corpo. è così.
ci sono il water, lo stupro, il delirio, le budella, il sangue, lo spurgo, il rutto, la demenza a renderla santa, arida e vuota.
follia.

martedì 12 novembre 2013

Zero

Zero
                   non è che
                                         non abbia
senso
                      
Ma Desheng

dove c'è azzeramento si apre uno spazio vuoto, che permette l'apertura a un nuovo campo di possibilità, dice Claudia Pozzana in Poesia Pensante.
la poesia è la voce di un monologo che si svolge in una piazza, dove l'eco del reale risuona su un monte, da cui si diparte un vento che sibilando la pronuncia, e ci riguarda. dice ancora.
non posso che credere, a lei e anche a Ma Desheng.         
soprattutto quando dice: ci riguarda, perchè è proprio così.
quando una poesia ci parla è perchè il giro del suo eco ci dice qualcosa che ci riguarda e ci guarda (poesia che mi guardi diceva Antonia Pozzi).

lunedì 11 novembre 2013

my feminine ways

The Visitors
ma non è quello che potrebbe sembrare.
è un'installazione favolosa all'Hangar Bicocca di Milano.
semplice, ma composita, essenziale, ma efficace.
semplicemente emozionante e poetica.
ideata e progettata da Ragnar Kjartansson, artista islandese, assolutamente singolare e a me del tutto sconosciuto, fino a una settimana fa.
di cosa si tratta:

The Visitors (2012) è una grande installazione costituita da nove proiezioni video in scala 1:1, che rimette in gioco le relazioni fra la dimensione del concerto dal vivo, la tradizione della performance, la poesia, il cinema attraverso un allestimento immersivo, basato sulla ripetizione e la circolarità dei gesti e delle ambientazioni. Nei nove video di The Visitors compaiono musicisti differenti, tutti amici di Kjartansson (fra cui Kristín Anna e Gyða Valtýsdóttir, sorelle fondatrici della storica band islandese dei Múm, e Kjartan Sveinsson, tastierista fino al 2012 dei Sigur Rós), che cantano e suonano per più di un’ora, ciascuno con uno strumento diverso, la stessa melodia della canzone Feminine Ways, ispirata alla poesia composta dell’ex moglie dell'artista, Asdís Sif Gunnarsdóttir. 
 Le nove scene sono girate in alcune stanze – fra cui la biblioteca, lo studio, la cucina, la sala da bagno, una camera da letto, la veranda – della grande e meravigliosa dimora ottocentesca di Rokeby Farm, nell’Upstate New York. Le nove tracce audio e video, girate separatamente, vengono proiettate contemporaneamente su grandi schermi in un allestimento concepito ad hoc dall’artista e dai curatori che enfatizza gli elementi visivi e sonori dell’opera, mettendo il pubblico al centro di una performance corale e continua. Ispirata nel titolo e nel tema all’omonimo e ultimo album del celebre gruppo svedese ABBA, The Visitors offre una riflessione intorno al tema della forza e della persistenza dei legami affettivi, della malinconia e del romanticismo tipici della cultura nordica da cui Kjartansson proviene. La musica costituisce infatti un elemento fondamentale della sua intera composizione artistica e viene utilizzata, come lo stesso artista afferma, “da elemento quasi plastico”.





ora, per dirla breve, questa creazione di video singoli contemporanei che messi insieme formano un concerto corale, l'assunzione di insieme di singole partecipazioni, l'essere separati nei video, ma prossemici nella realtà, l'ascolto globale che può diventare singolare se ci si avvicina alla proiezione individuale, crea una condizione interiore di commozione molto forte, molto intensa.
la musica è semplice, un testo breve e ripetitivo, a tratti è accennata, a tratti si sentono solo i singoli elementi, a tratti diviene forte intensa globale e elevata.

A pink rose 
In the glittery frost 
A diamond heart 
And the orange red fire
Once again I fall into 
My feminine ways 
You protect the world from me 
As if I’m the only one who’s cruel 
You’ve taken me 
To the bitter end 
Once again I fall into 
My feminine ways 
There are stars exploding 
And there is nothing you can do 

l'emozione è palpabile in tutti, la gente sta al buio in questo spazio illuminato solo dai video, sta seduta, cammina, si sposta da un video all'altro, oppure sceglie il suo artista preferito.
la fluttuazione tra la singolarità e la coralità ha un effetto trascinante, ha un effetto poetico e romantico, crea la sensazione fortissima di essere parte di un tutto, di parteciparvi portando la propria individualità, di annullarsi a favore dell'insieme.
fino al 17 novembre...da non perdere per nessun motivo al mondo.


venerdì 8 novembre 2013

veicoli

Veicoli
Colui che leggi
sta indosando un vestito

entri controluce in stanze interne

insieme annegate sulla superficie dello specchio

Gu Cheng
luglio 1984

quante soggettività ci sono in questa poesia? almeno tre.
il poeta, il maestro (colui che leggi)
tu (che entri)
voi (che insieme annegate)

questa poesia è un capolavoro di maestria, una metafora del vincolo con il maestro, dell'analisi del sè, dell'alterità dei soggetti e dei vincoli, o veicoli per dirla con il poeta, che orientano la relazione tra i soggetti.
c'è il riconoscimento del maestro e del suo valore (colui che indossa un vestito e che leggi, colui che investi di un sembiante, ovvero il vestito, il tranfert, e al quale riconosci un supposto sapere), ci sono l'analisi, la ricerca del sè, della profondità del sè, dell'inconscio, che comportano accecamento e disorientamento, e c'è infine l'avvertimento sul rischio di fondersi con il maestro perchè al punto di congiunzione tra poeta-analista  e lettore-analizzando ci si perde nell'immaginario e si annega insieme.
cosa dire di più in tre righe di magistrale poesia?

giovedì 7 novembre 2013

César Pelli

folla oceanica in Triennale. 
per i 150 il Politecnico di Milano regala 8 lezioni di architettura urbana al pubblico milanese.
la prima: interviene César Pelli, per chi ancora non lo sapesse, l'architetto che ha progettato il grattacielo Unicredit della nuovissima area milanese di Porta Nuova-Garibaldi.
per me, un grande regalo alla città, un'area nuova avveniristica svettante splendente di grande bellezza. 
ovunque vada, se mi aggiro in zona, la cerco con lo sguardo, di giorno e di notte, quella cima della pergamena arrotolata del grattacielo più bello di Milano.
fotografia di Marco Holzmiller - tutti i diritti riservati
non sono un architetto ma l'urbanistica mi piace e la mia città ancora di più. queste lezioni mi interessano, non potrò andare sempre, sono alle 18, ma, se lo studio me lo consente, in quelle occasioni potrò almeno consolarmi del pauroso calo di attività privata degli ultimi mesi che mi lascia spazi liberi tra l'inaspettato e l'angosciante.
Ieri sera potevo, il 27 Novembre -Renzo Piano!!- probabilmente -meglio? peggio?- no.
tornando alla serata, ancora una volta mi sono trovata immersa nella bella gioventù degli studenti di architettura, bella casual intellettuale attenta, in una sala, come per la presentazione della mostra di Porto Poetic, stra colma, con decine di persone in piedi e sedute per terra ad ogni angolo possibile, tra le quali anche io, sempre molto colpita dagli spostamenti di massa della popolazione milanese in occasione di questi richiami culturali. lunedì ho tentato, giuliva e fiduciosa, di andare a sentire Steve McCurry che parlava, ma dai?, di fotografia. impossibile: una fila di almeno 500 metri, sono entrati in 200, tutti gli altri fuori, tra i quali anche io.
César Pelli è un uomo anziano, nato nel 1926, con un bel pizzetto a ornargli la faccia, con alcuni tic a deturpargliela, arriva in ritardo di 10 minuti scusandosi, è argentino di origini italiane, parla in inglese, ed è una persona amabile.
scrivo questo post per fargli onore, a lui e a tutto il suo imponente lavoro e carriera, ma anche solo per sottoscrivere con forza la mia ammirazione assoluta per persone come lui, e potrei dire lo stesso Alvaro Siza e Eduardo Souto de Moura sentiti due mesi fa, che, a fronte di un talento smisurato, di una carriera luminosissima, di una grande fortuna talento ammirazione e ricchezza raggiunte nella vita, rimangono sentitamente autentiche, umili, ironiche, alla mano, gentili, emozionate, ogni volta, di fronte al tributo di osservanza e gratitudine della popolazione che li ascolta e che gode del loro lavoro. almeno così a me pare.
il grattacielo César Pelli della piazza Gae Aulenti è un miracolo di bellezza, tutta l'area, ho potuto notare ieri, è frutto di un progetto urbanistico mirato: si accede alla piazza, sopraelevata di 6 metri rispetto al suolo dell'area circostante, da 5 vie differenti, tutte studiate in modo che non si debba attraversare il traffico per raggiungerla. una lunga sopraelevata la congiunge all'altro gruppo di grattacieli che si spinge in direzione di Via Vittor Pisani, e una vasta area verde, ancora in costruzione, la congiungerà al delimitare dell'area urbana di Milano chiamata Isola. fantastico, la mia Milano che cambia, che sale, che si modernizza, che da lavoro, che si imbelletta.


César Pelli ha lavorato in tutto il mondo e dico TUTTO il mondo, ha costruito i suoi palazzi ovunque, sempre animato dal pensiero-progetto, così ha spiegato, di ricostruire aree urbane intorno ai suoi svettanti palazzi, piazze, giardini, zone pedonali, aree di città vissuta, perfino a Los Angeles, che mi sembra l'antitesi assoluta di una città comunitaria, tutto tranne un luogo abitabile in termini europei.




onore al merito.

martedì 5 novembre 2013

Sacro Gra

nella sala, forse a dir tanto, eravamo in 10.
93 minuti di documentario di Gianfranco Rosi. 
un susseguirsi di immagini surreali, inverosimili e improbaili eppure vere. 
intorno al grande raccordo anulare si consumano vite impensabili, eppure siamo a Roma, Roma capitale d'italia, Roma della grande bellezza di Sorrentino. 
un racconto lento e dettagliato, a volte solo filmato, a volte anche parlato, ma non come un'intervista. nessuna domanda, i personaggi parlano, tra sè o con qualcun altro, e così narrano le loro vite ai confini della realtà. per tutto il film, attonita, mi sono domandata perchè premiare questo oggetto, seppure pregiato e onorevole, con un premio come quello della mostra del Cinema di Venezia. 
non lo so. 
veramente non lo so. ormai è un vezzo dei giudici di Venezia premiare l'improbabile, il difficile, il meno godibile, l'impegnato a scapito del bello. deve essere ormai un punto di onore. 
credo che questa posizione irrigidita  vada solo a scapito dei buoni film italiano e internazionale, e quindi non voglio sentire lamentele sugli incassi milionari, in tre giorni di ponte, del sole a catinelle di Checco Zalone. 
ad apprezzare Sacro Gra eravamo in dieci, punto e basta, non c'è niente altro da aggiungere. 
e non è un capolavoro, sia chiaro, non è un capolavoro da difendere a tutti i costi, oltre i gusti grezzi e grossolani degli italiani, è un documentario originale e curioso, uno sguardo veloce sull'inverosimiglianza della vita, sull'involuzione penosa delle città, sulla bizzarria che produce l'abbandomo sociale.
guardandolo, e facendomi domande, ho ripensato a un articolo di Sandro Veronesi letto su La lettura del Corriere della Sera. il suo punto di vista è molto particolare, va al di là delle mie capacità di pensiero, è una riflessione interessante che mi affascina moltissimo ma che, comunque, non modifica la mia opinione sul film e sull'entità del premio che ha ricevuto. è un punto di vista urbanistico che guarda Roma come città chiusa e involuta che, nella sua crescita e sviluppo, ha badato molto al controllo, alla centralizzazione, all'evocazione e conservazione della memoria storica senza saper guardare al futuro e alla periferia: un fallimento dell’urbanistica novecentesca che si ritrova, all’inizio del secolo successivo, confinata in una penosa, diroccata irrilevanza.

Roma e le altre città chiuse
...
Oggi tocca al cinema europeo, anzi italiano, portare avanti questo discorso con due film apparentemente lontani ma intimamente legati dall’implicito assunto che li sostiene. I due film sono La grande bellezza di Paolo Sorrentino e Sacro Gra di Gianfranco Rosi; l’assunto è che, quando si parla di città (e cioè di noi), a ogni segno tracciato (o non tracciato) su un foglio corrisponde sempre la deportazione di un certo numero di esseri umani in un determinato destino, e questo — attenzione — anche quando non esiste nessuna intenzione di deportarceli. Accenno appena al mio personale giudizio su questi due film, che considero due capolavori, non perché esso abbia importanza nel discorso che sto facendo, ma per evidenziare che prima di rimuginarci sopra in questo modo li ho pienamente goduti per quello che sono, cioè due opere cinematografiche per me di gran pregio. Detto questo, è interessante osservare che entrambi rappresentano Roma, non come pura ambientazione ma come organismo complesso e spesso abnorme che interagisce con le vicende narrate, le condiziona e le definisce. 
Nel film di Sorrentino si tratta della Roma antica, magnificente, languida e immortale, la cui struggente bellezza, per l’appunto, appaga fino a stordire. 
In quello di Rosi è la Roma invisibile e inguardabile che si è abbarbicata alla più grande autostrada urbana d’Europa, quel Grande Raccordo Anulare che doveva esserne la buccia e che invece, poiché la città ha continuato a crescere anche al di là di quel recinto, ne rappresenta solo uno strato imperscrutabile. 
Ora, sappiamo bene che l’atteggiamento urbanistico destinato alla Roma monumentale è sempre stato — nel migliore dei casi — quello della sua conservazione: un’immobilizzazione del tempo e dello spazio che si fa museo perenne della sua gloria: di conseguenza — ecco l’assunto — la retroguardia umana che si ostina a popolarla si ritrova a sprofondare nelle sabbie mobili delle terrazze panoramiche, e a lanciare trenini «che non vanno da nessuna parte». Immobile e sterile lo spazio, immobili e sterili gli uomini.
Invece il concetto della cosiddetta viabilità tangenziale, che alla fine degli anni 40 ha ispirato la progettazione del Grande Raccordo Anulare, ha a che fare con il dinamismo e con lo sviluppo. Per questo il tracciato è stato collocato ben oltre quelli che all’epoca erano i confini della città, in pieno Agro Romano: un anello destinato a farsi argine e margine della crescita governata dal pianificatore. In un dialogo a distanza con le strade consolari che vi prendono origine, il cerchio che lo descrive è stato centrato sul Miliario Aureo dell’Urbe antica, cioè proprio là dove Jep Gambardella getta il suo sguardo colmo di ozio e di rimorso — ma nessun pensiero è stato rivolto alle vite umane che sarebbero state intercettate dal suo perimetro, poiché non di insediamento si stava parlando, bensì di mera infrastruttura: e tuttavia i personaggi reali che risplendono nel film di Rosi — mignotte, sottoproletari, castellani, coatti, comparse, pescatori — vivono e lavorano lungo il Raccordo senza mai percorrerlo, come fosse un quartiere. Il pianificatore che ha disegnato il margine li ha condannati alla marginalità; il suo intento esclusivamente infrastrutturale, alla non-esistenza. Siamo agli antipodi di qualunque utopia novecentesca, e dunque anche della città mentale: dalle città invisibili di Calvino (libro-cult di Nicolò Bassetti, l’ideatore del progetto di esplorazione metropolitana che ha ispirato Gianfranco Rosi) si passa alla città involontaria. E proprio l’involontarietà, allora, che affratella i disgraziati di Rosi e i parassiti di Sorrentino, diventa l’ultimo cerchio della dannazione urbana, ben peggiore della cattività denunciata dai film hollywoodiani — dalla quale, almeno, foss’anche solo nel lieto fine di un blockbuster, si può sempre scappare. 
Da questa Roma, invece, quella immortale che non dà più frutti e quella mai nata che si riproduce ciecamente, quella dei pastori senza gregge e quella delle pecore senza pastore, non si può scappare: la vita che ci si vive, nessuno l’ha voluta. Il degrado che vi si produce, nessuno lo considera. Dal mito del controllo si passa direttamente a quello dell’abbandono. Resiste tuttavia un lampo d’utopia, negli episodi per me più belli di questi due film, i più simbolici ed evocativi: quello della miracolosa dimostrazione che la natura dà a Gambardella di poter ancora colonizzare il vuoto splendore del suo habitat, e quello dell’eroe solitario che combatte il punteruolo rosso, le cui larve s’insediano nelle palme dell’Agro Romano e ne divorano ogni tessuto fibroso fino alla loro completa distruzione. Quando un immenso stormo di fenicotteri rosa s’impossessa delle terrazze di Roma e vi riporta la vita che i suoi abitanti non riescono più a generare, e quando l’entomologo illustra il sistema che ha escogitato per scacciare il micidiale parassita riproducendo il suo stesso grido di terrore, questi due film che dovrebbero essere studiati nelle facoltà di Architettura individuano l’unico possibile antidoto contro l’entropia urbana: il radicale rovesciamento dell’approccio, spostando l’ingegno umano là dove non è mai stato applicato e affidandosi alla natura dove esso non produce più nulla. Se ci pensate, è qualcosa di molto simile a ciò che da anni sta predicando Renzo Piano sul rapporto tra centri e periferie: smettere di considerare gli uni il luogo dell’identità e le altre quello dell’anonimato, e concepire, e progettare, e produrre un flusso inverso di energia vitale — architettonica, economica, sociale, culturale e, perché no, estetica — che per una santa volta non abbia come obiettivo la crescita, la speculazione o l’aumento del Pil, ma ciò di cui in passato noi italiani siamo stati i depositari, e che oggi invece ci manca: l’armonia. Il che potrebbe farci smettere di comportarci con le nostre città come il punteruolo rosso con le palme da dattero.

Sandro Veronesi