bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 29 novembre 2018

TEATRO 3 - concerto per Amleto

ringrazio Fabrizio Gifuni, ancora una volta, per questo supplemento di felicità.
legge l'Amleto accompagnato dall'orchesta Verdi di Milano.

Concerto per Amleto
da "La tragedia di Amleto, Principe di Danimarca" di William Shakespeare
drammaturgia Fabrizio Gifuni, con la consulenza musicale di Rino Marrone
voce Fabrizio Gifuni
direttore Rino Marrone
musiche Dmitrij Šostakovič: da Op. 32, musiche di scena per l’Amleto di Nikolai Akimov e Op. 116, musiche per il film Hamlet di Grigori Kozintsev eseguite dall’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
produzione le vie dei festival, in collaborazione con Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi e Piccolo Teatro di Milano–Teatro d'Europa

e così mi tira dentro, per l'ennesima volta, nei suoi labirinti teatrali, nella sua voce c'è la verità di Amleto, anzi lui è Amleto, come sempre.
lui è teatro, la voce corpo del teatro.
vado a vederlo sperando ogni volta nell'incantesimo.
e accade.
ogni volta.
il tempo è un bambino che gioca spostando i pezzi di una scacchiera, il regno di un fanciullo.
esordisce Gifuni citando Eraclito.
è così, in balia di quel bambino, giochiamo con la vita.
"Il tempo è fuori dai cardini, O destino maledetto, che sia mai nato io per rimetterlo in sesto!"
(atto primo, scena quinta)


TEATRO 2 - tu es libre


seduto di fianco a me c'era Moni Ovadia.
che ho rivisto a teatro al Piccolo per Onegin ieri sera.
Ovadia va a teatro, questo gi fa onore, secondo me la maggior parte degli attori fa solo i propri spettacoli.
anzi ne sono certa.

questo spettacolo, Tu es libre, al Teatro I di Milano, è certamente stata una splendida scoperta.
Tu es libre
di Francesca Garolla
Testo finalista Premio Riccione per il Teatro 2017 e selezionato dalla Comédie Francaise tra le novità più significative della stagione 17/18
mi hanno letteralmente inseguita per farmelo vedere. ero andata al teatro I a vedere la Fracassi in Erodias di Testori e ho lasciato telefono e mail. mi hanno chiamato e offerto lo spettacolo in promozione.
siccome è impossibile che io dica di no a un invito così, qualcuno ha guardato giù e mi ha fatto questo immenso favore.

è la storia di una scelta, di una radicalizzazione islamca di una ragazza qualunque, di nome Haner.
tratta il tema della scelta, dell'amore per la morte, del mito ambiguo della libertà, delle stragi in nome di una giustizia divina, di un cambiamneto inspiegabile, di una genitorialità frantumata dalle domande corrosive del dubbio, dell'abbattimento del limite e del lecito senza alcun riguardo per la vita, dell'islamizzazione del radicalismo.
"E' l'elefante che manca nella storia di Haner", dice la voce narrante (interpretata dall'autrice del testo), dopo aver raccontato della comparsa di un elefante in un villagio di un paese lontano. cresciuto prima come un idolo e poi abbandonato e denutrito. il sapiente del villagio, interpellato sul destino dell'elefante, fa sapere che l'elefante non và nè idolatrato, nè demonizzato. va solo cresciuto, come qualunque altro essere del villaggio.
si è proprio l'elefante che manca nella storia di Haner. 

uno spettacolo ben scritto, ben condotto, ancora meglio recitato.
emozionante, un forte spunto riflessivo.
ho chiesto di poter avere il testo. perché é un bel testo.

TEATRO 1 - Evgenij Onegin

era pieno zeppo di russi.
vestiti in modo eccentrico e fanatici (ma lo capisco, il loro teatro a casa d'altri, cioè nostra).
ho trovato gli ultimi due posti disponibili, li ho presi al volo martedì, e ho avuto molta fortuna.
ma molta fortuna.
l'entusiasmo dei russi per lo spettacolo, con la regia di un lituano però, è più che comprensibile.
ho contenuto il mio, esteriormente, per una forma di contrapposizione, ma dentro di me avrei urlato la mia gioia.
uno spettacolo straordinario, travolgente, bellissimo.
tre ore e mezza della mia vita spese nel migliore dei modi,
teatro teatro teatro, che meraviglia, quanta bellezza, nelle parole, nella narrazione, nella lingua, nei personaggi, nelle scelte visuali sceniche, nei personaggi, nella regia, nell'allestimento, nei costumi. 
Onegin folle di tracotanza e cinismo  rinnega la vita amorosa cogliendone solo il godimento, la sua Tat'jana saprà ricordargli, anni dopo averla rifiutata, che le scelte della vita si pagano, sempre.
la narrazione si sdoppia, i personaggi si sdoppiano, le donne si moltiplicano, uno sciame di ragazze sono emblema della femminilità, la voce si fa canto e una giovane donna giullare, curva e dalle scarpe a punta armata di mandolino, fa da contrappunto al dramma dei personaggi.
potrei dire quasi un capolavoro, una magia travolgente.








Evgenij Onegin
Piccolo Teatro Strehler
selezione di capitoli dal romanzo in versi di Alexander Pushkin
ideato scritto e diretto da Rimas Tuminas
scene Adomas Jacovskis
musica Faustas Latenas
coreografia Angelica Cholina
con Sergey Makovetskij, Aleksei Guskov, Lijudmila Maksakova, Irina Kupchenko, Victor Dobronravov, Eugenij Pilugin, Vladimir Simonov, Yury Shlykov, Aleksei Kuznetsov, Artur Ivanov, Eugenia Kregzhde, Olga Ierman, Maria Volkova, Oleg Makarov and others produzione Vachtangov State Academic Theatre
spettacolo in lingua russa con sovratitoli in italiano a cura di Prescott Studio

Non una trasposizione integrale del romanzo di Pushkin, ma la scelta di privilegiare la mancata storia d’amore tra Tatiana e Onegin, mettendola in scena tra passato e presente, realtà e immaginazione. Nell’originale, Pushkin racconta la vicenda tragica di Onegin e Lenskij, giovani amici che si recano in visita nella tenuta della famiglia Larin. Qui Lenskij corteggia Olga, di cui è innamorato, mentre la sorella di lei, Tatiana, si invaghisce di Onegin che la respinge e prova invece – per gioco e per noia – a sedurre Olga. Lenskij sfiderà a duello Onegin, restando ucciso. Tre anni dopo, mentre ancora è tormentato dal rimorso per le proprie azioni, Onegin incontra per caso Tatiana, sposata a un altro, e capisce di esserne sempre stato innamorato. La donna, pur amandolo ancora, lo respingerà scegliendo di essere fedele al marito e abbandonando Onegin alla consapevolezza di aver distrutto la propria vita e quella di altre tre persone. Tuminas immagina che due Onegin si muovano sulla scena, un uomo vecchio che, nella propria stanza, torna con la memoria alla vicenda che così drammaticamente lo ha segnato mentre osserva il “se stesso giovane” compiere le azioni che ne determineranno il destino. Con lui anche due Lenskij, il compagno di giovinezza di Onegin e l’uomo che sarebbe diventato se non fosse stato assassinato in duello. Considerato la sintesi della Russia del XIX secolo, Evgenij Onegin è un’opera straziante e romantica che Tuminas allestisce «infrangendo gli stereotipi – spiega – e andando in cerca di una sinfonia di significati, dell’armonia emotiva e musicale del romanzo, evitando di esasperarne la sensibilità. Evgenij Onegin è per me la sintesi di Luce e Bellezza».

venerdì 23 novembre 2018

un supplemento dell'essere

La logica mercantile si faceva via via più pressante, imponeva un ritmo frenetico. I prodotti muniti di codici a barre passavano dal nastro trasportatore al carrello con un bip discreto che in un secondo faceva sparire il costo della transazione. Gli articoli di cartoleria per l’inizio della scuola comparivano sugli scaffali prima ancora che i bambini andassero in vacanza, i giocattoli di Natale all’indomani di Ognissanti, i costumi da bagno a febbraio. Il tempo delle cose ci risucchiava, ci costringeva a vivere sempre con due mesi d’anticipo. Le persone accorrevano alle «aperture straordinarie» della domenica, a quelle «prolungate» fino alle undici di sera, il primo giorno di saldi costituiva un avvenimento che rimbalzava sui media. «Fare un affare», «approfittare delle promozioni» erano principi indiscutibili, un obbligo. Il centro commerciale, con il suo ipermercato e le sue gallerie di negozi, diventava il luogo principe dell’esistenza, quello della contemplazione inesauribile degli oggetti, del godimento calmo, senza violenza, protetto da guardie giurate dai muscoli forti. I nonni vi accompagnavano i nipoti per vedere capre e galline esposte nelle loro lettiere inodori sotto la luce artificiale, attrazioni che sarebbero state rimpiazzate il giorno dopo da specialità bretoni o da collane e statuette in serie di una cosiddetta «arte africana», tutto ciò che restava della storia coloniale. Per gli adolescenti – soprattutto quelli che non potevano contare su nessun altro strumento di distinzione sociale – il valore personale era stabilito dai vestiti, dalle marche, L’Oréal perché io valgo. E noi, accigliati detrattori della società dei consumi, cedevamo alla tentazione di un paio di stivali che, come un tempo i primi occhiali da sole, la minigonna, i pantaloni a zampa d’elefante, davano la breve illusione di sentirsi una creatura nuova. Più che il possesso, era quella sensazione che le persone cercavano tra i bancali di Zara e di H&M, una sensazione procurata, immediatamente e senza sforzo, dall’acquisto delle cose: un supplemento dell’essere. 

E non invecchiavamo. Nessuna delle cose che avevamo attorno durava abbastanza per diventare vecchia, sostituita in fretta e furia dal modello più recente. La memoria non aveva il tempo di associare gli oggetti a delle fasi dell’esistenza. 

Di tutte le novità il «telefono cellulare» era la più miracolosa, la più sconcertante. Non avremmo mai immaginato che un giorno ci saremmo trovati a passeggiare con un telefono in tasca e a fare chiamate in qualunque posto e in qualunque momento. Ci faceva specie che le persone parlassero da sole per la strada, con il telefono all’orecchio. La prima volta che dalla borsa sentivamo squillare la suoneria mentre ci trovavamo su un treno, in metropolitana, o alla cassa di un supermercato, sobbalzavamo, cercavamo febbrilmente il tastino verde con una specie di vergogna, di disagio, il nostro corpo di colpo portato al centro dell’attenzione degli altri, e rispondevamo pronto, sì, e altre parole non destinate a chi ci stava attorno. D’altro canto, quando di fianco a noi si alzava la voce di uno sconosciuto che rispondeva a una chiamata, ci infastidiva essere schiavi di qualcuno che considerava nulla la nostra esistenza e ci infliggeva l’insignificanza del quotidiano, la banalità di preoccupazioni e desideri che fino ad allora erano rimasti confinati nelle cabine telefoniche o negli appartamenti. 

Il vero coraggio tecnologico consisteva nel tentare di «capirci qualcosa» di computer, chi ci trafficava godeva di un’intelligenza diversa, nuova, di un accesso di grado superiore alla modernità. Si trattava di un oggetto imperioso che esigeva riflessi rapidi, gesti della mano di una precisione inusuale, e proponeva in un inglese incomprensibile tutta una serie di «opzioni» tra le quali bisognava scegliere senza indugi – un oggetto implacabile e malefico che ci nascondeva, andandola ad archiviare nei suoi anfratti più reconditi, la lettera che avevamo appena scritto e ci faceva sentire costantemente persi, spaesati. Un oggetto che umiliava. Contro il quale ci si esasperava, «e adesso cosa gli prende?!». Di quello smarrimento ce ne si sarebbe presto dimenticati. Compravamo un modem per avere internet e un indirizzo di posta elettronica, ammirati e stupiti di poter «navigare» in tutto il mondo su AltaVista. C’era nei nuovi oggetti una violenza nei confronti del corpo e dello spirito che l’uso cancellava in fretta. Diventavano leggeri. (Come al solito i bambini e gli adolescenti li utilizzavano senza esitazioni, con facilità.) La macchina da scrivere, il suo ticchettio e i suoi accessori, il bianchetto, i trasferibili e la carta carbone ci sembravano ormai appartenere a un’epoca lontana, impensabile. Eppure, nel tornare con la mente a qualche anno prima, quando ci ripensavamo in un bar nell’atto di chiamare chicchessia dal telefono di fianco alla toilette, di scrivere una lettera a P. battendola su un’Olivetti, dovevamo riconoscere che l’assenza del cellulare e della mail non avevano alcun peso sulla felicità o sulla sofferenza.


nessun peso sulla felicità o sofferenza.
questo è un pensiero lucido. ma forse è già sorpassato.
questi oggetti, questi strumenti del Game come lo definisce Baricco, sono fattori cruciali delle nostre giornate, e sono loro, ormai, la nostra memoria. sono loro a definire i nostri Anni, oggi. 
gli oggetti sono, esistono, al posto nostro.
anche se io, come Annie Ernaux, credo in altro. io sono fuori dal Game.

giovedì 22 novembre 2018

nella stanza riservata ai bambini



"Nell’arte si può anche ricominciare da capo, e ciò è evidente, più che altrove, nelle raccolte etnografiche oppure a casa propria, nella stanza riservata ai bambini. Se si vuole procedere a una riforma, tutto questo è da prendere molto sul serio, più sul serio che tutte le pinacoteche del mondo"











romaticismo




Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna



E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno














il bello, il sublime, l'eterno, il grande Io Io IO, l'avventura, il viaggio, la storia, la narrazione sognante, il velo, la verità, le cime tempestose, la decadenza, il mistero, lo stupore della notte, la potenza della natura, le luci mediterranee, le impressioni di acqua e luce, la forza del destino, i personaggi, i ritratti, Leopardi Verdi e Manzoni
e
sopra tutti
Francesco Hayez
e la sua meravigliosa "Meditazione"
mi guarda dritto negli occhi, la patria bella e perduta (ora più che mai),
il seno che allatta i suoi figli
la croce con le gloriose giornate di Milano incise,
la lotta contro l'usurpatore,
la storia dell'Italia tra le mani,
oh Hayez
che bello lo spirito, eterno indomabile, del romanticismo.

il romanticismo, una semantica in cui l'uomo, l'individuo, governa il mondo, con i suoi egoismi, i suoi conflitti, i suoi ardori e miserie, ha segnato la nostra storia di uomini e donne. con il romanticismo l'Io ha invaso tutto, così la vita e la morte dell'individuo e tutte le sue romatiche traversie, e non ce ne siamo mai più liberati.

lunedì 19 novembre 2018

poesia al buio, poesia senza occhi, senza luce

la voce di Franco Loi, 88 anni, non la dimenticherò.
la sua poesia non l'ho sentita, nessuno credo, ma la sua anziana voce si.
e la poesia della Dickinson.
e quella della Szymborska

Il cielo
Da qui si doveva cominciare: il cielo.
Finestra senza davanzale, telaio, vetri.
Un'apertura e nulla più,
ma spalancata.

Non devo attendere una notte serena,
né alzare la testa,
per osservare il cielo.
L'ho dietro a me, sottomano e sulle palpebre.
Il cielo mi avvolge ermeticamente
e mi solleva dal basso.

Perfino le montagne più alte
non sono più vicine al cielo
delle valli più profonde.
In nessun luogo ce n'è più
che in un altro.
La nuvola è schiacciata dal cielo
inesorabilmente come la tomba.
La talpa è al settimo cielo
come il gufo che scuote le ali.
La cosa che cade in un abisso
cade da cielo a cielo.

Friabili, fluenti, rocciosi,
infuocati e aerei,
distese di cielo, briciole di cielo,
folate e cumuli di cielo.
Il cielo è onnipresente
perfino nel buio sotto la pelle.

Mangio cielo, evacuo cielo.
Sono una trappola in trappola,
un abitante abitato,
un abbraccio abbracciato,
una domanda in risposta a una domanda.

La divisione in cielo e terra
non è il modo appropriato
di pensare a questa totalità.
Permette solo di sopravvivere
a un indirizzo più esatto,
più facile da trovare,
se dovessero cercarmi.
Miei segni particolari:
incanto e disperazione.

e la disperazione della Valduga, tremante.
e la mia paura.

i primi 15 minuti al buio sono stati difficili.
ho avuto paura di non farcela, ho sentito il panico che saliva.
in un attimo ho capito tutti i miei pazienti.
mi sono sentita senza scampo, senza via di uscita, prigioniera, annientata.
non sapevo dov'ero, non sapevo dove andare, ero seduta, paralizzata.
ho toccato la sedia vicina e quella davanti, chiudere gli occhi è stato peggio, piegare la testa in basso, come suggerito dai non vedenti che gestivano la rappresentazione, è stato utile.
ho cercato la luce e non c'era, il buio era assoluto, i miei occhi per molto tempo hanno avuto lampi di luce, vedevo forme luminose muoversi sulle mie pupille.
i miei occhi erano inutili, non mi davano nessun conformo, quell'oscurità era senza soluzione.
la mia domanda era: come resisto qui dentro per un'ora.
il silenzio era intollerabile, mi faceva navigare nella morte, nel nulla, e c'era un violino, terribile, la sua musica straziante mi metteva angoscia, ma il silenzio era peggio.
la mia vicina parlava e io anche, ho detto cose a caso, senza senso, l'importante era sentire la voce.
mi sono toccata il corpo e la faccia per tutto il tempo, in qualche modo dovevo esistere.
le prime poesie sono andate via così, poi piano mi sono adattata, ho respirato e ho ascoltato le voci. 
quelle dei poeti presenti, 10, tra cui alcuni molto noti, mi inchiodavano alla finzione, quella dei non vedenti, soprattutto quella maschile, mi rassicuravano moltissimo.
pensavo: lui ci vive così, sa quel che dice, sa quel che fa, di lui mi posso fidare.
le ultime poesie sono quelle che ho ascoltato di più, fino alle lacrime.
ho pianto spesso, un senso di disperazione mi ha accecato.
alla fine, uscita, ero stremata, ho avuto mal di testa tutto il pomeriggio restante e un senso di estraniamento potentissimo.
ero a Book City, poesia al buio.
non lo so se la poesia ci salverà, forse non dal buio, non me.



venerdì 16 novembre 2018

toninelli

io sono andata a vedermelo il video.
ma è ridicola 'sta storia.
a me fa pena la cretina, tra i cretini, di Forza Italia.
ma che cretina, non sa distiguere il pugno alzato da esultanza da stadio di un povero ignorante disorientato nello spazio e nel tempo da un pugno incazzato comunista?
che strumentalizzazone cretina, infantile, vergognosa.
non facciamo il bene dell'Italia a fare bagarre senza senso.
tanto lo abbiamo capito già tutti che Toninelli è un inetto.
pericoloso, è vero, perchè ci governa.
ma un poveretto.
non un vetero comunista.
ma che idiozia.
consiglio a Anna Maria Bernini di tenere a bada la sua ridicola foia per situazioni che, eventualmente, lo meritino.
poveri noi.
il decreto è una pena, arriva fuori tempo massimo, Genova è nella melma, ferma come prima.
Toninelli, lascia stare, non hai vinto niente, non hai fatto gol, perdiamo tutti.

martedì 13 novembre 2018

Ora è ciò che ha alle spalle a essere diventato oggetto del desiderio, non ciò che ha davanti

In quel preciso istante dell’inverno ’67-68 probabilmente non sta pensando a nulla, si gode il suo piccolo nucleo famigliare – presto disturbato dallo squillo del telefono, da qualcuno alla porta – in una finestra temporale libera dalle varie incombenze che hanno l’esatto scopo di farlo andare avanti, la lista della spesa, controllare il bucato, cosa fai da mangiare stasera, quell’incessante prevedere il futuro immediato che complica il versante esterno dei suoi obblighi, il suo lavoro di insegnante. I momenti in famiglia sono quelli in cui sente, non quelli in cui pensa. 
Interpreta come pensieri veri e propri quelli che le vengono quando è da sola o porta a spasso il bambino. E non intende le considerazioni su come parlano o si vestono gli altri, su quanto sono alti i marciapiedi quando si sta spingendo un passeggino, sulla censura ai Paraventi di Jean Genet o sulla guerra del Vietnam, ma le questioni che riguardano se stessa, l’essere e l’avere, l’esistenza. È l’approfondimento di sensazioni fugaci, impossibili da comunicare agli altri, tutto ciò che, se avesse il tempo di scrivere – e non trova nemmeno quello per leggere – sarebbe il materiale di un suo libro. Sul diario, che apre di rado quasi costituisse una minaccia contro la famiglia, come se adesso non avesse più diritto alla sua interiorità, ha scritto: «Non ho più nessuna idea. Non cerco più di spiegare la mia vita» e «sono una piccoloborghese fatta e finita». Ha l’impressione di aver deviato dai suoi scopi precedenti, di essersi immessa in una progressione prettamente materiale. «Ho paura di sistemarmi in questa vita calma e comoda, di ritrovarmi ad aver vissuto senza essermene resa conto.» Nell’esatto momento in cui fa questa considerazione sa di non essere pronta a rinunciare a tutto ciò che nel suo diario non compare mai, quella vita insieme, quella intimità condivisa in uno stesso luogo, l’appartamento in cui non vede l’ora di tornare subito dopo le lezioni, dormire in due, al mattino il ronzio del rasoio elettrico, la sera raccontare I tre porcellini, quella ripetitività che crede di detestare e a cui è affezionata, che le manca non appena si allontana per soltanto tre giorni quando va a fare le prove d’esame per il Capes – tutto ciò di cui le basta immaginare la perdita accidentale per sentirsi stringere il cuore in una morsa. 
Non si sogna più sulla spiaggia dell’estate a venire o come scrittrice che ha appena pubblicato il suo primo libro. Il futuro si annuncia in termini materiali molto precisi, ottenere un posto migliore, promozioni, acquisti, il bambino che entra all’asilo, non si tratta più di sogni, ma di previsioni. Le capita spesso di tornare con la mente a quando era sola, si rivede per le strade delle città in cui ha vissuto, nelle camere che ha abitato – a Rouen in una casa con altre giovani, a Finchley come ragazza alla pari, in vacanza a Roma in una pensione di via Servio Tullio. Le pare che quegli io continuino a esistere. Il passato e il futuro si sono insomma invertiti i ruoli. Ora è ciò che ha alle spalle a essere diventato oggetto del desiderio, non ciò che ha davanti: ritrovarsi in quella stanza a Roma nell’estate del ’63. Scrive sul diario: «Con estremo narcisismo, voglio vedere il mio passato nero su bianco e grazie a questo diventare ciò che ora non sono» e anche «è una sorta di immagine precisa della donna a tormentarmi. Devo forse orientarmi in quella direzione». In un quadro di Dorothea Tanning, visto tre anni prima in un museo di Parigi, era ritratta una donna dal seno nudo e, dietro di lei, un’infilata di porte socchiuse. Il titolo era Compleanno. Le viene da pensare che quel quadro rappresenti la sua vita, che ci si trovi dentro come un tempo lo era stata in Via col vento, in Jane Eyre, più tardi ne La nausea. Ogni volta che legge un libro, Gita al faro, Les Années-lumière, si pone la stessa domanda, si chiede se lei potrebbe raccontare così la sua vita. 
Talvolta le tornano in mente immagini dei suoi genitori nella cittadina normanna, la madre che si toglie il grembiule per recarsi all’adorazione eucaristica serale, il padre che risale dall’orto, la vanga in spalla, un mondo lento che continua a esistere, più irreale di un film, lontanissimo da quello di cui fa parte ora, moderno, colto, che avanza, verso cosa è difficile a dirsi. Tra ciò che accade nel mondo e ciò che accade a lei non c’è alcun punto di intersezione. Due serie parallele, una astratta di informazioni ricevute e subito dimenticate, l’altra di piani fissi. In ogni momento, assieme a ciò che viene considerato naturale fare e dire, assieme a ciò che i libri, i manifesti pubblicitari in metropolitana e persino le barzellette prescrivono di pensare, ci sono tutte quelle cose su cui la società tace senza rendersene conto, destinando a un disagio solitario chi quelle stesse cose le sente senza saperle nominare. Un silenzio che un giorno si rompe, d’un tratto o poco a poco, e delle parole cominciano a sgorgare sulle cose, finalmente riconosciute, mentre al di sopra si vanno formando altri silenzi.

Gli Anni
Annie Ernaux

non so se mia madre abbia vissuto così il suo tempo, forse non con questa consapevolezza e certamente non disdegnando, anzi, la sua condizione piccolo borghese.
di certo non guardo ai miei genitori come a un mondo rispetto al quale mi sono emancipata, da un punto di vista sociale e culturale.
anzi.
quel che penso, moloto spesso, è che, rispetto ai miei genitori, vivo molto peggio, ho perso moltissimi "privilegi", ho ridotto la mia capacità economica rispetto a loro, mi sono impoverita e certamente preoccupata finanziariamente. ho perso luoghi, ho perso sogni, ho perso possibilità di viaggiare.
si, sono certa che rispetto ai miei genitori io ho perso molto.
qual che ho alle spalle è più di ciò che ho davanti.

domenica 11 novembre 2018

paradigma rosa, la belva che è in me

conferenza Named su fitoterapia nel trattamento della donna nei suoi cicli ormonali di vita, ciclo mestruale, gravidanza e menopausa.
congresso "paradigma rosa". mica poco.
la medicina funzionale mi interessa. mi affascina, è un buon modo di vedere il corpo, il suo funzionamento e mal funzionamento.
ascolto, su un'intera giornata, sabato peraltro, una relazione molto convincente, una ginecologa davvero molto competente e di grande capacità trasmissiva. le altre, relazioni e dottoresse, molto meno. ma molto molto meno.
tre le altre, una psichiatra per la quale ho provato imbarazzo.
poi un'altra, credo, ginecologa per la quale ho provato prima noia, infinita noia per le sue evidenti incapacità didattiche, e poi uno stupore quasi panico.
alla fine della relazione della psichiatra diciamo naif, dalla platea sorge una domanda, che già mi mette in allarme, rivolta alla ginecologa prolissa. domanda sull'autismo: le cause ambientali tossiche che possono causare autismo. e già mi irrigidisco, domanda tendenziosa (e anche del tutto fuori tema, intenzionalmente tendenziosa). 
alla prima risposta, poco convincente dal mio punto di vista ma ancora accettabile, segue una seconda domanda dalla platea, decisamente preoccupante e senza possibilità di fraintendimento: le vaccinazioni come fattore trigger dell'autismo.
risposta della ginecologa, che da prolissa diventa ai miei occhi pericolosa: si, il vaccino è un fattore tossico ambientale, siamo perfettamente d'accordo.
fine della mattinata, tutti a pranzo, ci vediamo alle 14.
a me gira la testa, tutte si alzano serene e si buttano a capofitto sul generoso buffet ma io mi sento quella roba che conosco bene, quella rabbia montante quando sento cose che il mio cervello rigetta come inaccettabili. è il problema della mia vita, quella reazione lì. 
aspetto.
se non faccio così, se non aspetto, combino guai.
mangio
mi guardo in giro
nessuno commenta
tutte 'ste ginecologhe non hanno niente da dire in proposito
ho sentito male
ho certamente sentito male
come possono essere tutte tranquille
erano forse la fame e la fretta di mangiare che ha mandato via liscia la risposta da indagine dell'ordine dei medici della ginecologa pluridecorata esperta in medicina funzionale?
mangio
ragiono
la vedo
glielo chiedo?
il mio cervello residuo, quello che cerca di evitare i guai dell'altro che tende a imbracciare il kalašnikov, mi dice lascia stare.
torno nell'aula didattica e mi siedo.
cerco di leggere il giornale.
non ci riesco.
devo trovare una mediazione tra i due cervelli.
cerco la mia informatrice e gliene parlo.
povera, arrosisce, lei non ha sentito nulla, ovviamente, ma chiederà.
torna dopo 10 minuti in compagnia di quella che ritengo la sua responsabile.
hanno chiesto ma la ginecologa ha detto che lei è favorevole ai vaccini (risposta standard).
insisto che la risposta data alla gentile ed edotta dottoressa della platea non intendeva esattamente questo. "tossico ambientale" non mi sembra una definizione favorevole ai vaccini. o no?
mi dicono che la dottoressa ha fatto studi in cui emerge che le vaccinazioni peggiorano la malattia autistica, a ogni vaccinazione il povero bambino ha un aggravamento della sue condizioni psicopatologiche.
andiamo male, dalla padella alla brace.
ma davvero? quali studi? In doppio cieco randomizzato e statisticamente significativo o con due galline e quattro oche del suo pollaio? 
insisto e poi capisco che ho davanti due poverette incapaci di dare spiegazioni, balbettanti.
smetto di insistere ma chiedo alle due improvvide che forse l'azienda dovrebbe essere certa che sul palco salgano persone che sanno quello che dicono (e già le capacità espositive erano scadenti) non potendo certo accertarsi che le persone che invitano facciano domande meno che ignoranti.

immagino di essere però tra le persone di cui potranno invece accertarsi di non invitare più, eppure non sanno che quello che hanno visto è ancora il meglio di me.
la belva è rimasta in gabbia.

venerdì 9 novembre 2018

eternal rhythm

Irene Natale voce,
 Paolo Tomelleri clarinetto,
 Fabrizio Bernasconipiano,
 Marco Mistrangelo contrabbasso

Ci vediamo al fondo di un bicchiere 
illusione che non so dimenticar 
ogni notte ti devo ritrovare 
nel mio cielo popolato di bar

 Paolo Tomelleri quartet cinema teatro Trieste 
jazz mi, molto meno esaltante di ieri, ma bella voce jazz in bel clarinetto. 
nel tardissimo pomeriggio seconda lezione (per me) di Claudio Sessa su Antony Braxton - ascolto impossibile del new jazz, THREE COMPOSITIONS OF NEW JAZZ - dopo quella di ieri su Don Cherry - ascolto guidato interessante del free jazz, ETERNAL RHYTHM-. 
mi diverto a fare foto sfacciatamente truccate, vuoi vedere che  sono foto jazz..












No, non suonare del jazz, 
del jazz, del jazz. 
Ti prego, non fare del jazz, del jazz, del jazz 
 No jazz questa sera, 
no jazz, per favore, 
ho nel cuore un ricordo 
d’amore che mi fa soffrir così.

giovedì 8 novembre 2018

go Clayton go

John Scofield chitarra
Gerald Clayton piano, organo
Vicente Archer contrabbasso
Bill Stewart batteria

Blue Note, 7 novembre 2018, John Scofield Combo 66, ore 23.00.
Clayton e Archer li ho visti, per la verità conosciuti, in un bellisimo film The sound of New York, domenica mattina, il 4 novembre, all'Anteo.
sono impazzita per NY e per il jazz e i jazzisti di NY.
li ho visti, sentiti, ascoltati, esultante, ieri sera al Blue Note.
mi sono divertita da matti, sono andata in estasi ogni volta che la chitarra di Scofield stava, per un po', zitta, e potevo sentire Gerald Clayton che suonava il piano. sono pazza di lui.










(foto con trucchetti e mezzucci da i-phone)

lui suona, io sto bene.





mercoledì 7 novembre 2018

jazz life

William Claxton
un jazz diverso
diurno
un jazz pensato di giorno
immaginato di giorno
il pensiero del jazz dei suonatori di jazz











alla Triennale, Jazz Mi

martedì 6 novembre 2018

Non è quello che ci siamo dati a mancarmi, ma quello che avremmo dovuto darci ancora

ma santo cielo, santissimo cielo, ma diomio, ma per favore, ma no, no. 
a parte gio Evan e i suoi obbrobri, quello che so è che almeno, e a questo punto non è poco, di Renzi e Minniti non ho dovuto digerire le loro foto nudi a letto che dormono dopo aver scopato. 
senza vergogna, pubblico e privato la stessa melma, i social sdoganano l'imbecillita' che nessuno si sarebbe mai sognato di esibire, mi sento male, uomini e donne fuori di senno. 

lunedì 5 novembre 2018

Dux

io non so dire, di Margherita Sarfatti.
certo era colta, era ricca, molto ricca, anche di famiglia ebrea, era influente, almeno fino alla fine degli anni 20 e poco più, era una curatrice di mostre, prima vicina e poi molto lontana da Anna Kuliscioff, era amante di arte e di molta mondanità, il mercoledì, a Milano, a casa sua si trovava tutta la cultura italiana di quegli anni, era prima socialista, poi fascista, amante del "Dux" (titolo della biografia che gli dedicò) poi, con le leggi razziali del 38, esiliata e poi pentita: "my fault". certo, rientrata dal sud america, era isolata, dimenticata, sgradita, chissà, magari incredula, e scrisse "Acqua passata". non un bel titolo, data l'acqua di cui si è abbeverata.

io non so dire bene e non so in generale, e nemmeno la mostra al Museo del '900 dice troppo bene. cioè si guarda bene dal dire qualcosa in proposito della donna, oltre della curatrice d'arte.
certo, aveva fiuto artistico, sapeva tenere relazioni sociali, sapeva bene dove il flusso era più forte.
lo sapeva così bene che si è spostata da una sponda all'altra senza troppi problemi, anzi, direi con inedito entusiasmo. possiamo dire con passione amorosa, e neppure il delitto Matteotti del '24 sembra averle instillato qualche dubbio.
delle donne di cui era paladina ai tempi della frequenazione di Turati e del circolo socialista si è ben presto dimenticata, forse l'opportunismo è stato più forte di qualsiasi credo.
faccio molta fatica ad apprezzare il lavoro, seppure encomiabile, se il privato è discutibile.
nella sua casa di corso Venezia erano in molti a ritrovarsi, le sue mostre degli anni 20 sono passate alla storia, qualcuno la definisce originale e coraggiosa, certamente imprenditrice accorta, critica attenta, pare piuttosto autoritaria, ma i suoi scritti adottano la retorica del tempo: "La rappresentazione immediata degli eventi del nostro tempo - scrive - non si confà alle tradizioni della grande arte nostra. Si potrebbe forse sostenere che è contraria all'essenza stessa della vera grande arte, di sua natura mistica e leggendaria. Certo è contraria alle mediterranee tradizioni dell'arte italica, la quale, come l'egizia e l'ellenica, è insieme astratta e umanissima. Essa, cioè, traspone i fatti materiali e passeggeri nel campo delle immagini durature e spirituali". certamente pensava in grande, sognava un rilancio internazionale della cultura italiana del novecento, l'avrebbe voluta grande come nel '500 e nel '600, quel pensare enfatico le fa instillare in Benito Mussolini l’idea della romanità e in Dux lo descrive come un condottiero romano.
quando, ai primi del 900, esplode il Futurismo, il salotto di casa Sarfatti diventa il centro dell'avanguardia artistica: Marinetti, Carrà, Boccioni e Russolo alternano le loro riunioni tra casa Sarfatti e casa Marinetti, anch'essa in Corso Venezia. dai Sarfatti, però, in quegli anni si possono trovare anche altri personaggi, giovani per lo più, interessati a tutto il nuovo che la Milano di inizio secolo sembra proporre: Adolfo Wildt e Arturo Martini, i pittori Tallone, Sironi, Funi, Tosi, il giovane architetto Sant'Elia; Palazzeschi, Panzini, Sem Benelli, Mario Missiroli e Ada Negri. quando, più avanti negli anni, nel 1922, nasce  il gruppo “Novecento” sarà  composto inizialmente dai pittori Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gianluigi Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi, Anselmo Bucci e Mario Sironi. è chiaro che l'arte era sempre stata di casa ma, mi sembra di capire, La Sarfatti amava il potere e  il progetto di agganciare il suo gruppo di artisti al carrozzone le si è sgretolato tra le mani quando ha fozato la mano a un fascismo che non intendeva appoggiarla, Mussolini se ne è liberato infastidito come di una zavorra inservibile, e molti altri come lui. quando si è servita dei «giovani artisti e fascisti, cioè rivoluzionari della moderna restaurazione nell'arte come nella vita sociale e politica», fautori di un «ritorno all'ordine» per sostenere la sua causa, Mussolini non ha gradito e ha rifiutato ogniforma di interferenza nella sua politica, e anche molti degli artisti in causa.
l'arte non vuole ideologia, se se ne serve, si disgrega con essa. e le sue curatrici, anche.