bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 31 maggio 2012

Igort - pagine nomadi


nella Milano senza auto di una domenica di maggio...mi sono recata in bicicletta alla Triennale attratta da questo disegno...così russo!
e poichè di Russia ho fatto il pieno quest'anno, non potevo esimermi dalla mostra di Igort.
non avevo idea di cosa aspettarmi da un fumettista, ma non quello che ho visto.
ora so che Igort non è solo un fumettista, nato a Cagliari nel 1958, ma un creativo della graphic novel al servizio del reportage giornalistico.
la mostra presenta alcune delle pagine che hanno contraddistinto il lavoro di Igort negli ultimi anni, tra il 2008 e il 2009, a vent'anni dalla caduta del muro di Berlino, ovvero i "quaderni ucraini" e i "quaderni russi".
ho visto, nella veste inedita del disegno e del fumetto, pagine di storia di questa disgraziata Russia, pagine antiche e anche moderne, molto moderne, di violenza, sopruso, sterminio, tortura, oppressione, delitto politico.


Holodomor, ovvero il genocidio per fame perpetrato da Stalin tra il 1932 e 1933 sulla popolazione ucraina, un quarto della popolazione sterminata per consunzione.


Zachistke, operazioni di rastrellamento a tappeto sulla popolazione cecena. e non parliamo di 70 anni fa, ma dei primi anni del 2.000.
Città e villaggi vengono assediati per giorni; le donne piangono; le famiglie cercano disperatamente di evacuare i propri figli adolescenti – non importa verso dove purché sia lontano dalla Cecenia; i vecchi dei villaggi inscenano manifestazioni di protesta. Finalmene veniamo rallegrati dal generale Moltenskoy in persona, nostro presunto comandante in capo del “Fronte Contro il Terrorismo”, addobbato di nastri e medaglie, là sullo schermo televisivo, pieno di adrenalina, in carne e ossa;  e invariabilmene stagliato su uno sfondo di cadaveri e di villaggi “ripuliti”.
di Anna Politkovskaya
Novaya Gazeta del 19 maggio 2002




assassinio di Anna Politkovskaya, giornalista russa molto conosciuta per i suoi reportage dalla Cecenia e per la sua opposizione al Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin. nei suoi articoli per Novaja Gazeta, la Politkovskaja condannava apertamente l'esercito e il governo russo per la violazione dei diritti civili e dello stato di diritto. nell'ottobre 2006, muore assassinata nell'ascensore del suo palazzo.
"forse ci piacerebbe condividere quel segreto, quel segreto chiamato guerra".


Non è un viaggio facile, quello raccontato da Igort: "Gli anni dopo l'omicidio di Anna Politkovskaja, dopo l'assalto alla scuola di Beslan, da parte di fondamentalisti islamici e separatisti ceceni e l'assedio al Teatro Dubrovka, attuato dai militanti ceceni. E pensare che all'inizio ero andato lì per raccontare le dimore di Cechov. Poi, l'illuminazione: quel mondo era ben altro". Igort una volta a Kiev, si trovò davanti a un altro scenario. "Povertà, burocrazia asfissiante, violenze nascoste - continua - ma anche storie di felicità. Le rovine dell'Impero Sovietico, quelle vere". Quelle di una democrazia controversa, travestita, la "democratura".
nel fumetto, anche in quello di Igort, c'è l'immagine ma anche la parola, la scrittura. qui il linguaggio è crudo, schietto, asciutto, il connubio con le immagini ancora più forte, ancora più penetrante. 
una modalità espressiva di indagine nuova, e incisiva. 

lunedì 28 maggio 2012

caos

spettacolo cult. spettacolo strepitoso.
puro godimento.


Valeria Cavalli e Claudio Intropido: nomi storici del teatro danza italiano.
infatti la messa in scena risale al 1988, e io l'ho visto la prima volta almeno 20 anni fa.nella mia prima vita, che non ricordo sempre a meraviglia...anzi.
secondo me era diverso, non ricordo di aver riso tanto, forse in questa versione remix, in mano agli attori di nuova generazione di Quelli di Grock, qualcosa è cambiato.
ma non l'energia, il gusto del mimo, delle facce bizzarre, dei gesti e del movimento sfrenato.
si sta nel caos della nostra vita, frenesia, ripetitività, paradossi relazionali, ma raccontati così sembrano quasi un privilegio.


talento, competenza, disciplina sono alla base di tutta questa esplosione di energia, vita, euforia, umorismo.
che voglia di ballare porca miseria, mi trattenevo a stento, ma comunque nella testa ballavo. con grande imbarazzo di un adolescente che prova vergogna per queste intemperanze della mezza età!


mi devo vergognare?
devo essere composta?
non devo eccedere?
lo so, sono i miei grandi peccati, quelli che fanno soffrire me e chi mi deve frequentare.
ma questa volta è sano, e mi perdono.
assolta dall'eccesso di godimento.
per chi abita a Milano, c'è modo di goderne fino al 10 di giugno.
si esce felici. e bagnati.



cha la Bausch abbia preso ispirazione da qui per il suo torrente d'acqua in Vollmond?

venerdì 25 maggio 2012

laputa - il castello nel cielo


un altro delizioso e fantasioso capolavoro di  Hayao Miyazaki ha allietato la mia vita.
lui è un genio, e io una sua devota ammiratrice.
il film non è recente, del 1986, e solo ora, almeno per me, giunge al nostro sguardo occidentale.

il film è bellissimo e non mi sorprendo. ad oggi, non c'è un suo film che mi abbia delusa.
in questo c'è uno sguardo così ampio e arioso, c'è un'immaginazione così ricca e vivida, c'è un talento così straordinario che non si può che rimanere estasiati e contenti.

la storia in breve:
Per sfuggire ai pirati dell'aria la giovane Sheeta cade da un aereo, ma si salva levitando nell'aria e atterrando dolcemente tra le braccia di Pazu, un giovane minatore che decide di prendersi cura di lei. Mentre si susseguono i tentativi di catturare Sheeta e la misteriosa pietra che la ragazza porta al collo, cresce la consapevolezza che Sheeta nasconda dei segreti che vanno ben oltre quel che l'apparenza sembri indicare, legati a una misteriosa città nel cielo, Laputa, di cui si favoleggia l'esistenza.

eccola la città nel cielo e i suoi misteri. si libra nell'aria nascosta agli sguardi volgari, protetta dalle nuvole e inaccessibile a chi non abbia il cuore per capirla. è abitata da robot buoni e dalle braccia lunghe - immagini di un uomo meccanico che non sono la ripetizione del solito formato in acciaio in serie, ma una creativa invenzione della mente- ricoperti del muschio che invade la la città, libera nel cielo ma anche abbandonata e decadente.

il mondo di Miyazaki è sempre in volo. sempre, in tutti i suoi film, il volo è l'espressione di libertà e di aspirazione verso l'alto dell'uomo. e qui le vette sono altissime, qui è un castello, e un tempo una città, che naviga nel cielo fino a toccare l'infinito. il castello sorge e si sviluppa intorno a un immenso e generoso albero, tutto ruota intorno alla natura rigogliosa , e, ancora una volta, i colori del cielo e della natura si toccano e si stagliano colpendo la retina con splendore lucente.

i bambini, Sheeta e Pazu, la regina di Laputa e il piccolo minatore, sono i protagonisti, insieme agli immancabili pirati apparentemente cattivi ma intimamente buoni. dei simpatici cialtroni che all'occorrenza mettono il loro cuore a disposizione di giuste cause.
bambini si, ma coraggiosi e devoti,  inseparabili e complici. uniti per sempre dalla forza dei legami.

quel che apprezzo più di ogni cosa di Miyazaki è di non sottrarsi alla tristezza, non convenzionale, non lacrimevole, non disneyana, ma la tristezza che viene dalla finitezza delle cose, dalla perdita, dal non ritorno. Miyazaki non ha paura di dire, ai grandi e soprattutto ai bambini, che la natura è potente nel bene e nel male, che la città volante si può sgretolare, che il castello misterioso contiene il sogno ma anche la disgregazione.

come dice il piccolo grande uomo, nel film ci sono il  futuro e l'antico, insieme,  le città che volano e i robot sono fantascienza ma le aeronavi di legno con le eliche e i  mulini a vento, sono storia.
questo è un "antico futuro", così mi ha insegnato.


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giovedì 24 maggio 2012

così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita

«Pare che l'essere delle cose abbia per suo proprio e unico obbietto il morire [...] le creature animate [...] in tutta la loro vita, ingegnandosi adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte»
Giacomo Leopardi

a proposito di natura e di morte, temi che vanno alla grande da queste parti ultimamente, mi sono ritrovata a teatro al Franco Parenti in questa curiosa circostanza.
la messa in scena delle Operette Morali di Leopardi.
il tutto ad opera di Mario Martone, regista napoletano di nota fama.
l'operazione ha un suo fascino, tutto sommato la posso dire riuscita anche se non è un allestimento di irresistibile bellezza, di certo si leggono tratti di materia letteraria e filosofica -anche gravosa e complessa- con l'adeguata leggerezza che la renda fruibile a teatro. 
si ascolta volentieri, si valuta, si annuisce e si nega, ci si ritrova e anche ci si ribella. un lavoro teatrale onesto ma non incisivo, ammettiamolo.
Leopardi lo conoscono anche i sassi e devo dire l'ho ritrovato nella sua immensa infelicità e drammatico materialismo ma ho scoperto anche la sua vena ironica, la vastità del pensiero, filosofico in quest'opera, a tratti la comicità dei motti umoristici.



Leopardi ricorre a esseri immaginari, (gnomi, folletti, mummie), storici (Torquato Tasso, Cristoforo Colombo), mitologici (Ercole, Atlante, Giove), filosofici (Plotino, Porfirio), letterari, comuni (passeggeri, islandesi, venditori ambulanti), inanimati (la Terra, la Luna), simbolici (la Natura, l'Anima, la Morte) per una satira dell'antropocentrismo e la derisione del progresso moderno. la natura prevale sempre, l'uomo non decide niente, nemmeno della sua  incurabile infelicità. ma il linguaggio è vivace, serrato, ironico, incalzante. sono quasi tutti dialoghi tra questi personaggi di varia estrazione, sono confronti di pensiero, sono spunti di riflessione su tutto, la vita e la morte, l'infelicità e il destino, l'amore e la natura, il corpo e il dolore, la giovinezza e la vecchiaia.
si pensa e si sorride, in fondo l'uomo è dotato del riso, ci dice nell'Elogio degli Uccelli, al pari degli uccelli che sono dotati del canto per esprimere la loro gaiezza. 
«Cosa certamente mirabile è questa, che nell'uomo, il quale infra tutte le creature è la più travagliata e misera, si trovi la facoltà del riso, aliena da ogni altro animale. Mirabile ancora si è l'uso che noi facciamo di questa facoltà: poiché si veggono molti in qualche fierissimo accidente, altri in grande tristezza d'animo, altri che quasi non serbano alcuno amore alla vita, certissimi della vanità di ogni bene umano, presso che incapaci di ogni gioia, e privi di ogni speranza; nondimeno ridere.»
la rappresentazione si sviluppa nel susseguirsi di siparietti e dialoghi, alcuni suggestivi, altri interrogativi.
questo tra il Tasso e il suo genio è intrigante, su sogno e il desiderio, materia nobilissima di quotidiana attualità.
"Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai."




DIALOGO DI TORQUATO TASSO E DEL SUO GENIO FAMILIARE

Genio. Come stai Torquato?
Tasso. Ben sai come si può stare in una prigione, e dentro ai guai fino al collo.
Genio. Via, ma dopo cenato non è tempo da dolersene. Fa buon animo, e ridiamone insieme.
Tasso. Ci son poco atto. Ma la tua presenza e le tue parole sempre mi consolano. Siedimi qui accanto.
Genio. Che io segga? La non è già cosa facile a uno spirito. Ma ecco: fa conto ch'io sto seduto.
Tasso. Oh potess'io rivedere la mia Leonora. Ogni volta che ella mi torna alla mente, mi nasce un brivido di gioia, che dalla cima del capo mi si stende fino all'ultima punta de' piedi; e non resta in me nervo né vena che non sia scossa. Talora, pensando a lei, mi si ravvivano nell'animo certe immagini e certi affetti, tali, che per quel poco tempo, mi pare di essere ancora quello stesso Torquato che fui prima di aver fatto esperienza delle sciagure e degli uomini, e che ora io piango tante volte per morto. In vero, io direi che l'uso del mondo, e l'esercizio de' patimenti, sogliono come profondare e sopire dentro a ciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il quale di tratto in tratto si desta per poco spazio, ma tanto più di rado quanto è il progresso degli anni; sempre più poi si ritira verso il nostro intimo, e ricade in maggior sonno di prima; finché durando ancora la nostra vita, esso muore. In fine, io mi maraviglio come il pensiero di una donna abbia tanta forza, da rinnovarmi, per così dire, l'anima, e farmi dimenticare tante calamità. E se non fosse che io non ho più speranza di rivederla, crederei non avere ancora perduta la facoltà di essere felice.
Genio. Quale delle due cose stimi che sia più dolce: vedere la donna amata, o pensarne?
Tasso. Non so. Certo che quando mi era presente ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea.
Genio. Coteste dee sono così benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d'attorno, e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi.
Tasso. Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato delle donne; che alla prova, elle ci riescano così diverse da quelle che noi le immaginavamo?
Genio. Io non so vedere che colpa s'abbiano in questo, d'esser fatte di carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare. Qual cosa del mondo ha pure un'ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate che abbia a essere nelle donne? E anche mi pare strano, che non facendovi maraviglia che gli uomini sieno uomini, cioè creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come accada, che le donne in fatti non sieno angeli.
Tasso. Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio di rivederla, e di riparlarle.
Genio. Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventù; e cortese in modo, che tu prenderai cuore di favellarle molto più franco e spedito che non ti venne fatto mai per l'addietro: anzi all'ultimo le stringerai la mano; ed ella guardandoti fisso, ti metterà nell'animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani, qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai balzare il cuore dalla tenerezza.
Tasso. Gran conforto: un sogno in cambio del vero.
Genio. Che cosa è il vero?
Tasso. Pilato non lo seppe meno di quello che lo so io.
Genio. Bene, io risponderò per te. Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai.
Tasso. Dunque tanto vale un diletto sognato, quanto un diletto vero?
Genio. Io credo. Anzi ho notizia di uno che quando la donna che egli ama, se gli rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente, fugge di ritrovarsi con 36 quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell'immagine che il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne ritrae. Però non sono da condannare gli antichi, molto più solleciti, accorti e industriosi di voi, circa a ogni sorta di godimento possibile alla natura umana, se ebbero per costume di procurare in vari modi la dolcezza e la giocondità dei sogni; né Pitagora è da riprendere per avere interdetto il mangiare delle fave, creduto  contrario alla tranquillità dei medesimi sogni, ed atto a intorbidarli; e sono da scusare i superstiziosi che avanti di coricarsi solevano orare e far libazione a Mercurio conduttore dei sogni, acciò ne menasse loro di quei lieti; l'immagine del quale tenevano a quest'effetto intagliata in su' piedi delle lettiere. Così, non  trovando mai la felicità nel tempo della vigilia, si studiavano di essere felici dormendo: e credo  che in parte, e in qualche modo, l'ottenessero; e che da Mercurio fossero esauditi meglio che dagli altri Dei.
Tasso. Per tanto, poiché gli uomini nascono e vivono al solo piacere, o del corpo o dell'animo; se da altra parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni, converrà ci determiniamo a vivere per sognare: alla qual cosa, in verità, io non mi posso ridurre.
Genio. Già vi sei ridotto e determinato, poiché tu vivi e che tu consenti di vivere. Che cosa è il piacere?
Tasso. Non ne ho tanta pratica da poterlo conoscere che cosa sia.
Genio. Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per ispeculazione: perché il piacere è un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l'uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto e non un sentimento. Non vi accorgete voi che nel tempo stesso di qualunque vostro diletto, ancorché desiderato infinitamente, e procacciato con fatiche e molestie indicibili; non potendovi contentare il goder che fate in ciascuno di quei momenti, state sempre aspettando un goder maggiore e più vero, nel quale consista insomma quel tal piacere; e andate quasi riportandovi di continuo agl'istanti futuri di quel medesimo diletto? Il quale finisce sempre innanzi al giungere dell'istante che vi soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza cieca di goder meglio e più veramente in altra occasione, e il conforto di fingere e narrare a voi medesimi di aver goduto, con raccontarlo anche agli altri, non per sola ambizione, ma per aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur fare a voi stessi. Però chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilità che di sognare; cioè credere di avere a godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.
Tasso. Non possono gli uomini credere mai di godere presentemente?
Genio. Sempre che credessero cotesto, godrebbero in fatti. Ma narrami tu se in alcun istante della tua vita, ti ricordi aver detto con piena sincerità ed opinione: io godo. Ben tutto giorno dicesti e dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è sempre o passato o futuro, e non mai presente.
Tasso. Che è quanto dire è sempre nulla.
Genio. Così pare.
Tasso. Anche nei sogni.
Genio. Propriamente parlando.
Tasso. E tuttavia l'obbietto e l'intento della vita nostra, non pure essenziale ma unico, è il piacere stesso; intendendo per piacere la felicità, che debbe in effetto esser piacere; da qualunque cosa ella abbia a procedere.
Genio. Certissimo.
Tasso. Laonde la nostra vita, mancando sempre del suo fine, è continuamente imperfetta: e quindi il vivere è di sua propria natura uno stato violento.
Genio. Forse.
Tasso. Io non ci veggo forse. Ma dunque perché viviamo noi? voglio dire, perché consentiamo di vivere?
Genio. Che so io di cotesto? Meglio lo saprete voi, che siete uomini.
Tasso. Io per me ti giuro che non lo so.
Genio. Domandane altri de' più savi, e forse troverai qualcuno che ti risolva cotesto dubbio.
Tasso. Così farò. Ma certo questa vita che io meno, è tutta uno stato violento: perché lasciando anche da parte i dolori, la noia sola mi uccide.
Genio. Che cosa è la noia?
Tasso. Qui l'esperienza non mi manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare che la noia sia della natura dell'aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl'intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si dà vòto alcuno; così nella vita nostra non si dà vòto; se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l'usodel pensiero. Per tutto il resto del tempo, l'animo, considerato anche in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova contenere qualche passione; come quello a cui l'essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia, la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto.
Genio. E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli; tenuissima, radissima e trasparente; perciò come l'aria in questi, così la noia penetra in quelli da ogni parte, e li riempie. Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere. Il buon desiderio, come dicevamo poco innanzi, non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova. Sicché la vita umana, per modo di dire, è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall'una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell'altra. E questo non è tuo destino particolare, ma comune di tutti gli uomini.
Tasso. Che rimedio potrebbe giovare contro la noia?
Genio. Il sonno, l'oppio, e il dolore. E questo è il più potente di tutti; perché l'uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera.
Tasso. In cambio di cotesta medicina, io mi contento di annoiarmi tutta la vita. Ma pure la varietà delle azioni, delle occupazioni e dei sentimenti, se bene non ci libera dalla noia, perché non ci crea diletto vero, con tutto ciò la solleva ed alleggerisce. Laddove in questa prigionia, separato dal commercio umano, toltomi eziandio lo scrivere, ridotto a notare per passatempo i tocchi dell'oriuolo, annoverare i correnti, le fessure e i tarli del palco, considerare il mattonato del pavimento, trastullarmi colle farfalle e coi moscherini che vanno attorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a un modo; io non ho cosa che mi scemi in alcuna parte il carico della noia.
Genio. Dimmi: quanto tempo ha che tu sei ridotto a cotesta forma di vita?
Tasso. Più settimane, come tu sai.
Genio. Non conosci tu dal primo giorno al presente, alcuna diversità nel fastidio che ella ti reca?
Tasso. Certo che io lo provava maggiore a principio: perché di mano in mano la mente,
non occupata da altro e non isvagata, mi si viene accostumando a conversare seco medesima assai più e con maggior sollazzo di prima, e acquistando un abito e una virtù di favellare in se stessa, anzi di cicalare, tale, che parecchie volte mi pare quasi avere una compagnia di persone in capo che stieno ragionando, e ogni menomo soggetto che mi si appresenti al pensiero, mi basta a farne tra me e me una gran diceria.
Genio. Cotesto abito te lo vedrai confermare e accrescere di giorno in giorno per modo, che quando poi ti si renda la facoltà di usare cogli altri uomini, ti parrà essere più disoccupato stando in compagnia loro, che in solitudine. E quest'assuefazione in sì fatto tenore di vita, non credere che intervenga solo a' tuoi simili, già consueti a meditare; ma ella interviene in più o men tempo a chicchessia. Di più, l'essere diviso dagli uomini e, per dir così, dalla vita stessa, porta seco questa utilità; che l'uomo, eziandio sazio, chiarito e disamorato delle cose umane per l'esperienza; a poco a poco assuefacendosi di nuovo a mirarle da lungi, donde elle paiono molto più belle e più degne che da vicino, si dimentica della loro vanità e miseria; torna a formarsi e quasi crearsi il mondo a suo modo; apprezzare, amare e desiderare la vita; delle cui speranze, se non gli è tolto o il potere o il confidare di restituirsi alla società degli uomini, si va nutrendo e dilettando, come egli soleva a' suoi primi anni. Di modo che la solitudine fa quasi l'ufficio della gioventù; o certo ringiovanisce l'animo, ravvalora e rimette in opera l'immaginazione, e rinnuova nell'uomo esperimentato i beneficii di quella prima inesperienza che tu sospiri. Io ti lascio; che veggo che il sonno ti viene entrando; e me ne vo ad apparecchiare il bel sogno che ti ho promesso. Così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla; che questo è l'unico frutto che al mondo se ne può avere, e l'unico intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi. Spessissimo ve la conviene strascinare co' denti: beato quel dì che potete o trarvela dietro colle mani, o portarla in sul dosso. Ma, in fine, il tuo tempo non è più lento a correre in questa carcere, che sia nelle sale e negli orti quello di chi ti opprime. Addio.
Tasso. Addio. Ma senti. La tua conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia tristezza: ma questa per la più parte del tempo è come una notte oscurissima, senza luna né stelle; mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare.
Genio. Ancora non l'hai conosciuto? In qualche liquore generoso.




lunedì 21 maggio 2012

l'illusione di Istanbul

“La pace sia con voi. Io sono la Luce del Mondo”.










e la macchina fotografica?
il gioco dell'illusione era fragile dall'inizio.
ricordo i veli delle donne, i capelli raccolti e nacosti, il fascino inarrivabile
l'americana sguaiata in ciabatte e la donna araba composta e misteriosa. l'abisso delle culture
l'harem del topkapi, vita da concubina, schiava o regina?, tra la magia dei mosaici dorati e dei velluti rossi
il lucore azzurro della moschea blu
il buio riflesso sull'acqua delle cisterne
la voce del muezzin alle cinque del mattino, la sua ipnosi inquietante
la perfezione armonica del Rustem Pasha camii
il gusto del cibo, l'aroma del te
il disordine caotico delle vie, la sensazione del non bello, il nuovo che si sostiene sulla baracca 
le mani, il canto, l'accudimento, la vicinanza, l'intimità con una donna piena e straniera ed estranea che mi lava come una bambina nell'hammam, nel suo grembo

è poco è tanto. è durato il tempo di un ricordo che sa di dolore.

domenica 20 maggio 2012

Il principe Andrej muore, il gelo del distacco


va bene, così doveva essere.
l'ho guardato morire e poi rinascere non una ma due volte. anche dopo la battaglia di Borodino era morto, schiantato da una granata che gli era scoppiata nel ventre.
morto.
ma poi l'ho ritrovato moribondo e sofferente nelle carovane che si allontanano da Mosca, prima del terrificante e solenne incendio della città madre e santa.  
ad accudirlo, fino alla fine, la sua Nataša, il cui amore casualmente ma salvificamente ritrovato avrebbe avuto il solo e unico scopo di accompagnarlo dolcemente verso la morte.
era nella natura malinconica e infelice di Andrej, era in lui, il seme della morte. lo ha coltivato tutta la vita, si sentiva, si sospettava, si coglieva che lo lasciava crescere in sè. era il suo fascino, era la sua innata inclinazione, era la sua bellezza.
questo libro è meraviglioso. straordinario e potentissimo. e anche Tolstoj, come tutti i grandi, romanzieri e non, diventa immenso e profondissimo, irresistibile e ipnotico, quando affronta il tema sottostante la vita, la morte.
da leggere, assolutamente.


 Il principe Andrej non solo sapeva che sarebbe morto, ma sentiva che stava morendo, sentiva d'essere già morto per metà. Provava un senso di estraneità da ogni cosa terrena e insieme un'impressione- strana e gioiosa - di leggerezza. Senza fretta né ansia, attendeva quello che doveva accadere. Quella cosa terribile, eterna, sconosciuta e lontana, la cui presenza non aveva mai cessato di avvertire durante tutta la sua vita, adesso gli era vicina e - per quello strano stato di leggerezza in cui ora si trovava - quasi comprensibile e percettibile...Prima, aveva paura della fine. Due volte aveva provato quel terribile tormento della paura della morte, della fine; adesso non lo capiva più. La prima volta che aveva provato quel tormento era stato quando la granata si era messa a roteare come una trottola davanti ai suoi occhi, e lui aveva alzato lo sguardo alle stoppie, ai cespugli, al cielo,cosciente che lì, davanti a lui c'era la morte. Quando, dopo la ferita, aveva ripreso i sensi e in fondo all'anima, come se si fosse liberato dagli impacci della vita terrena, era sbocciato quel fiore dell'amore eterno, libero, indipendente dalla vita, la morte ormai non gli faceva più paura, e aveva smesso di pensarci. Quanto più, in quelle ore di penosa solitudine e di semincoscienza trascorse dopo la ferita, aveva riflettuto al nuovo principio dell'amore eterno che gli s'era svelato, tanto più, senza avvedersene s'eravenuto distaccando dalla vita terrena. Amare tutto, tutti, sacrificare in ogni momento se stesso per l'amore: voleva dire non amare nessuno, voleva dire non vivere di questa vita terrena. E quanto più egli si compenetrava in quel principio d'amore, tanto più rinunciava alla vita, e tanto più radicalmente distruggeva quella terribile barriera che sta, se non c'è l'amore, fra la vita e la morte. Quando, nei primi tempi della malattia, pensava che avrebbe dovuto morire, diceva a se stesso: «Ebbene, tanto meglio.»
Ma dopo quella notte a Mytišèi, quando, immerso in una sorta di delirio, gli era apparsa colei cheaveva tanto desiderato, e quando, premendosi la mano di lei sulle labbra, aveva pianto sommesse lacrime di gioia, l'amore per quella donna si era inavvertitamente insinuato nel suo cuore e l'aveva nuovamente legato alla vita. E pensieri gioiosi e tormentosi avevano cominciato ad attraversargli la mente. Se ricordava quel momento al posto di medicazione, quando aveva scorto Kuragin, non poteva più tornare al sentimento di allora; ora lo tormentava soltanto la domanda se l'altro fosse ancora vivo. E non osava chiederlo a nessuno.
La malattia aveva continuato il suo normale decorso, ma quello che Nataša chiamava: «gli è accaduto questo», era sopravvenuto due giorni prima dell'arrivo della principessina Mar'ja. Era stata un'estrema lotta interiore fra la vita e la morte, in cui la morte era uscita vittoriosa. Era stata un'improvvisa consapevolezza di essere ancora attaccato alla vita, che gli si presentava sotto la forma dell'amore per Nataša, e un ultimo, definitivo accesso di terrore di fronte all'ignoto. Era sera. Come di solito dopo il pasto, si trovava in un leggero stato febbrile e i suoi pensieri erano straordinariamente chiari. Sonja era seduta al tavolo. Si era assopito. A un tratto l'aveva invaso un'intensa sensazione di felicità. «Ah, è lei che è entrata!» aveva detto a se stesso.
Effettivamente al posto di Sonja ora stava seduta Nataša, che era appena entrata nella stanza a passi silenziosi.
Da quando Nataša aveva cominciato ad assisterlo, aveva sempre percepito nettamente la sensazione fisica della sua vicinanza. Gli stava seduta accanto, nella poltrona, girata verso di lui per ripararlo dalla luce della candela, intenta a far la calza. (Aveva imparato a far la calza da quando, una volta, il principe Andrej le aveva detto che nessuno sa assistere meglio i malati delle vecchie njanje che fanno la calza, e che nell'atto di far la calza c'è qualcosa che infonde calma.) Le sue dita sottili muovevano rapidamente i ferri, ed egli vedeva distintamente il profilo pensoso del suo viso chinato. Nataša fece un movimento e il gomitolo le rotolò giù dalle ginocchia. Lei trasalì, si voltò a guardarlo e, facendo schermo alla candela con la mano, si piegò con un movimento cauto, flessuoso, preciso; raccolse il gomitolo e si rimise a sedere nella posizione di prima.Lui la guardava immobile e capiva che, dopo il movimento che aveva fatto, lei avrebbe avuto bisogno di tirare un sospiro profondo, ma non si decideva a farlo, e misurava il respiro con precauzione. Al convento di Troica, avevano parlato del passato e lui le aveva detto che, se fosse vissuto, avrebbe ringraziato per sempre Dio della ferita che l'aveva riunito a lei; ma da allora non avevano mai più parlato dell'avvenire. «Potrà avverarsi, questo, o non potrà avverarsi?» pensava lui adesso, osservandola e ascoltando il leggero suono metallico dei ferri. «Possibile che il destino mi abbia riunito in modo così strano a lei, solo per poi farmi morire?... Possibile che la verità della vita mi si sia svelata solo per farmi comprendere d'aver vissuto nella menzogna? Io l'amo più di ogni cosa al mondo. Ma che debbo farci, se l'amo tanto?» disse e gli sfuggì un gemito, per un'abitudine presa nel corso delle sue sofferenze.
Sentendo quel suono, Nataša aveva posato la calza, si era piegata verso di lui e, notando i suoi occhi lucidi, si era avvicinata con passo leggero e si era chinata su di lui. «Non dormite?» «No, vi sto guardando da un pezzo, vi ho sentita entrare. Nessuno come voi mi dà tanta pace...tanta luce. Avrei voglia di piangere di gioia.»
Nataša gli si avvicinò ancor di più. Il suo viso splendeva d'una gioia estatica.

«Nataša, io vi amo troppo. Vi amo più di ogni altra cosa al mondo.»
 «E io?» Si voltò per un attimo dall'altra parte. «E perché troppo?» disse. «Perché troppo?... Ditemi, cosa pensate, cosa sentite nell'anima, proprio nel profondo dell'anima: vivrò? Cosa pensate?»
«Io ne sono sicura, sicura!» gridò quasi Nataša stringendogli tutt'e due le mani con un gesto
appassionato. Egli tacque per un po'.«Come sarebbe bello!» disse, e prendendole una mano, gliela baciò.
Nataša era felice e sconvolta; ma subito si riscosse, ricordò che non si poteva fare così, che lui aveva bisogno di tranquillità. «Però non dormivate,» disse, tentando di soffocare la propria gioia. «Cercate di addormentarvi... vi prego.» Le strinse la mano prima di lasciarla andare, e lei tornò verso la candela e si sedette nella posizionedi prima. Due volte si voltò a guardarlo: gli occhi di lui continuavano a fissarla, scintillanti. Allora si obbligò afare un certo numero di maglie, dicendo a se stessa che non si sarebbe voltata a guardarlo finché non leavesse terminate. Difatti, poco dopo, lui chiuse gli occhi e si addormentò. Ma non dormì a lungo, e si svegliò d'improvviso, coperto da un sudore gelido. Addormentandosi, aveva continuato a pensare a ciò che aveva tenuto occupato il suo pensiero pertutto quel tempo: alla vita e alla morte. E soprattutto alla morte: la sentiva più vicina. «L'amore? Che cos'è l'amore?» pensava. «L'amore è d'ostacolo alla morte. L'amore è vita. Capisco solo quello che amo. Tutto è, tutto esiste soltanto perché io amo. Tutto è tenuto in vita dall'amore. L'amore è Dio, e per me, parte infinitesimale dell'amore, morire significa ritornare alla sorgente eterna e universale». Questi pensieri gli parvero rassicuranti. Ma erano soltanto pensieri. In essi mancava qualcosa, c'era qualcosa di unilaterale, di soggettivo, di intellettualistico: mancava l'evidenza. E restava sempre la stessa inquietudine, la stessa incertezza... Poi si riaddormentò. In sogno si vide coricato nella stessa stanza in cui davvero si trovava, ma non era ferito, stava bene. Molte persone, insignificanti, indifferenti, stanno davanti a lui. E lui parla con loro, discute di cose senza importanza. Quelle persone stanno per partire per chissà dove. Il principe Andrej ha la vaga sensazione che tutto questo sia insensato, ricorda di avere molte altre preoccupazioni, più importanti, ma continua apronunciare parole vuote e argute, destando la meraviglia dei presenti. A poco a poco, inavvertitamente, tutte queste persone cominciano a sparire, e a tutto si sostituisce la questione della porta: è chiusa ma non sbarrata. Lui si alza e va alla porta per chiuderla col catenaccio. Tutto sembra dipendere dal fatto che riescao meno a chiudere la porta. Fa per muoversi, per avviarsi, ma le sue gambe non si muovono; sa che nonriuscirà a chiudere la porta e tuttavia si tende dolorosamente, al limite delle proprie forze. E una paura terrificante s'impossessa di lui. È la paura della morte: al di là della porta c'è quella cosa.
Ma, quando arriva, con movimenti stentati e goffi, a trascinarsi fino alla porta, quella cosa terribile, incalzando dall'altra parte,la spinge, vi preme contro. Qualcosa di sovrumano - la morte - fa impeto contro la porta ed è necessario trattenerla. Lui s'aggrappa alla porta, fa un estremo sforzo - chiuderla ormai è impossibile - almeno per trattenerla, ma le sue forze sono deboli, maldestre, e la porta, premuta da quella cosa orrenda, si apre e poidi nuovo si richiude. Ancora una volta, dall'altra parte della soglia, si sentì spingere. Gli ultimi sforzi furono vani e i due battenti si aprirono senza rumore. La cosa entrò, la cosa era la morte.
E il principe Andrej moriva.Ma in quel momento stesso il principe Andrej si ricordò che dormiva; e, nel momento stesso in cui moriva, compiendo uno sforzo su se stesso, si svegliò. «Sì, questa era la morte. Io sono morto - e mi sono svegliato. Sì, la morte è un risveglio,» la sua anima fu come illuminata da questo pensiero, e il velo che finora aveva nascosto l'ignoto si sollevò dinanzi allo sguardo della sua mente. Ebbe la sensazione che dentro di lui si liberasse una forza che finora era stata violentemente costretta, e per la prima volta avvertì quello strano senso di leggerezza che da allora non lo abbandonò mai.
Quando, svegliatosi in un sudore freddo, si era agitato sul divano, Nataša si era avvicinata e gli aveva domandato che cos' avesse. Lui non le aveva risposto e l'aveva guardata in modo strano, senza capire cosa gli dicesse.Ecco cosa gli era successo due giorni prima dell'arrivo della principessina Mar'ja. Da quel giorno, come aveva detto il dottore, la febbre che lo tormentava aveva preso un carattere maligno, ma Nataša non si preoccupava di quello che diceva il dottore; vedeva coi suoi stessi occhi quei tremendi sintomi mortali, che per lei erano indiscutibili. Da quel giorno, insieme al risveglio dal sonno, per il principe Andrej, era cominciato il risveglio dalla vita. E in proporzione alla durata della vita, esso non gli sembrava più lento del risveglio dal sonno in proporzione alla durata del suo incubo. Non c'era nulla di terribile e di brusco in quel lento risveglio.Le ultime giornate e ore di lui trascorrevano in modo semplice e uguale. La principessina Mar'ja, e Nataša, che non si allontanavano nemmeno per un attimo da lui, lo sentivano. Non piangevano, non tremavano e negli ultimi tempi, consapevoli del suo peggioramento, non era più lui che assistevano (lui non c'era già più, era già lontano), ma il più vicino ricordo di lui: il suo corpo. Era tanta, in entrambe, la forza del loro sentimento, che non si impressionavano per l'aspetto esteriore, pauroso, della morte, né provavano il bisogno di esasperare il proprio dolore. Non piangevano né in sua presenza, né lontano da lui, e neanche parlavano mai di lui fra loro. Sentivano che non potevano esprimere a parole ciò che avevano compreso nell'intimo. Entrambe lo vedevano sprofondare sempre più giù, sempre più lontano da loro, chissà dove, ed entrambe sapevano che così doveva essere, che così era giusto. Ricevette gli ultimi sacramenti, tutti vennero a dirgli addio. Quando gli portarono il figlio, lo sfiorò appena con un bacio e poi si voltò dall'altra parte, non perché provasse dolore e pietà (la principessina Mar'ja e Nataša lo capivano), ma solo perché supponeva d'aver fatto tutto quello che da lui s'aspettavano.
Ma quando gli dissero di benedire il figlio, eseguì quanto ancora da lui si esigeva, e volse intorno lo sguardo come per domandare se non occorresse fare altro. Quando sopravvennero le ultime contrazioni del corpo, abbandonato dallo spirito, la principessina Mar'ja e Nataša erano presenti.
«È finita?!» disse la principessina Mar'ja, quando il corpo disteso innanzi a loro, immobile da qualche minuto, cominciò a raffreddarsi. Nataša si avvicinò, guardò gli occhi del morto e si affrettò a chiuderli. Li chiuse e anziché baciarli, si appoggiò con la fronte a quello che era il più prossimo ricordo di lui. «Dov'è andato? Dov'è adesso?...»Quando il corpo, lavato e vestito, fu nella bara sul tavolo, tutti si avvicinarono per rendergli l'estremo saluto, e tutti piangevano.
 

Nikoluška piangeva per lo straziante sbigottimento che gli lacerava il cuore. La contessa e Sonja piangevano per compassione di Nataša, e perché lui non c'era più. Il vecchio conte piangeva perché presto,lo sentiva, anche lui avrebbe affrontato quel passo tremendo.
Adesso anche Nataša e la principessina Mar'ja piangevano, ma non per il loro personale, intimo dolore; piangevano per la reverente commozione che aveva invaso le loro anime in presenza del semplice e solenne mistero della morte.

lunedì 14 maggio 2012

eterna compresenza del tutto nella vita e nella morte

oggi sono atterrita.
gli eventi mi incalzano, mi spiantano, mi sembra di dover pagare un prezzo altissimo per un attimo di felicità.
Luzi è meraviglioso, lo leggo da poco, eppure le sue parole mi consolano, soprattutto quei suoi "quarant'anni d'ansia, d'uggia, d'ilarità improvvise, rapide com'è rapida a marzo la ventata che sparge luce e pioggia...".
non ho niente di più da dire.
veramente.


Nell'imminenza dei quarant'anni 

 Il pensiero m'insegue in questo borgo
cupo ove corre un vento d'altipiano
e il tuffo del rondone taglia il filo
sottile in lontananza dei monti.

 Sono tra poco quarant'anni d'ansia,
d'uggia, d'ilarità improvvise, rapide
com'è rapida a marzo la ventata
che sparge luce e pioggia, son gli indugi,
lo strappo a mani tese dai miei cari,
dai miei luoghi, abitudini di anni
rotte a un tratto che devo ora comprendere.
L'albero di dolore scuote i rami...

Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami. Non fu vano, è questa l'opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti, penetrare il mondo
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d'incontri effimeri e di perdite
o d'amore in amore o in uno solo
di padre in figlio fino a che sia limpido.

 E detto questo posso incamminarmi
spedito tra l'eterna compresenza
del tutto nella vita nella morte,
sparire nella polvere o nel fuoco
se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.



“Mario Luzi, nella sua parabola esistenziale e poetica, ha confermato un’assoluta fedeltà a se stesso, anche in quella religiosità diffusa che per lui è sempre stata una vicinanza al cattolicesimo”, ha detto Andrea Zanzotto ricordando la figura del suo caro amico. “Ritengo Luzi, a conti fatti, la maggiore presenza nella poesia italiana: è sempre stato una figura di alto profilo, che ha saputo evidenziarsi in modo particolare nella letteratura e oltre”.

giovedì 10 maggio 2012

hangar Bicocca

intanto vorrei caricare delle foto e questo stupido blog mi dice che ho esaurito lo spazio disponibile e che se ne voglio postare altre devo PAGARE.
sono sconcertata. adesso ci penso su ma al momento credo che posterò senza foto e buonanotte. queste sono le ultime.

nel frattempo mi dedico alla considerazione che l'hangar Bicocca di Milano è un gran bel posto.
sono sempre molto affascinata dal recupero di spazi industriali, enormi, decadenti, fatiscenti, e il riadattamento sotto forma di zone espositive di grande respiro.
un hangar mi fa pensare a un areoporto.
in questo non ho trovato un aereo ma torri, sette, svettanti, minacciose e misteriose.
una rassegna di video molto suggestivi.
un gioco di luci ed ombre evocativo di giochi d'infanzia perduti.

Per HangarBicocca Hans-Peter Feldmann ha ripensato e riproposto una nuova versione di una delle sue più conosciute  installazioni: "Shadow Play".
Su un tavolo lungo circa 20 metri sono allineati alcuni piedistalli che ruotano su se stessi: su ognuno di essi sono collocate oggetti di varia natura tra cui vecchi giocattoli di latta, piccolo elettrodomestici, una pistola, una Barbie e diversi souvenir, che grazie all’illuminazione ravvicinata proiettano sulla parete un teatro delle ombre continuamente mutevole.
sembra di essere un po' al cinema, tipo Toy Story della Pixar, un po' a teatro, un po' nella soffitta di una casa d'epoca, un po' nell'angolo recondito di un segreto giardino d'infanzia. è una piccola riflessione sulla bellezza degli oggetti perduti, sulla memoria, sulla semplicità della bellezza. 


L’installazione site-specific "I Sette Palazzi Celesti", realizzata per HangarBicocca nel 2004, è una delle più importanti opere dell’artista tedesco Anselm Kiefer e deve il suo nome ai Palazzi descritti nell’antico trattato ebraico Sefer Hechalot – il “Libro dei Palazzi/Santuari” – dove si narra il simbolico cammino d’iniziazione spirituale di colui che vuole arrivare al cospetto di Dio. L’opera rappresenta il punto d’arrivo dell’intero lavoro dell’artista e sintetizza i suoi temi principali proiettandoli in una nuova dimensione fuori dal tempo: essi contengono infatti in sé l’interpretazione di un’antica religione (quella ebraica); la rappresentazione delle macerie dell’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale; la proiezione in un futuro possibile da cui l’artista ci invita a guardare le rovine del nostro presente. 
Le sette torri, del peso di 90 tonnellate ciascuna, hanno altezze variabili tra i 14 e i 18 metri e sono realizzate in cemento armato utilizzando come elementi costruttivi moduli angolari ottenuti dai container utilizzati per il trasporto delle merci. 
sono toste le torri, sembra di essere in un residuo dimenticato e diroccato di mondo. anche in questo caso gioca molto, nella suggestione, il riflesso della memoria: sono in un angolo del mio cervello, quello rettiliano, sono nella preistoria della terra, sono nel passato e nel futuro di guerra, di distruzione, di inizio e fine del mondo. le torri sono potenti e fragili, svettano ma magari cadono, contengono specchi senza riflesso, frammenti di stelle, libri della torah, frasi ebraiche che evocano il nome innominato di dio, navi dell'antico testamento, pellicole di film mai visti o visti tutti i giorni. sono splendide, chi le ha create mi ha regalato un momento sospeso nel tempo.



"NON NON NON", la prima retrospettiva di installazioni e di opere di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, comprende sette film originali e un display concepito dagli artisti che ospita disegni, acquerelli e un video. I film proiettati in HangarBicocca costituiscono nel loro insieme un grande affresco audiovisivo. A partire dalla fine degli anni Settanta i due artisti iniziano una ricerca che li porta a scoprire filmati recuperati negli archivi dei grandi cineasti del passato o trovati nel corso di avventurosi viaggi. Attraverso un dispositivo di loro invenzione, la “Camera Analitica”, i fotogrammi delle vecchie pellicole vengono riproiettati manualmente, rifotografati e rimontati realizzando nuove narrazioni di grande potenza evocativa che affrontano i grandi temi della storia del XX e del XXI secolo come la violenza coloniale, le grandi guerre, l’esilio, le migrazioni dei popoli, visti attraverso gli occhi delle moltitudini anonime. 
sono belli, i filmati, a volte proiettati in sequenza, a volte in contemporanea, lungo spazi molti ampi eppure anche sovrapponibili, sono rallentati, spezzati, e ripetitivi. sone splendide le immagini coloniali, passa in modo sostanziale e fermo, la percezione della sopraffazione, della distanza abissale tra padrone e conquistato, dello sfruttamento. ci sono immagini girate nel deserto, gialle e rosse, che evocano il fuoco del sole africano. ci sono immagini di repertorio che implicano il pensiero di vedere in quel momento gente che non è più ma che ha posato, divertita e spensierata, al tempo del proprio esistere. mi hanno fatto pensare, queste immagini, all'immanenza. a quel tempo e al mio tempo. questo è il mio, bisognerà viverlo degnamente e pienamente. domani potrei essere solo un filmato dei primi anni 2.000. 



sabato 5 maggio 2012

quando la notte. la solitudine della maternità

mi ha chiamata ieri. pensavo fosse per lavoro, fa la psicoterapeuta infantile, segue la figlia di una mia paziente.
no, mi dice, è per me.
è ricaduta in depressione, già tre anni fa aveva preso dei farmaci, ora è ripiombata nell'angoscia.
sono stanca mi dice, stremata: la figlia, di due anni, è in una fase difficile, non dorme, vuole solo lei, la chiama di notte. non dorme sua figlia, non dorme lei.
la capisco in un lampo. genuino autentico moto di compassione, di comprensione viscerale, molto più che professionale.
il caso vuole, o forse no, che ieri sera decida finalmente di guardarmi un film. Quando la notte di Cristina Comencini.

un film che non giudico nel suo complesso, alcuni aspetti narrativi non sono del tutto riusciti.
ma è un film che dice la verità, tutta la verità, niente altro che la verità sull'infinita solitudine della maternità.
oltre i luoghi comuni che vedono la madre come una creatura santificata e gratificata dal ruolo più creativo che la natura abbia ideato, oltre a quello c'è, e tutte le madri lo sanno, l'angoscia della solitudine, del sequestro, della espropriazione del sè, della sensazione di una fatica immane, molto oltre le nostre umane possibilità.
nel film l'amore fa spazio anche all 'odio, si alterna e forse è presente allo stesso modo, a volte, in uno stesso momento. ed è vero, inutile negarlo, quando quel pianto incessante richiedente dipendente ci martella il cervello fino a chiederci dove può arrivare il possesso da parte di "un altro" dei nostri corpo e mente, si arriva a dire: io non posso, io non voglio, io devo sopravvivere.
si tocca, per attimi, si avverte la mostruosità, la crudeltà. per poi morirne, annientate, dal senso di colpa.
questo film dice il vero, lo dice senza mezzi termini, lo dice e basta. finalmente lo dice, coraggiosamente.
il coraggio sta soprattutto nel mostrare la violenza che può esprimersi nella percezione dell'alienazione in una donna normale. non malata, non segregata, non abbandonata, non drogata, non psicotica. normale.
la maternità è anche fatica ingovernabile, è sfinimento, e non può essere portata avanti da sole, la maternità richiede aiuto, comprensione, sostegno. e sono i padri i primi a doverlo dispensare. come si dice nel film, e personalmente lo condivido, i figli si fanno per un uomo, quell'uomo che abbiamo scelto. e quell'uomo deve sapere come starci vicino, sostenerci, capirci e difenderci stanche sfinite inadatte inadeguate arrabbiate e violente. tutte insieme, tutte umanamente così.