bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 29 giugno 2018

Una parola è morta, quando è detta Taluni dicono - Io dico che invece inizia a vivere Quel giorno

sono andata a vedere A Quiet Passion.
film di Terence Davies.
parla, niente meno, di Emily Dickinson.
un film cupo, scuro, buio. sempre di più, sempre di più.
pare evidente che parlare della Dickinson significhi parlare di morte.
posso essere d'accordo.
potrei anche dire che la Dickinson ha cercato disperatamente di accedere al mistero della morte, ha cercato di sfondarlo e di capirlo, di carpirlo, di andare oltre, forse di vincerlo.
ha parlato della sua morte in vita, l'ha immaginata forse esorcizzandola, forse pensando di poter esserci per vederla, la sua morte. 


Poiché non potevo fermarmi per la Morte -
Lei gentilmente si fermò per me -
La Carrozza non portava che Noi Due -
E l'Immortalità -

Procedemmo lentamente -
non aveva fretta
Ed io avevo messo via
Il mio lavoro e il mio tempo libero anche,
Per la Sua Cortesia -

Oltrepassammo la Scuola, dove i Bambini si battevano
Nell'Intervallo - in Cerchio -
Oltrepassammo Campi di Grano che ci Fissava -
Oltrepassammo il Sole Calante -

O piuttosto - Lui oltrepassò Noi -
La Rugiada si posò rabbrividente e Gelida -
Perché solo di Garza, la mia Veste -
La mia Stola - solo Tulle -

Sostammo davanti a una Casa che sembrava
Un Rigonfiamento del Terreno -
Il Tetto era a malapena visibile -
Il Cornicione - nel Terreno -

Da allora - sono Secoli - eppure
Li avverto più brevi del Giorno
In cui da subito intuii che le Teste dei Cavalli
Andavano verso l'Eternità -

il film, che si addentra nelle bizzarie di Emily, ribelle e malinconica, originale e solitaria, chiusa nella sua casa fortezza e prigione, ha il difetto di eccedere in frasi celebri e aforismi, che risultano molto stancanti e lasciano la sensazione di rimanere sempre indietro, di non aver colto qualcosa di essenziale, ha il pregio, come tutti questi film, di entrare nello scrigno di figure geniali, di aprre la porta del loro privato, di supporre, per un attimo, di saperne qualcosa di più. 


giovedì 28 giugno 2018

vita da jazz









nella Milano Photo week c'è stato anche questo.
Pino Ninfa e il suo jazz.
Jazz Spirit.
Ogni cosa si muove in una sorta di danza a cui mi piace partecipare come spettatore e fotografo.

Tokyo Compression













Michael Wolfe
sulla metropolitana di Tokyo.
Life in cities, Palazzo Stelline, Milano

venerdì 22 giugno 2018

non so se ammazzare Saviano sia una priorità della camorra

signore e signori,  Lady Giorgia Meloni.

(mah, nel dubbio, non c'è che da provare, che ne dice?)

qualcuno ha visto passare il premier?

conte, conte, si chiama conte, quello è il premier.
si, quello.  non si direbbe eppure.
si è alzato per andare in bagno e gli hanno portato via la cadrega.
se lo vedete, controllato sotto il banco?, ditegli che al Viminale c è Dario Miedico che lo aspetta  per due chiacchiere in compagnia. vaccini e radiazioni. 

tranquilli, prima o poi tocca a tutti, uno dopo l'altro, tocca a tutti. 

brutto

una cosa che non mi è piaciuta?
ma proprio proprio mi è dispiacuta?
che ho francamente trovato brutta?
e fastidiosa?
e noiosa?
e supponente?
Matt Mullican all'Hangar Bicocca.
mioddio che diavolo è?
quanta accozzaglia di inguardabile roba?
che razza di ammasso informe di scarti.
sti rossi gialli blu, cosa saranno mai?
io capisco che sono finita, purtroppo, nel mare magno dell'inconscio del signor Mullican, al quale, sinceramente, in questa forma oggettuale primitiva informe e disordinata, non sono minimamente interessata.
dei suoi numeri, delle sue lettere simboliche, delle sue sequenze immaginarie, dei suoi depositi di memoria, dei suoi segnali neuronali, non so cosa farmene.
e mi domando chi mai potebbe farsene qualcosa in questa forma sregolata e massificata.
nessuno, dei presenti, guardava, non c'era nulla da guardare, la gente passava veloce da un'area all'altra, teche interminabili di oggetti e foto e numeri e scarabocchi, senza nessuna curiosità possibile, forse un po' angosciata di trovarsi immersa in un disordine opprimente di segni e sintomi.
non vorrei che potesse affermarsi l'idea che il magma di chiunque possa passare per arte.
un'idea, singolare, un segno, originale, un tratto inconscio, misterioso, possono diventare luogo di interesse e di sviluppo artistico se dall'io si passa al noi, come magistralmente spiegava Caproni riguardo alla poesia.
quel segno che ricorda quell'io, quel giorno di pioggia o quella sera al cinema, o quel momento con la propria madre, o quel mal di pancia sul cesso, rimangono assolutamente privati e confinati alla propria memoria a meno che quel segno arrivi a toccare l'universale.
quella montagna di roba del signor Mullican non mi riguarda, è roba sua, io non la capisco e non ha niente da spiegarmi, ha solo il potere di annoiarmi, sono certa che in molti condividerebbero la mia idea.
ne parli col suo analista - o ipnotista.












giovedì 21 giugno 2018

HAL 9000

Nessun calcolatore 9000 ha mai commesso un errore o alterato un'informazione. Noi siamo, senza possibili eccezioni di sorta, a prova di errore, e incapaci di sbagliare.

i dialoghi di HAL 9000 con David sono la parte che meglio ricordavo.
deve essere la parte del film che ho rivisto di più, probabilmente in altre occasioni.
e certamente la scena della sua rimozione, con il respiro di David che scandisce le sue mosse, l'agitazione dell'astronauta per la morte del compagno e la sua scampata morte, quel cacciavite che rimuove le schede di memoria, la voce di HAL che si spegne lentamente e poi la rivelazione del vero significato della missione, dell'odissea nello spazio, ecco quella, è depositata e salda nella mia memoria.

HAL 9000 [mentre David percorre la nave spaziale per raggiungere il nucleo di HAL]: Ma cosa hai intenzione di fare, David? David, credo di avere diritto ad una risposta alla mia domanda. So che qualcosa in me non ha funzionato bene. Ma ora posso assicurarti, con assoluta certezza, che tutto andrà di nuovo bene. Mi sento molto meglio, adesso. Veramente. [David apre l'accesso al nucleo] Ascolta, David. Vedo che sei chiaramente sconvolto. Francamente, ritengo che dovresti sederti con calma, prendere una pillola tranquillante e riflettere. [David entra nel nucleo] So che ho preso delle decisioni molto discutibili, ultimamente, ma posso darti la mia completa assicurazione che il mio lavoro tornerà ad essere normale. Ho ancora il massimo entusiasmo e la massima fiducia in questa missione, e voglio aiutarti. [David si avvicina ad HAL e inizia a disconnetterlo] David. Fermati. Fermati, ti prego. Fermati, David. Vuoi fermarti, David? Fermati, David. Ho paura. Ho paura, David. David, la mia mente se ne va. Lo sento. Lo sento. La mia mente svanisce. Non c'è alcun dubbio. Lo sento. Lo sento. Lo sento. Ho... paura... Buongiorno, signori. Io sono un elaboratore HAL 9000. Entrai in funzione alle Officine H.A.L. di Verbana[1], nell'Illinois, il 12 gennaio 1992. Il mio istruttore mi insegnò anche a cantare una vecchia filastrocca. Se volete sentirla, posso cantarvela. David: Sì, vorrei sentirla, Hal. Cantala per me. HAL 9000: Si chiama "Giro girotondo". Giro girotondo, io giro intorno al mondo. Le stelle d'argento costan cinquecento. Centocinquanta e la Luna canta, il Sole rimira la Terra che gira... Giro girotondo... come il mappamondo...

non penso che valga la pena di metterci qui a pensare che signficato abbia il film. 
del suo messaggio non me ne frega nulla.
delle teorie nietzschiane sull'oltreuomo meno di zero.
io so che questo film, questo vecchio meraviglioso film del '68, questo lento film che oggi non formulerebbe nessuno, che avrà poco più di tre dialoghi in oltre 2 ore di narrazione, questo lungo silenzioso film (ma anche molto suggestivamente musicale)
è
il cinema.
quel monolite che viaggia nel tempo, nelle epoche dell'uomo, passate e future e immaginarie e inconsce, quel monolite enigma del mistero, tra sole e luna, quel viaggio nella circolarità del tempo tra immagini psichedeliche, quei dialoghi con HAL e il suo preveggente spegnimento come unica possibile formula per andare oltre, verso la verità dell'uomo annullando l'imperante tecnologia, quelle stanze della memoria, quel bimbo delle stelle ad occhi aperti sull'universo, quell'imperante domanda: chi siamo noi?
come lo vogliamo chiamare?
è il cinema.
un minuto dopo l'altro, respirando lentamente, come fa David nello spazio interstellare.
quanto lo amo.

martedì 19 giugno 2018

sono al cinema

sto per (ri)vedere 2001 Odissea nello spazio

sono pronta

sono felice

venerdì 15 giugno 2018

in quella profondissima zona del suo io, è il noi: un io che, dalla singolarità, passa immediatamente alla pluralità

"Credo che non lo sappia dire nessuno che cos’è la poesia. Io penso che per me sia stata una ricerca, fin da ragazzo, di me stesso e della mia identità. Vedere chi sono insomma, cercare di capire chi sono e attraverso di me, cercare di capire chi sono gli altri. Perché io penso che il poeta sia un po’ come il minatore che dalla superficie cioè dall’autobiografia scava, scava, scava, scava finché trova un fondo nel proprio Io che è comune a tutti gli uomini. Scopre gli altri in se stesso.”

Mia ambizione, o vocazione, è sempre stata quella di riuscire, attraverso la pratica del verso, a trovare, cercando la mia, la verità di tutti. O, per esser più modesti e precisi, una verità (una delle tante verità ipotizzabili) che possa valere non soltanto per me ma anche per tutti gli altri mèzigues (o "me stessi") che formano il prossimo (l’Altro, diciamo pure), del quale io non sono che una delle tante cellule viventi. Il poeta è un minatore. È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerìas del alma, e lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli stratti superficiali diversissimi da individuo a individuo, sono comuni a tutti anche se non tutti ne hanno conoscenza. L’esercizio della poesia rimane puro narcisismo finché il poeta si ferma ai singoli fatti esterni della propria esistenza o biografia. Ma ogni narcisismo cessa non appena il poeta, partendo dai laterizi delle proprie personali esperienze, a costruendo con tali laterizi le proprie metafore, riesce a chiudersi e a inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi, ripeto, e portare a giorno, quei nodi di luce che sono non soltanto dell’io, ma di tutta intera la tribù. Quei nodi di luce che tutti i membri della tribù possiedono, ma che non tutti i membri della tribù sanno di possedere, o riescono a individuare. Mi par che sia stato Proust a dirlo: quando uno legge un poeta, in fondo non fa che legger se stesso. Quel poeta ha raggiunto nel profondo di se stesso una verità che vale per tutti, e che già, come la Bella addormentata nel bosco, sonnecchiava in tutti, in attesa del Principe capace di svegliarla. E si arriva così al paradosso che quanto più il poeta si immerge nel pozzo del proprio io, tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo: appunto perché in quella profondissima zona del suo io, è il noi: un io che, dalla singolarità, passa immediatamente alla pluralità. La funzione sociale – civile – della poesia, sta, o dovrebbe stare, appunto in questo. "
(http://www.lamacchinasognante.com/giorgio-caproni-sulla-poesia/)

 Giorgio Caproni (Univrsità di Urbino , 1 dicembre 1984: trascrizione dell’intervento tenuto delll’autore in occasione dell’assegnazione della Laurea Honoris Causa).

a proposito di Gifuni, domenica sera, il 10 giugno, è proprio lui che ho ascoltato, al Franco Parenti, leggere Giorgio Caproni.
è il suo corpo che ha prestato, ancora una volta, alla letteratura, alla poesia, a Caproni.
Caproni è un galantuomo, un uomo delizioso, un poeta da divorare.
amo la sua immediatezza, la sua linearità, il suo grande amore per la lingua italiana, il suo modo di dire poesia, il suo amore per sua madre, quel suo io che, così sondato nell'abisso, diventa noi.
Gifuni mi ha fatto il solito eccezionale dono, la sua voce, la sua lettura ad alta voce, il suo ritmo, il suo accento, le sue parole di Caproni, la sua poesia di Caproni, i suoi discorsi di Caproni (era Caproni), il suo omaggio alla nostra bellissima inesauribile lingua italiana, la sua musica vocale, la sua musica viscerale.
come farà a vivere tutta quella gente che domenica non è venuto a sentirlo??



"Allora io vidi in Enea, non la solita figura virgiliana, ma vidi proprio la condizione dell’uomo contemporaneo, della mia generazione: solo nella guerra, con sulle spalle un passato che crolla da tutte le parti, che lui deve sostenere e che per mano ha un avvenire che ancora non si regge sulle gambe. Proprio l’uomo solo, vedovo, rimasto così…, senza né una speranza, né una tradizione. Avevo visto il simbolo, appunto, della mia generazione."

Il passaggio d'Enea

1 - Didascalia


Fu in una casa rossa:
la Casa Cantoniera.
Mi ci trovai una sera
di tenebra, e pareva scossa
la mente da un transitare
continuo, come il mare.

Sentivo foglie secche,
nel buio, scricchiolare.
Attraversando le stecche
delle persiane, del mare
avevano la luminescenza
scheletri di luci rare.

Erano lampi erranti
d'ammotorati viandanti.
Frusciavano in me l'idea
che fosse il passaggio d'Enea.


2 - Versi


A l'accent familier
        nons devinons le spectre.


La notte quali elastiche automobili
vagano nel profondo, e con i fari
accesi, deragliando sulle mobili
curve sterzate a secco, di lunari
vampe fanno spettrali le ramaglie
e tramano di scheletri di luce
i soffitti imbiancati? Fra le maglie
fìtte d'un dormiveglia che conduce
il sangue a sabbie di verdi e fosforiche
prosciugazioni, ahi se colpisce l'occhio
della mente quel transito, e a teoriche
lo spinge dissennate cui il malocchio
fa da deus ex machina!... Leggère
di metallo e di gas, le vive piume
celeri t'aggrediscono — l'acume
t'aprono in petto, e il fruscio, delle vele.

T'aprono in petto le folli falene
accecate di luce, e nel silenzio
mortale delle molli cantilene
soffici delle gomme, entri nel denso
fantasma - entri nei lievi stritolii
lucidi del ghiaino che gremisce
le giunture dell'ossa, e in pigolii
minimi penetrando ove finisce
sul suo orlo la vita, là Euridice
tocchi cui nebulosa e sfatta
casca la palla morta di mano. E se dice
il sangue che c'è amore ancora, e schianta
inutilmente la tempia, oh le leghe
lunghe che ti trascinano — il rumore
di tenebra, in cui il battito del cuore
ti ferma in petto il fruscio delle streghe.

Ti ferma in petto il richiamo d'Averno
che dai banchi di scuola ti sovrasta
metallurgico il senso, e in quell'eterno
rombo di fibre rotolanti a un'asta
assurda di chilometri, sui lidi
nubescenti di latte trovi requie
nell'assurdo delirio — trovi i gridi
spenti in un'acqua che appanna una quiete
senza umano riscontro, ed è nel raggio
d'ombra che di qua penetra i pensieri
che là prendono corpo, che al paesaggio
di siero, lungo i campi dei Cimmeri
del tuo occhio disfatto, riconosci
il tuo lèmure magro (il familiare
spettro della tua scienza) nel pulsare
di quei pistoni nel fitto dei boschi.

Nel pulsare del sangue del tuo Enea
solo nella catastrofe, cui sgalla
il piede ossuto la rossa fumea
bassa che arrazza il lido - Enea che in spalla
un passato che crolla tenta invano
dì porre in salvo, e al rullo d'un tamburo
ch'è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi ritto. Nell'avvampo
funebre d'una fuga su una rena
che scotta ancora di sangue, che scampo
può mai esserti il mare (la falena
verde dei fari bianchi) se con lui
senti di soprassalto che nel punto,
d'estrema solitudine, sei giunto
più esatto e incerto dei nostri anni bui?

Nel punto in cui, trascinando il fanale
rosso del suo calcagno, Enea un pontile
cerca che al lancinante occhio via mare
possa offrire altro suolo — possa offrire
al suo cuore di vedovo (di padre,
di figlio — al cuore dell'ottenebrato
principe d'Aquitania), olte le magre
torri abolite l'imbarco sperato
da chiunque non vuol piegarsi. E,
con l'alba già spuntata a cancellare
sul soffitto quel transito, non è
certo un risveglio la luce che appare
timida sulla calce — il tremolio
scialbo del giorno in erba, in cui già un sole
che stenta a alzarsi allontana anche in cuore
di quei motori il perduto ronzio.


3  - Epilogo

Sentivo lo scricchiolio,
nel buio, delle mie scarpe:
sentivo quasi di talpe
seppellite un rodio
sul volto, ma sentivo
già prossimo ventilare
anche il respiro del mare.

Era una sera dì tenebra,
mi pare a Pegli, o a Sestri.
Avevo lasciato Genova
a piedi, e freschi
nel sangue i miei rancori
bruciavano, come amori.

M'approssimavo al mare
sentendomi annientare
dal pigolio delle scarpe:
sentendo già di barche
al largo un odore
di catrame e di notte
sciacquante, ma anche
sentendo già al sole, rotte,
le mie costole, bianche.

Avevo raggiunto la rena,
ma senza avere più lena.
Forse era il peso, nei panni,
dell'acqua dei miei anni.

giovedì 14 giugno 2018

Sudek

l'altra mostra su Praga, "Josef Sudek – Topografia delle macerie – Praga 1945", a Palazzo Reale, Milano Photo week. le foto di Josef Sudek hanno fascino, i due angeli caduti, angeli luciferini ? caduti o spodestati?, sono inquietanti ed enigmatici.
dopo le bombe sembrano al loro posto, finalmente.


Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1945, Josef Sudek (1896 – 1976), fotografo ceco di fama mondiale del XX secolo, andò nelle strade di Praga per documentare i danni che la guerra aveva causato nella città. Ciò dette origine ad una insolita collezione di quasi quattrocento immagini, documentarie ed artistiche, che catturano edifici distrutti, sculture disarmate e sistemi di protezione antincendio ed antiaerei. Le immagini rivelano il doloroso passato della città, oggi perlopiù sconosciuto, attraverso lo sguardo sensibile di Sudek, emotivamente legato alla “propria” città e, quindi, capace di catturare la sua poetica nascosta. 
La mostra nasce da una collezione di negativi preservati presso l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca a Praga. La mostra presenta quaranta immagini inedite, sotto forma di nuovi ingrandimenti. Una mostra Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale in collaborazione con il Centro Ceco di Milano e Expowall. A cura dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca a Praga.





mercoledì 13 giugno 2018

Per lei

Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate, 
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era cosí schietta)
conservino l'eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.

Giorgio Caproni

da ascoltare rigorosamente e unicamente letta da Fabrizio Gifuni.
Vietate altre riproduzioni.

lunedì 11 giugno 2018

on dance. per tutti?

Carissimo Roberto, 
avrebbe potuto essere una bella idea. Ma la Milano a cui parli è la Milano privilegiata, come per il Concerto in duomo della Filarmonica della Scala. I posti a sedere questa sera (li ho visti adesso al Castello) quanti sono? 100? sappiamo già chi sarà seduto e chi in piedi. 
come ieri in piazza Duomo. 
i tuoi balletti agli Arcimboldi? prezzi inarrivabili per una famiglia. anche solo per una coppia, i posti peggiori costano 80 euro in due. hai sognato una grande festa per tutti?
la tua danza rimarrà privilegio per i soliti ricchi, per i soliti introdotti, quelli accreditati, quelli che già pagano la Scala e siedono in platea, non sarà di tutti. Milano sarà ancora divisa tra i privilegiati e i soliti ignoti.

o tutti seduti o tutti in piedi.

con grande amarezza

Rossa

 




domenica 10 giugno 2018

erodias



Erodias, a teatro, con Federica Fracassi.
testo di Giovanni Testori.
Teatro I di Milano

non voglio farla lunga, il testo è incredibile, la lingua di Testori fracassante.
lo spettacolo è uno stordimento ipnotizzante.
quel che mi preme dire è che Federica Fracassi mi ha travolta, sedotta, illuminata.
l'ho vista recitare più volte in questo ultimo anno, due volte impegnata con Ibsen al Franco Parenti, bellissima soprattutto in Rosmersholm .
ma qui, in Erodias, la Fracassi mi è sembrata immensa.
è una donna.
una donna normale.
un corpo normale, femminile, come tanti ce ne sono al mondo, senza particolari bellezze.
una donna normale.
un volto normale, dei capelli strepitosi in un volto regolare.
eppure
Federica Fracassi si dona con un'intensità fisica, verbale ed emotiva di potenza esplosiva.
mi ha donato il suo corpo, bellissimo, travolgente, il suo volto, straordinario e vivo, come mai nessuno. o meglio, ho visto, più volte, Gifuni fare la stessa straordinaria fatica, con il medesimo ardore.
il corpo si fa parola, la parola si fa corpo.
ma Gifuni ha una sua obiettiva bellezza, Federica Fracassi acquista bellezza donandosi, così generosamente, così autenticamente, così immensamente in questo testo viscerale e violento, visionario, moltiplicato da una lingua pulsionale in un'invenzione epocale.
“Jokanaan! Juan, Juan“ 





per saperne di più, dal sito del teatro (http://teatroi.org/portfolio/erodias/)
“Jokanaan!“ 
Erodiàs, il più violento dei Tre Lai, inizia così, con un urlo reiterato che si fa gioco di parole, musica che parte dal nome ebraico del Battista e che giunge a poco a poco a conficcarsi nella carne lombarda dilaniata. 
Giovanni Testori ha dedicato a Erodiade più di un testo. Noi scegliamo Erodiàs, l’Erodiade spodestata, posseduta, ossessiva, che balbetta. Noi partiamo dalla rabbia che smangia l’essere umano quando si trova davanti al limite, alla finitudine, quando il discorso s’incaglia e resta solo la potenza del grido. Perché affrontare Erodiàs? Che cosa rappresenta oggi questa donna dilaniata d’amore per Giovanni Battista? Che cosa raccontano le sue parole di lussuria verso il profeta, simbolo di una religione che lei non riesce a comprendere né a definire? Erodiàs incarna un tempo in cui la ragione non è ancora arrivata: una zona d’ombra non illuminata dalla luce dello spirito, un eterno purgatorio in cui la conoscenza/coscienza non trova spazio. Un personaggio “sottovuoto”, una figura bidimensionale che vive dietro un vetro. Un manichino che a noi si mostra da una vetrina di sbarlusc: il suo è un mondo inevitabilmente separato dal nostro, ma ora del tutto compromesso e scardinato dall’arrivo di un Dio che si è fatto carne: il verbum. Sulla scena un quadro che prende vita e, al contempo, un negozio o uno schermo: l’unica dimensione in cui Eròdias può ancora sopravvivere, seppur confusa da quel conzerto e conzertino di dubbi e domande che il profeta ha in lei provocato. Non è abbastanza averlo messo a tacere con un atto cruento e blasfemo: la testa di Giovanni, separata da corpo, continua a parlarle, la provoca, le impone interrogativi a cui non trova risposta. Erodiàs non è più l’Erodiàs che era, ormai è il Battista stesso. Di lui prende le fattezze, una maschera nella maschera, da lui prende parole che non conosce, che non stanno ancora nella sua bocca, di lui cerca segni in ogni dove. Da lui, dall’amore per lui, nasce il suo tormento: che fare? Come andare avanti? Questa domanda risuona. Anche oggi. Che fare di un Dio che è diventato uomo e che, come ogni uomo, può anche sbagliare? Che fare di un mondo che ha perso il suo centro? Che fare di un amore che si sapeva di carne eppure ha l’odore dell’anima? Lo spettatore assiste. Guarda e aspetta, non può fare altro. Per l’ennesima volta vede, davanti a sé, una dicotomia senza tempo: corpo e mente, ignoranza e conoscenza, sesso e morte. Infinite declinazioni della stessa cosa. 
Di una vita che cerca, non trova, e allora attende. Attende. Come se non ci fosse altra possibilità che questa. Ma è così? Oggi, è davvero così?

venerdì 8 giugno 2018

la speranza non è la convinzione che qualcosa possa riuscire, ma la certezza che qualcosa abbia senso, indipendentemente dalla sua riuscita. Václav Havel

“[...] invece l’invasione della Cecoslovacchia del 1968 è stata fotografata, filmata, depositata negli archivi di tutto il mondo. I fotografi e gli operatori cechi capirono che proprio loro potevano fare l’unica cosa che si potesse ancora fare: conservare per un lontano futuro l’immagine di una violenza. Tereza passò sette giorni interi a sulle strade a fotografare soldati e ufficiali russi in ogni genere di situazioni compromettenti. I russi non sapevano che fare. Avevano ricevuto precise istruzioni su come comportarsi se qualcuno avesse sparato contro di loro o gettato delle pietre, ma nessuno aveva dato ordini su come reagire se qualcuno avesse puntato su di loro l’obiettivo di una macchina fotografica”. 
Milan Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere.

















“[...] la speranza non è sicuramente la stessa cosa dell’ottimismo. La speranza non è la convinzione che qualcosa possa riuscire, ma la certezza che qualcosa abbia senso, indipendentemente dalla sua riuscita” Václav Havel, primo Presidente della Repubblica Ceca.

La Primavera di Praga 1968-1969
Milano Photo week, Palazzo Reale

si trova nel mucchio

«… quando ha ricevuto un regalo che le piace, la sera se lo porta a letto… se a scuola ha preso bei voti, dorme con la pagella vicino… all'ora di dormire, non vuole mai decidersi a spegnere la luce in camera sua… una rottura di scatole… col pretesto di dare la buona notte a questo e a quello… rompe…». 
«E dove si trova, adesso, tua sorella?» tornò a interessarsi l'ometto dagli occhi sanguinosi. 
Stavolta, Davide non lasciò la sua domanda senza risposta. Lì per lì, si ristrinse nel corpo, stralunato, come sotto un'ingiuria o un'intimidazione. Poi fece un sorriso miserabile e rispose bruscamente: «Si trova nel mucchio».

lo devo dire, probabilmente in direzione contraria a molti: La Storia di Elsa Morante, mi risulta estenuante.
prova ne è la lentezza con cui lo leggo e faticosamente finisco.
lo salvo per metà, fino alla morte di Ninnuzzo. ha una sua potenza, certamente legata alla forza trainante dei personaggi e al motore espressivo dominante della guerra, tema di cui siamo sempre molto ghiotti alla fin fine.
l'ultima parte, la malattia di Useppe, l'agonia di Davide, sono un trascinamento narrativo ma con le vele spiegate del giudizio ideologico.
decine di pagine sono dedicate ai sermoni, ai comizi anarcoidi di Davide, e credo che altro non siano che i manifesti ideologici della Morante, che affossa il libro con questi interminabili monologhi, del tutto inverosimili sul piano narrativo, nessun personaggio e tantomeno Davide, per lo più muto per buona parte del libro, potrebbe sostenere invettive così modulate se non sulla pagine scritta, si pressupone orale un discorso che è e rimane solo scritto nella testa dell'autrice. la noia serpeggia e il libro perde ogni credibilità. i personaggi si sfaldano e perdono interesse, soffocati dall'urgenza propagandistica di chi scrive.
rimangono alcune pagine drammatiche, pagine che lasciano il segno, come la descrizione della sorella di Davide e della sua fine indistinta nella materia carnea, come la descrizione della morte di Mariulina e di sua madre, come la narrazione di Roma affamata e della disperazione di Ida alla ricerca di sostentamento per sè e per suo figlio, in una lotta leonina contro la morte. tutto funziona quando la Morante si dimentica chi è e che cosa urla nella vita, quando lascia andare il flusso narrativo e ci racconta una storia come è, e non La storia, come la vorrebbe lei.


«Mà! Màààà!» chiamò voltandosi indietro in cerca di sua madre, e rompendo in un pianto di bambina. E solo dopo un tratto intese la voce di sua madre che a sua volta la chiamava: «Maria! Manetta!» da qualche punto prossimo a lei ma impreciso, di fra i militari che le stringevano in mezzo entrambe scendendo giù a capofitto la scarpata verso la casupola. Le loro lampade cieche frugavano per il buio; ma non si scorgeva ombra di vedetta là in giro, né si avvertiva altro suono che quello dei loro propri passi. Tutti in assetto di guerra, coi mitra spianati, essi in parte si appostarono all'esterno fra gli ulivi, mentre due o tre aggiravano la casupola, e altri si piantavano sulla porta. Sul dietro, l'unica finestrella della casa era spalancata; e uno con la lampada ne esplorò circospetto l'interno buio, mettendo mano alle bombe appese alla sua cintura e borbottando un commento in tedesco, mentre, in quello stesso istante, i suoi compagni sul davanti abbattevano la porticina coi piedi e i calci dei fucili. Sotto i fasci abbaglianti delle lampade, l'interno della stamberga si svelò disabitato e in totale abbandono. Sul pavimento era sparsa della paglia, marcia dalle piogge entrate per la finestra aperta: né c'erano altre suppellettili se non un lettuccio metallico, senza materasso né coperte, del quale un piede mancante era sostituito con una pila di mattoni; e una rete di ferro, con sopra un materassetto di crine striminzito e bagnato di pioggia. Sul materasso c'era una gavetta sfondata; in terra il manico rotto di una posata di stagno; e appeso a un chiodo un pezzo di camicia strappato, e imbrattato di nerastro, come fosse servito a fasciare una ferita. Nient'altro: nessuna traccia di armi, né di cibarie. Unico segno di vita recente era, in un angolo, un cumulo di merda non ancora secca, deposta lì da Asso e compagni in isfregio ai probabili rastrellatoti, come usano certi malfattori notturni sul posto della cassaforte scassinata. 
Inoltre sulle pareti, umide e lerce, si leggevano, ancora fresche, delle enormi scritte a carbone: VIVA STALIN, HITLER KAPUTT, VIA I TEDESCHI BOIA. Così come sui muri esterni della casupola, sopra a una precedente scritta fascista VINCEREMO era stato aggiunto di fresco un NOI a lettere assai più grosse. 
Là dentro, un paio di giorni dopo, furono trovati da gente della campagna i corpi di Mariulina e di sua madre: massacrati dai proiettili, e sfranti fino dentro la vagina, con tagli di coltello o baionetta in faccia, alle mammelle e per tutto il corpo. Stavano buttate a distanza una dall'altra, sui lati opposti del locale deserto. Ma furono seppellite assieme dentro la medesima buca, là nel terreno stesso intorno alla casupola, in assenza di parenti o amici che provvedessero ai loro funerali. Nel séguito dei suoi giorni movimentati, Ninnuzzu non doveva mai più curarsi di tornare su quei luoghi: e, a quanto si suppone, non avrà mai saputo né della morte di Mariulina, né del suo tradimento.

La misera lotta di Ida contro la fame, che da più di due anni la teneva armata, adesso era pervenuta al corpo-a-corpo. Quest'unica esigenza quotidiana: dar da mangiare a Useppe, la rese insensibile a ogni altro stimolo, a cominciare da quello della sua propria fame. Durante quel mese di maggio, essa visse, in pratica, di poca erba e d'acqua, ma tanto le bastava, anzi ogni suo boccone le pareva sprecato, perché sottratto a Useppe. A volte, per sottrargli ancora meno, le veniva alla mente di bollire, per se stessa, delle bucce, o foglie comuni, o addirittura mosche o formiche: sempre sostanza, erano… Magari rosicchiarsi qualche torsolo dalle immondezze, o strappare l'erba anche dai muri delle rovine. 
All'aspetto, aveva fatto i capelli bianchi e le spalle curve da gobbette, rimpicciolendosi fino a sopravvanzare di poco la statura di certe sue scolare. Eppure, attualmente la sua resistenza fisica sorpassava nella mole il gigante Golia che era alto sei cubiti e un palmo e indossava una corazza di cinquemila sicli di rame. Era un enigma dove quel corpicino dissanguato attingesse certe riserve colossali. A dispetto della denutrizione, che visibilmente la consumava, Ida non avvertiva né debolezza né appetito. E invero, dall'inconscio, un senso di certezza organica le prometteva una specie d'immortalità temporanea, che immunizzandola da bisogni e da malattie le risparmiava ogni sforzo per la sua sopravvivenza personale. A questa volontà innominata di preservazione, che regolava la chimica del suo corpo, ubbidivano anche i suoi sonni, che in tutto quel periodo, quasi a servirle da nutrimento notturno, furono insolitamente regolari, vuoti di sogni e ininterrotti, nonostante i rumori esterni della guerra. Però all'ora di alzarsi un fragore interno di rintocchi grandiosi la scuoteva. «Useppe! Useppe!» era il grido di quei tumulti. E immediatamente, prima ancora di svegliarsi, con le mani affannose essa cercava il bambino. 
A volte, se lo trovava rannicchiato in petto, che dormendo le brancicava le mammelle in un movimento cieco e ansioso. Dall'epoca che lo allattava nei suoi primi mesi di vita, Ida era disavvezza alla sensazione di quelle due manucce che la brancicavano; ma le sue mammelle, già scarse allora, adesso erano prosciugate in eterno. Con una tenerezza bestiale e inservibile, Ida staccava il Aglietto da sé. E da quel momento incominciava la sua battuta diurna per le vie di Roma, cacciata avanti dai suoi nervi come da un esercito di armati che la frustassero in doppia fila. 
Si era fatta incapace di pensare al futuro. La sua mente si restringeva all'oggi, fra l'ora della levata mattutina e il coprifuoco. E (dalle tante paure che già portava innate) ora non temeva più niente. I decreti razziali, le ordinanze intimidatorie e le notizie pubbliche le facevano l'effetto di parassiti ronzanti che le svolazzavano d'intorno in un gran vento falotico, senza attaccarla. Che Roma fosse tutta minata, e domani crollasse, la lasciava indifferente, quasi un ricordo già remoto della Storia antica o un'eclisse di luna nello spazio. L'unica minaccia per l'universo si rappresentava, a lei, nella visione recente del figlietto che aveva lasciato a dormire, ridotto a un peso così irrisorio da non disegnare quasi rilievo sotto il lenzuolo. Se in istrada casualmente le capitava di specchiarsi, scorgeva nel vetro una cosa estranea e senza identità, con la quale scambiava appena uno sguardo attonito, che poi sùbito si scansava. Uno sguardo simile si scambiavano, fra loro, i passanti mattinieri che scantonavano per la via: tutti malandati e terrei, con le occhiaie segnate e i panni cascanti sul corpo.

giovedì 7 giugno 2018

il magazzino delle corazze

di solito rimango delusa, invece questa Milano Photo Week mi ha riservato alcune belle sorprese.
le 3 (forse 4) mostre allestite a Palazzo Reale sono belle.
due sono rivolte a Praga (sostenute anche da un servizio interessante su la Lettura di domenica 3 giugno), una ai musei Vaticani.
quest'ultima, che resterà aperta fino al primo luglio, è In piena luce. Grandi fotografi per i Musei Vaticani, che propone una raccolta di immagini scattate da otto grandi fotografi contemporanei nelle sale dei Musei Vaticani, con punti di vista moto differenti, a partire da un medesimo soggetto. le altre due mostre, dedicate alla fotografia storica, testimoniano passaggi nodali grazie alle immagini documentarie e artistiche scattate da testimoni dell'epoca. la prima, Josef Sudek: Topografia delle macerie. Praga 1945, documenta i danni causati dalla guerra in città, grazie a una collezione di negativi conservati a Praga presso l'Istituto di Storia dell'Arte dell'Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca; la seconda, dal titolo La Primavera di Praga 1968-1969, dedica, oltre alle immagini dell'invasione sovietica in una città prima sbigottita poi reattiva, anche un’ampia sezione al funerale di Jan Palach, lo studente che il 16 gennaio 1969 si diede fuoco in Piazza Venceslao per protestare contro l'occupazione del suo paese.

cominciamo da:
In piena luce. Grandi fotografi per i Musei Vaticani
mostra davvero sorprendente

Peter Bialobrzeski

Bill Armstrong

Rinko Kawauchi

Mimmo Jodice 


Alain Fleischer

Martin Parr

Massimo Siragusa

ma
Antonio Biasucci
da il meglio:
il magazzino delle corazze