bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

sabato 31 dicembre 2016

infine, Soie

era book City.
era novembre,
il 19.
ore 11.
in Triennale, una marea di gente, ragazze, in visibilio per Baricco.
dispiace ci sia ancora questa mania erotica giovanile che trasforma eventi culturali in fenomeni da stadio.
percepisco fastidio.
lo riproverò più tardi nel tentativo di avere una copia firmata, impossibile, veramente impossibile, almeno due ore di coda. ciao.
la vera star è Rebecca Dautremer che illustra Seta, del suddetto autore.
questa illustratrice ha qualcosa di misterioso, non è solare, è ambigua, a tratti spigolosa, nelle foto è spesso molto diversa tra un periodo e l'altro, capelli lunghi, poi corti, poi in carne, poi magra.
strana.
durante la conferenza parla, quasi solo lei, al solito Baricco fa quello che è passato di lì per caso, maglietta bianca e golf a scollo tondo. sembra quasi annoiato. chissà.
dice poche cose, anche lui come molti ormai, cita i figli e i sistemi giovanili di guerriglia familiare.
ad ogni modo mi interessa il risultato di questa strana accoppiata, pare fortemente voluta da due giovani ragazzi che, sulla base di un sogno ovvero che Seta avesse le illustrazioni della Dautremer, hanno fregato prima uno poi l'altra facendo credere prima a uno poi all'altra che lo mandava l'altro/a. si capisce?
a Baricco hanno detto mi manda la Dautremer che è d'accordo.
alla Dautremer hanno detto mi manda Baricco che è d'accordo.
geniali, tecniche di guerriglia familiare applicate all'editoria.
ecco il libro.
l'ho riletto in poche ore, Seta non è propriamente un romanzo, è un lungo singolare racconto.
ho speso più tempo sulle illustrazioni, a volte sorprendenti.
alcune sono riferite alle situazioni e ai personaggi, altre invece sottolinenano aspetto che non hanno a che vedere con la storia ma con alcune citazioni o definizioni di Baricco.
si vede Flaubert che tira le fila di Salammbò, citato nell'introduzione.
si vedono vignette che ritraggono, in diverse riprese, il viaggio di Hervé Joncour in Giappone.
si notano Sant'Agnese e anche le larve dei bachi che producano traiettorie chilometriche di seta.
ma
l'aspetto più sorprendente e magico sono le illustrazioni della Dautremer della pioggia.
un particolare che mi fa pensare che la Dautremer abbia capito.
e forse è ciò che ha fatto decidere a Baricco che questa impresa illustrativa del suo racconto gli andava bene, anzi benissimo.
come dice lui, forse "ha fatto anche meglio di me"-

di Hervé Joncour Baricco scrive: 
Era d'altronde uno di quegli uomini che amano assistere alla propria vita, ritenendo impropria qualsiasi ambizione a viverla. Si sarà notato che essi osservano il loro destino nel modo in cui, i più, sono soliti osservare una giornata di pioggia.

la Dautremer riporta tre illustrazioni sulla pioggia, all'inizio a metà narrazione e alla fine, come si trattasse del filo conduttore della storia, la pioggia come metafora della vita di Hervé Joncour.


un libro prezioso, come la storia delicata che racconta, come le immagini umide, bagnate ed erotiche, che la arricchiscono.

mercoledì 28 dicembre 2016

Soie


Zenobia

Ora dirò della città di Zenobia che ha questo di mirabile: benchè posta su terreno asciutto essa sorge su altissime palafitte, e le case sono di bambù e di zinco, con molti ballatoi e balconi, poste a diversa altezza, su trampoli che si scavalcano l'un l'altro, collegate da scale a pioli e marciapiedi pensili, sormontate da belvederi coperti da tettoie a cono, barili di serbatoi d'acqua, girandole marcavento, e ne sporgono carrucole, lenze e gru. Quale bisogno o comandamento o desiderio abbia spinto i fondatori di Zenobia a dare questa forma alla loro città, non si ricorda, e perciò non si può dire se esso sia stato soddisfatto dalla città quale noi oggi la vediamo, cresciuta forse per sovrapposizioni successive dal primo e ormai indecifrabile disegno. Ma quel che è certo è che chi abita a Zenobia e gli si chiede di descrivere come lui vedrebbe la vita felice, è sempre una città come Zenobia che egli immagina, con le sue palafitte e le sue scale sospese, una Zenobia forse tutta diversa, sventolante di stendardi e di nastri, ma ricavata sempre combinando elementi di quel primo modello. Detto questo, è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non e in queste due specie che ha senso dividere la città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.


sabato 24 dicembre 2016

anima bianca

La neve pose una tovaglia silenziosa su tutto.
Non si sente se non ciò che accade dentro casa.
Mi avvolgo in una coperta e non penso neppure a pensare.
Sento un piacere d'animale e vagamente penso,
e m'addormento senza minor utilità
di tutte le azioni del mondo.

Fernando Pessoa


.

Valdrada

Gli antichi costruirono Valdrada sulle rive d'un lago con case tutte verande una sopra l'altra e vie alte che affacciano sull'acqua i parapetti a balaustra. Cosí il viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta. Non esiste o avviene cosa nell'una Valdrada che l'altra Valdrada non ripeta, perché la città fu costruita in modo che ogni suo punto fosse riflesso dal suo specchio, e la Valdrada giú nell'acqua contiene non solo tutte le scanalature e gli sbalzi delle facciate che s'elevano sopra il lago ma anche l'interno delle stanze con i soffitti e i pavimenti, la prospettiva dei corridoi, gli specchi degli armadi. Gli abitanti di Valdrada sanno che tutti i loro atti sono insieme quell'atto e la sua immagine speculare, cui appartiene la speciale dignità delle immagini, e questa loro coscienza vieta di abbandonarsi per un solo istante al caso e all'oblio. Anche quando gli amanti dànno volta ai corpi nudi pelle contro pelle cercando come mettersi per prendere l'uno dall'altro piú piacere, anche quando gli assassini spingono il coltello nelle vene nere del collo e piú sangue grumoso trabocca piú affondano la lama che scivola tra i tendini, non è tanto il loro accoppiarsi o trucidarsi che importa quanto l'accoppiarsi o trucidarsi delle loro immagini limpide e fredde nello specchio. Lo specchio ora accresce il valore alle cose, ora lo nega. Non tutto quel che sembra valere sopra lo specchio resiste se specchiato. Le due città gemelle non sono uguali, perché nulla di ciò che esiste o avviene a Valdrada è simmetrico: a ogni viso e gesto rispondono dallo specchio un viso o gesto inverso punto per punto. Le due Valdrade vivono l'una per l'altra, guardandosi negli occhi di continuo, ma non si amano.

lunedì 19 dicembre 2016

Olivia

Nessuno sa meglio di te, saggio Kublai , che non si deve mai confondere la città col discorso che la descrive. Eppure tra l' una e l'altro c'è un rapporto. Se ti descrivo Olivia , città ricca di prodotti e guadagni, per significare la sua prosperità non ho altro mezzo che parlare di palazzi di filigrana con cuscini frangiati ai davanzali delle bifore; oltre la grata d'un patio una girandola di zampilli innaffia un prato dove un pavone bianco fa la ruota. Ma da questo discorso tu subito comprendi come Olivia è avvolta in una nuvola di fuliggine e d'unto che s'attacca alle pareti delle case; che nella ressa delle vie i rimorchi in manovra scacciano i pedoni contro i muri. Se devo dirti dell'operosità degli abitanti, parlo delle botteghe dei sellai odorose di cuoio, delle done che ci calano intrecciando tappeti di rafia, dei canali pensili le cui cascate muovono le pale dei mulini: ma l'immagine che queste parole evocano nella tua coscienza illuminata è il gesto che accompagna il mandrino contro i denti della fresa ripetuto da migliaia di mani per migliaia di volte al tempo fissato per i turni di squadra. Se devo spiegarti come lo spirito di Olivia tenda a una vita libera e a una civiltà sopraffina, ti parlerò di dame che navigano cantando la notte su canoe illuminate tra le rive d'un verde estuario; ma è soltanto per ricordarti che nei sobborghi dove sbarcano ogni sera uomini e donne come file di sonnambuli, c'è sempre chi nel buio scoppia a ridere, dà la stura agli scherzi ed ai sarcasmi. 
Questo forse non sai: che per dire d' Olivia non potrei tenere altro discorso. Se ci fosse un' Olivia davvero di bifore e pavoni, di sellai e tessitori di tappeti e canoe e estuari, sarebbe un misero buco nero di mosche, e per descrivertelo dovrei fare ricorso alle metafore della fuliggine, dello stridere di ruote, dei gesti ripetuti, dei sarcasmi. La menzogna non è nel discorso, è nelle cose.

sabato 17 dicembre 2016

Argia

Ciò che fa Argia diversa dalle altre città è che invece d'aria ha terra. Le vie sono completamente interrate, le stanze sono piene d'argilla fino al soffitto, sulle scale si posa un'altra scala in negativo, sopra i tetti delle case gravano strati di terreno roccioso come cieli con le nuvole. Se gli abitanti possono girare per la città allargando i cunicoli dei vermi e le fessure in cui s'insinuano le radici, non lo sappiamo: l'umidità sfascia i corpi e lascia loro poche forze; conviene che restino fermi e distesi, tanto è buio. Di Argia, da qua sopra, non si vede nulla; c'è chi dice: "E' là sotto"e non resta che crederci; i luoghi sono deserti. Di notte, accostando l'orecchio al suolo, alle volte si sente una porta che sbatte.

venerdì 16 dicembre 2016

Despina

In due modi si raggiunge Despina: per nave o per cammello. La città si presenta differentea chi viene da terra e a chi dal mare.Il cammelliere che vede spuntare all'orizzonte dell'altipiano i pinnacoli dei grattacieli, le antenne radar, sbattere le maniche a vento bianche e rosse, buttare fumo i fumaioli,pensa a una nave, sa che è una città ma la pensa come un bastimento che lo porti via dal deserto, un veliero che stia per salpare, col vento che già gonfia le vele non ancora slegate, o un vapore con la caldaia che vibra nella carena di ferro, e pensa a tutti i porti,alle merci d'oltremare che le gru scaricano sui moli, alle osterie dove equipaggi di diversa bandiera si rompono bottiglie sulla testa, alle finestre illuminate a pian terreno, ognuna con una donna che si pettina. Nella foschia della costa il marinaio distingue la forma d'una gobba di cammello, d'una sella ricamata di frange luccicanti tra due gobbe chiazzate che avanzano dondolando, sa che è una città ma la pensa come un cammello dal cui basto pendono otri e bisacce di frutta candita, vino di datteri, foglie di tabacco, e già si vede in testa a una lunga carovana che lo porta via dal deserto del mare, verso oasi d'acqua dolce all'ombra seghettata delle palme, verso palazzi dalle spesse mura di calce, dai cortili di piastrelle su cui ballano scalze le danzatrici, e muovono le braccia un po' del velo e un po' fuori dal velo.
Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammelliere e il marinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti.

giovedì 15 dicembre 2016

Madonna della Misericordia

che bello stare sotto quel mantello, bello sarebbe.
grande madre che tutto proteggi.
senza troppa enfasi, solo così, maestosa e seria.
sguardo basso, non vuoi certo darti arie per questo, sei già così grandiosa e solenne di tuo, non hai bisogno d'altro. non guardi l'altissimo, guardi noi.
quanto oro ancora, il rinascimento bussa alle porte ma è ancora tempo di medio evo e di evocazioni bizantine, di immensità ieratica dell'altissimo. ma tu mi rassicuri, con quei capelli biondi che si intravedono attraverso il velo sottile e quel ginocchio lievemente piegato che muove la tua veste, sei quasi umana e allora mi metto lì anch'io, in semicerchio, prima dell'anziana rugosa nel gruppo delle donne in età crescente, prima della grande decadenza.
sarà meno doloroso sentire avvicinarsi la fine, me ne farò una ragione, non sarei quello che sono se non sapessi di dover morire.
forte della tua misericordia, madonna consolatoria che ispiri devozione, darò senso alle mie giornate.


lunedì 12 dicembre 2016

Moriana

Guadato il fiume, valicato il passo, l'uomo si trova di fronte tutt'a un tratto la città di Moriana, con le porte d'alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpentina, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa. Se non è al suo primo viaggio l'uomo sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio. Da una parte all'altra la città sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio d'immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un dritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi.

sabato 10 dicembre 2016

Armilla

Se Armilla sia così perché incompiuta o perché demolita, se ci sia dietro un incantesimo o solo un capriccio, io lo ignoro. Fatto sta che non ha muri, né soffitti, né pavimenti: non ha nulla che la faccia sembrare una città, eccetto le tubature dell'acqua, che salgono verticali dove dovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbero esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in rubinetti, docce, sifoni, troppopieni. Contro il cielo biancheggia qualche lavabo o vasca da bagno o altra maiolica, come frutti tardivi rimasti appesi ai rami. Si direbbe che gli idraulici abbiano compiuto il loro lavoro e se ne siano andati prima dell'arrivo dei muratori; oppure che i loro impianti, indistruttibili, abbiano resistito a una catastrofe, terremoto o corrosione di termiti. 
Abbandonata prima o dopo essere stata abitata, Armilla non può dirsi deserta. A qualsiasi ora, alzando gli occhi tra le tubature, non è raro scorgere una o molte giovani donne, snelle, non alte di statura, che si crogiolano nelle vasche da bagno, che si inarcano sotto le docce sospese sul vuoto, che fanno abluzioni, o che s'asciugano, o che si profumano, o che si pettinano i lunghi capelli allo specchio. Nel sole brillano i fili d'acqua sventagliati dalle docce, i getti dei rubinetti, gli zampilli, gli schizzi, la schiuma delle spugne.
La spiegazione cui sono arrivato è questa: dei corsi d'acqua incanalati nelle tubature d'Armilla sono rimaste padrone ninfe e naiadi. Abituate a risalire le vene sotterranee, è stato loro facile inoltrarsi nel nuovo regno acquatico, sgorgare da fonti moltiplicate, trovare nuovi specchi, nuovi giochi, nuovi modi di godere dell'acqua. Può darsi che la loro invasione abbia scacciato gli uomini, o può darsi che Armilla sia stata costruita dagli uomini come un dono votivo per ingraziarsi le ninfe offese per la manomissione delle acque. Comunque, adesso sembrano contente, queste donnine: al mattino si sentono cantare.

la mia vita da zucchina

certo si potrebbe pensare che un film d'animazione sia adatto solo ai bambini ma questo tutto sommato lo è anche poco. una certa crudezza che non risparmia e che non compiace non è proprio quel che ci si aspetta da un cartone animato. sembrano di pongo ma sono molto reali, i bambini dell'istituto minorile. certo, quegli occhioni che quando piangono si allagano come all'apertura di una diga sono piuttosto insoliti, ma quel parlare di sesso tipica dei bambini traumatizzati che vengono a contatto con ciò che nemmeno dovrebbero sapere in età precoce è diretto e senza scampo, è come di fatto è. la tenerezza emerge, così come anche l'amarezza della separazione. la vita è separazione, a volte i bambini lo scoprono molto prima di tanti adulti che non si separano mai. il film ha qualcosa di speciale, alcuni adulti fanno schifo, altri sono encomiabili, alcuni si sporcano la bocca e l'anima, altri si prodigano e capiscono, capiscono tutto e sanno coniugare l'ascolto alla regola, indicare che anche la cruda realtà può trovare una posizione nell'armonia.
occhioni così non se ne erano mai visti (incredibile lo sguardo incredulo e mancante di tutti davanti a una madre che protegge il proprio bambino dopo una caduta sugli sci), ma nemmeno tanta poetica inesorabile verità.


La mia vita da zucchina
Un film di Claude Barras.

giovedì 8 dicembre 2016

Venezia

– Ti è mai accaduto di vedere una città che assomigli a questa? – chiedeva Kublai a Marco Polo sporgendo la mano inanellata fuori dal baldacchino di seta del bucintoro imperiale, a indicare i ponti che s’incurvano sui canali, i palazzi principeschi le cui soglie di marmo s’immergono nell’acqua, l’andirivieni di battelli leggeri che volteggiano a zigzag spinti da lunghi remi, le chiatte che scaricano ce- ste di ortaggi sulle piazze dei mercati, i balconi, le altane, le cupole, i campanili, i giardini delle isole che verdeggiano nel grigio della laguna. 
L’imperatore, accompagnato dal suo dignitario forestiero, visitava Quinsai, antica capitale di spodestate dinastie, ultima perla incastonata nella corona del Gran Kan.
– No, sire, – rispose Marco,– mai avrei immaginato che potesse esistere una città simile a questa. L’imperatore cercò di scrutarlo negli occhi. 
Lo straniero abbassò lo sguardo. Kublai restò silenzioso per tutto il giorno. 
Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Polo esponeva al sovrano le risultanze delle sue ambascerie. D’abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporando a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sbadiglio non dava il segnale al corteo dei paggi d’accendere le fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell’Augusto Sonno. Ma stavolta Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza. 
– Dimmi ancora un’altra città,– insisteva. 
 – ...Di là l’uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante... – riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d’un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d’arrendersi. 
Era l’alba quando disse: – Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco. 
– Ne resta una di cui non parli mai. 
Marco Polo chinò il capo. 
– Venezia, – disse il Kan. 
Marco sorrise. 
– E di che altro credevi che ti parlassi? 
 L’imperatore non batté ciglio. 
– Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome. 
E Polo: – Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. 
 – Quando ti chiedo d’altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia. 
– Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia. 
– Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia cosí com’è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei. 
L’acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell’antica reggia dei Sung si frantumava in riverberi scintillanti come foglie che galleggiano. 
– Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano, – disse Polo. – Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d’altre città, l’ho già perduta poco a poco.

Soie


lunedì 5 dicembre 2016

Basquiat e il tempo di esistere

mi sono mossa un po' dubbiosa, la domanda è ovviamente se queste composizioni valgano il merito di arte, di una mostra e di tanta fama.
divorato dal successo, e ad esso inadeguato, è morto a 27 anni, annegato nell'eroina nelle sue vene.
il suo godimento, famelico e istantaneo come detta la legge imperativa del nostro tempo, l'ha portato fino al fondo del godere, fino alla morte seppure eccentrico, esaltato, arricchito a riscatto di una miseria infantile umiliante.
componeva con la tv accesa, soprattutto i cartoons erano il suo sottofondo.
il suo prodotto sembra dettato dall'istante, dall'ispirazione via cavo, simboli di morte e pezzi anatomici (pare ispirati a un compendio di anatomia che la madre gli regalò durante una degenza in ospedale, a 8 anni, dopo un grave incidente), parole, cancellature (che esaltano quel che si cancella), mostri, dentature sataniche, animali mortiferi, prezzature in dollaroni. ossi di cane, scheletri a pezzi, anche duffy duck.
diciamolo, un inferno.
un'infanzia derelitta di abbandono e miseria, il destino da maledetto vissuto, incarnato, interpretato senza scampo, ma sullo sfondo di un infantilismo grafico disarmante. a me sembra il prodotto di un inconscio imbizzarrito, e lo ringrazio della sua tragica testimonianza.

graffitismo o arte, spray e spennellate pesanti, mi da l'idea di una breccia nella mente che trova il tempo necessario a mettersi su tela, quel tempo che basta, uno iato improvviso da cui fuoriesce una specie di tratto vomitato, uno sgorbio pieno di hate e hurry, rabbia e orrore, pupazzi infantili ma satanici, colore e tanto tantissimo nero.
personalmente riconosco in lui l'andamento della tragedia greca e un talento misterioso fuso a una potenza distruttrice inarrestabile. anche in lui, come nel leggere una poesia, sono attratta da un verso pittorico, in ogni opera esposta ho trovato qualcosa di geniale, un'espressione unica e singolare, qualcosa di irripetibile. una furia espressiva che non sarebbe potuta, comunque, resistere ancora a lungo, qualcosa legato al suo tempo, al tempo logico e al tempo di un rapido fulmineo e transitorio esistere.

domenica 4 dicembre 2016

un'altra pagina del vento

Leggeri ormai sono i sogni,
da tutti amato
con essi io sto nel mio paese,
mi sento goloso di zucchero;
al di là della piazza e della salvia rossa
si ripara la pioggia
si sciolgono i rumori
ed il ridevole cordoglio
per cui temesti con tanta fantasia
questo errore del giorno
e il suo nero d'innocuo serpente

Del mio ritorno scintillano i vetri
ed i pomi di casa mia,
le colline sono per prime
al traguardo madido dei cieli,
tutta l'acqua d'oro è nel secchio
tutta la sabbia nel cortile
e fanno rime con le colline

Di porta in porta si grida all'amore
nella dolce devastazione
e il sole limpido sta chino
su un'altra pagina del vento.

faccio così, ormai, quando leggo una poesia.
leggo, se capisco bene, altrimenti pazienza.
perchè?
perchè quello che cerco sono le parole.
me ne potrebbe anche bastare una.
una da sola.
o una frase.
c'è qualcosa che mi folgora, in una poesia, è uno squarcio
è un attimo
è un frammento di linguaggio che mi apre una porta della mente
un'altra pagina del vento è un capolavoro, un monumento poetico in 5 parole, che basta a tutto
nella vita potrebbe non servire altro
è un'apertura nel reale che spalanca orizzonti di immaginario
è come una porta nel tempo, che mi fa passare altrove
è un altrove.

questa poesia è piena zeppa ridondante di segni di immenso
a ognuno la sua preferita.

Andrea Zanzotto
Nel mio paese
da "Dietro il paesaggio".

venerdì 2 dicembre 2016

Anastasia

Di capo a tre giornate, andando verso mezzodì, l'uomo s' incontra ad Anastasia, città bagnata da canali concentrici e sorvolata da aquiloni. Dovrei ora enumerare le merci che qui si comprano con vantaggio: agata onice crisopazio e altre varietà di calcedonio; lodare la carne del fagiano dorato che qui si cucina sulla fiamma di legno di ciliegio stagionato e si cosparge con molto origano; dire delle donne che ho visto fare il bagno nella vasca d'un giardino e che talvolta invitano - si racconta - il passeggero a spogliarsi con loro e a rincorrerle nell'acqua. Ma con queste notizie non ti direi la vera essenza della città: perché mentre la descrizione di Anastasia non fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbligarti a soffocarli, a chi si trova un mattino in mezzo ad Anastasia i desideri si risvegliano tutti insieme e ti circondano. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento. Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice: se per otto ore al giorno tu lavori come tagliatore d'agate, onici , crisopazi, la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo.

giovedì 1 dicembre 2016

Soie

Zoe

L'uomo che viaggia e non conosce ancora la città che lo aspetta lungo la strada, si domanda come sarà la reggia, la caserma, il mulino, il teatro, il bazar. In ogni città dell'impero ogni edificio è differente e disposto in un diverso ordine: ma appena il forestiero arriva alla città sconosciuta e getta lo sguardo in mezzo a quella pigna di pagode e abbaini e fienili, seguendo il ghirigoro di canali orti immondezzai, subito distingue quali sono i palazzi dei principi, quali i templi dei grandi sacerdoti, la locanda, la prigione, la suburra. Così - dice qualcuno - si conferma l'ipotesi che ogni uomo porta nella mente una città fatta soltanto di differenze, una città senza figure e senza forma, e le città particolari la riempiono. Non così a Zoe. In ogni luogo di questa città si potrebbe volta a volta dormire, fabbricare arnesi, cucinare, accumulare monete d'oro, svestirsi, regnare, vendere, interrogare oracoli. Qualsiasi tetto a piramide potrebbe coprire tanto il lazzaretto dei lebbrosi quanto le terme delle odalische. Il viaggiatore gira gira e non ha che dubbi: non riuscendo a distinguere i punti della città, anche i punti che egli tiene distinti nella mente gli si mescolano. Ne inferisce questo: se l'esistenza in tutti i suoi momenti è tutta se stessa, la città di Zoe è il luogo dell'esistenza indivisibile. Ma perché allora la città? Quale linea separa il dentro dal fuori, il rombo delle ruote dall'ululo dei lupi?

Alba

Alba si muove elegante e leggiadra, ebbra di profumi e promesse, sul piano superiore dell'atmosfera l'aria conferisce a palazzi, insegne e negozi la consistenza del sogno e della liberazione, confonde l'olfatto con aromi di cioccolato e delizie al tartufo, inganna con immagini artefatte e false ma per chi si muove nella porzione sottostante, negli anfratti, negli angoli, nelle cantine, negli scantinati, nelle cucine, a contatto con calori e manovre, l'aria si fa irrespirabile e un altro volto si presenta, cupo e beffardo, traditore e puzzolente, gli scarti abbondano e la verità affiora. i cittadini di alba possono vivere nell'illusione del bello ben sapendo che non somiglia alla vita oppure tornare a contatto con il reale, scorticandosi la pelle e con le mani sporche di unto.

era surreale la domanda del carabiniere: "che macchina fotografica è la sua? che modello è? è una fotografa professionista?".
uno squarcio, un varco nella palude nebbiosa nel quale ero immersa.
il passaggio dal bello al brutto, dalla pace alla guerra, dal sereno all'alluvione, è un attimo.
un bel fine settimana, le Langhe sono un paese delle meraviglie, tutto è godimento, tra bellezza naturale, culturale e cibo, c'è da perdere la testa.
inoltre eravamo partiti convinti di morire divorati da una crepa del sottosuolo nel mezzo di una tempesta di acqua o risucchiati dell'esondazione del Tanaro, e invece, guarda, uno dei più bei fine settimana degli ultimi tempi, sole cristallino e caldo, fino a 15 gradi, che fortuna sfacciata.
inebriati dal profumo del tartufo alla Fiera di Alba, mi ritrovo incredula a ravanare dentro il mio zaino, una, due, tre volte, volevo comprare, più modestamente, un assaggio di formaggio ubriaco al barolo.
quello che penso in queste occasioni è che vengo punita, anche se non so per che cosa. vaglio rapidamente la mia vita degli ultimi tempi e mi dico: cosa ho fatto di male? è un automatismo della mia mente, non posso farci nulla, mi rubano il portafoglio nel primo week end di riposo che mi prendo da una vita, non ho mai più fatto un men che minimo viaggio da anni, la vita non me lo permette più travolti da questa crisi globale che toglie il lavoro, e, in un attimo, il destino mi si rivolta contro.
è colpa mia, pago degli errori, dio mi punisce.
di cosa?
un retaggio vigliacco bastardo della mia educazione?
cinque anni fa da Istanbul rientro di corsa a Milano, dopo solo un giorno di permanenza, per un polso rotto, non il mio, ma non fa differenza.
stessa percezione, di un destino beffardo che mi piega quando sono felice.
e il carabiniere, mentre vago nelle lande desolate della mia mente, in un mondo sottosopra abitato da mostri, mi ripesca con una domanda assurda.
l'altro, il capo, mi dice che ho l'aria sveglia, da cittadina, lei è di Milano!!, com'è possibile che sia così sprovveduta? sembrava certo che si trattasse di un contrattempo, certo anche che avrebbero ritrovato il mio oggetto prezioso, come altre volte. a ottobre, sempre alla fiera del tartufo, è stata una carneficina di portafogli. li hanno ritrovati abbandonati e svuotati, a bizzeffe. 
è stato così, ma tant'è. il destino si è divertito a farmi male, ci sto male ancora adesso, un'amarezza furibonda, una nausea sotterranea, un'idea  di inutilità e di sopraffazione mi mangiano le giornate.
la mostra di Balla alla fondazione Ferrero (si cammina respirando cioccolato) è stata bella, davvero bella, ma navigavo nella melma della mia nevrosi.
ci sono quadri di grande intensità, a testimonianza di un impegno sociale e di uno sguardo umano e fraterno, e, come Boccioni, Balla parte dal figurativo, si esalta con la rivoluzione del futurismo che scardina parole e tratti, e torna alle figure della tradizione.
anche quello, il futurismo, è stato uno squarcio, veloce e pazzo, pazzo com'è il mondo.