bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 30 novembre 2017

Molly bloom - esercizio n.2

Non sarebbe mai uscita senza trucco, non avrebbe mai rinunciato al suo appuntamento settimanale con il parrucchiere per domare i suoi capelli crespi. Era piccola di statura, aveva mani e piedi piccoli, e un seno generoso di cui non faceva certo mistero ma con una grazia garbata. Stava al mondo mossa da una curiosità impagabile, diceva sempre si, a qualsiasi invito: si certo, ci sarò. Ma non era frivola, era un medico, aveva lottato per la sua autonomia.
In tailleur, in camice, nella sua voce, era una donna elegante, sempre.


il testo di riferimento era una chicca di Alice Munro.

Era una donna sottile e abbronzata, in abito viola, con capelli scuri raccolti da un'alta fascia dello stesso colore. Bella, ma con piccole pieghe di noia e disapprovazione che le appesantivano gli angoli della bocca. Lasciò quasi tutto nel piatto, spiegando di essere allergica al curry.
(Alice Munri, Passione)

pare che l'esercizio sia andato bene, mi si rimprovera di non aver inserto un atto fisico specifico, come richiesto nelle note. 
ovvero: a partire dai miei depositi in memoria dovevo ricostruire, con l'immaginazione, il ritratto di una persona inserendo, in 500 battute, capigliatura e abiti, lineamenti fisici, un tratto psicologico distintivo, un'azione/comportamento significativo.
è vero, sono stata sul condizionale, quel "sarebbe" ha lasciato l'atto nell'ipotetico divenire.
farò di meglio. 

quella donna, elegante sempre, per inciso, era mia madre.

lunedì 27 novembre 2017

dove il sacro rompe i confini

Sento un’aura simile, un carisma nel dolce cantilenare del Padre Nostro nella lingua di Cristo sull’Eufrate, nell’emergere dell’armonia delle quinte dalla tempesta di voci degli hassidim di Rabbi Nachman in Galilea, nei vocalizzi ipnotici e nei sospiri profondi dei sufi chishti di Kabul, nelle preghiere dello shabbat ad Antiochia.



All’inizio documentavo piccole e grandi religioni all’ombra di guerre antiche e recenti, e sulle loro ceneri. Poi, a un certo punto sono state le mie immagini a cercarmi, a parlare da sole, raccontando delle preghiere e dei sogni, dell’acqua e del fuoco, della memoria, del teatro della festa dei morti, della via dei canti. Ora quello che faccio è una cosa semplice, quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della torre di Babele. Forse questo può fare il fotografo, raccogliere tessere di un mosaico che non sarà mai completo, metterle nell’ordine che gli sembra giusto, o forse solo possibile, sognando quell’immagine intera del mondo che magari da qualche parte c’è, o forse c’era e s’è perduta, come la lingua di Adamo.




























Da molti anni – scrive Bulaj – viaggio lungo i confini dei monoteismi, in oasi d’incontro assediate da fanatismi armati, nelle patrie perdute dei fuggiaschi di oggi. Asili delle fedi, come il Bosforo, sul quale le donne armene e turche si addormentano insieme accanto al sepolcro di un santo bizantino, praticando l’incubatio, di cui si scriveva già prima di Erodoto, anestetizzando con il sonno la memoria dello sterminio che le divide. Come i monasteri nel deserto egiziano, attaccati dai fanatici. Come il Kosovo, dove i musulmani venerano lo sfortunato santo dei serbi re Stefano, accecato dal proprio padre e ucciso dal figlio. Come Damasco, dove cristiani, musulmani, sciiti e sunniti pregano fianco a fianco nella moschea degli Omayyadi, presso il catafalco di Giovanni Battista e sotto al minareto di Cristo. Come il monastero Deir Mar Musa, le cui pietre sono state posate nuovamente da cristiani e musulmani, perché qui hanno pregato insieme per un millennio, nella stessa Siria.







ho cercato di sentirla parlare, allo Spazio Forma, ma, al solito, il tutto era organizzato male, nella noncuranza più offensiva.
ho carpito stralci di parole, ho visto le foto in punta di piedi, indietro di venti metri, la più piccola tra una folla di esclusi. 
questa fotografa mi piace, mi piace sentirla parlare, perché sa parlare.
un fotografo deve sapere quello che fa. e deve saperlo bene, e deve saperlo spiegare.
questa è la differenza. 

giovedì 23 novembre 2017

un bell'Enrico IV

pare che io sia l'unica a pensarla così, oggi Magda Poli scrive sul corriere inneggiando al miracolo e consegnando un bell'8, la Repubblica dice: geniale.
a me ha fatto schifo, vedi un po'...

Buonasera, 
fermo restando che siete un bel teatro di Milano, vi seguo da decenni, dai tempi del Pier Lombardo, con interesse e riconoscenza per il lavoro che svolgete, lo settacolo di stasera "Enrico IV" è stata una vergognosa oscenità che non si può perdonare. 
Immagino che ci sia un affettuoso legame che vi lega a Carlo Cecchi, che è stato un magnifico attore, ma quando i giochi sono finiti, si chiudono. 
Mi domando come sia possibile che consentiate di mandare in sena un testo così volgarmente violentato e massacrato, Il testo è stravolto da incursioni personalistiche di pessimo gusto, un gioco di ubriacatura di Carlo Cecchi (e questa sera era certamente alterato o in cattive condizioni di salute) che perde il senso del gioco delle parti e si trasforma in uno sproloquio, improvvisato e straparlato, di un attore che non sa più quello che fa. Certamente non sa cosa dice, inventa frasi, le balbetta, certamente mette in grave imbarazzo gli attori che lavorano con lui che, questa sera, suggerivano o inventavano al momento o drammaticamente stavano zitti per lunghe pause, spiazzati dalle invenzioni fuori testo dell'attore. L'uso delle parolacce poi è una immondizia, il testo inizia subito con un "non me ne frega un cazzo" e finisce con una "troia baldracca", non c'è peggiore asservimento allo sbandamento di godimento fuori senso dei nostri tempi che accondiscendere, a teatro poi non ne parliamo, a un eloquio volgare e osceno. Penso che Pirandello meriti rispetto, non un blateramento scoordinato e infarcito di volgarità. 
Era pieno di giovani, che ridono sguaiati alle cose oscene ma non sono scemi, anzi, per loro è stato un pessimo esempio di teatro, speriamo che si rifacciano con testi esemplari e attori che rendono giustizia alla serietà del loro lavoro.

mi hanno risposto che, "non si offenda", non so leggere il testo, che bisogna essere specialisti (ma poi lo scrivente ha fatto un lapsus degno di un manuale di psicoanalisi), che, appunto, non ho le credenziali.
leggendo in giro l'entusiasmo potrebbe anche venirmi il dubbio (ma quante sono le cose che io non condivido con il mondo??) ma credo di poter distinguere tra una messa in scena di qualità e una farsa senza spessore, tra la maestria dell'uso raffinato dell'ironia e un balbettamento ubriaco e volgare sull'happy hour (happy hour, citazione testuale inserita nell'Enrico IV di Pirandello, mica cotiche). 

Molly Bloom - esercizio n.1

Leggi questo testo:

Il capitano Bredon era piuttosto un buon diavolo. Quando Angus Munro, direttore del Museo di Kuala Solor, gli parlò del suo nuovo assistente, Neil Mac Adam, che doveva arrivare a Singapore e scendere al Van Dyke Hôtel, e lo pregò di stare attento che il giovanotto non si cacciasse in qualche pasticcio, egli promise che avrebbe fatto del suo meglio. Il capitano Bredon comandava il Sultan Ahmed, e andava sempre al Van Dyke quando si trovava a Singapore: era sposato con una giapponese che aveva camera fissa là: Come, dopo un giro di due settimane lungo le coste del Borneo, tornò a Singapore, l'olandese che dirigeva l'albergo gli disse che Neil era arrivato da due giorni. il capitano lo trovò seduto nel polveroso giardinetto dell'albergo, intento a leggere alcuni vecchi numeri dello Straits Times.

Riscrivilo connotando a seconda dei seguenti stati psichici: angoscia, terrore, solennità, furore, orrore, noia, gioia.
Scegli lo stato psichico su cui imperniare l'esercizio. Il testo - che è di 804 battute- deve diventare di 1500 battute.

Il mio testo:

 Van Dyke Hotel, Singapore. Le luci verdi e lampeggianti del neon dell’insegna si riflettono sul suo viso, quella leggera fotofobia quasi silente torna a dargli fastidio, ruota la testa di scatto, come avesse ricevuto uno schiaffo.
 Conosce Singapore, è una città sinistra, come ci mette piede sente la terra scivolosa sotto i piedi, ha paura di cadere, cammina come sotto il segno di una premonizione, prima o poi qualcosa gli succederà, a Singapore. E’ lì per quel lavoro, Angus, il direttore del museo di Kuala Solor, gli ha fatto capire che se vuole cominciare a combinare qualcosa deve darsi da fare. Deve incontrare il sig. Bredon, dice che è un brav’uomo, che avrà cura di lui.
 Entra, e inciampa. E’ sudato, si muove scomposto. Mentre si risolleva accertandosi che nessuno si sia accorto di lui, si ripete: “andrà tutto bene”, ma non ci crede. Una donna giapponese lo nota, lo fissa con uno sguardo spento, gli insinua un dubbio, una domanda scomoda, qualcosa che delle donne non vuole sapere. Si fa forza e si dirige al bancone, il direttore dell’hotel è un olandese che parla con gli occhi bassi, sembra non poter distogliere lo sguardo dal cellulare, un’aura ipnotica lo avvolge.
 “Non ci sono posti sicuri” pensa, e si asciuga le mani sul vestito. Si siede sulla panchina che l’olandese gli ha indicato, è sollevato, ha un posto dove stare, può prendere in mano una rivista, fingere che lo scorrere del tempo sia una legge della fisica e non una condanna.
 “Cerco il Sig. Mc Adam, è arrivato?”, chiede un uomo appena entrato.
 Neil si volta di scatto, come avesse ricevuto uno schiaffo: “Sono io”.

il tutor mi ha detto che, insomma, la trasposizione al tempo presente si nota poco, poco è cambiato, e che tutti abbiamo fatto ruotare il testo sulla figura di Neil.
però si capisce che parlo di angoscia, il testo è scritto bene, il finale è aperto. promossa.

io mi sono attenuta alle indicazioni, già pensavo di strafare, non pensavo di dover scrivere un racconto vero e proprio, mutare il punto di vista, stravolgere l'ambientazione.
mi dicono: scegli un tono del racconto, entro 1500 battute.
e io mi sono detta: esagerata, fuori tema come al tema di maturità.

lunedì 20 novembre 2017

where gods wisper


le uova di Fulvia Levi Bianchi



e poi ci sono, sempre alla BAG, anche le uova, di Fulvia Levi Bianchi.
vogliamo chiederci cos'è un uovo?
la perfezione della forma?
la nascita?
la vita?
dai questa volta la risposta è facile, come ci insegna la Pala di Brera di Piero della Francesca.
sembro ironica ma sono seria, anche le uova di Fulvia mi sono piaciute.
una vita dedicata alla rotondità generativa.











venerdì 17 novembre 2017

i muri di Ljubodrag Andric















 







cosa mai ci sarà in un muro da fotografare?
è una domanda legittima e non ho una risposta.
mi piacciono le foto di Monica Bulaj che si ispira ai sussurri di dio nella mente dei popoli, com'è possibile che mi incuriosiscano dei muri?
eppure, qualcosa ha attratto la mia attenzione, durante la visita alla BAG, Bocconi Art Gallery.
ho scoperto che la manifestazione si ripete da ormai 10 anni, un solo giorno di esposizione, quindi esposizione evento, apertura al mondo del celeberrimo ateneo, ma guarda, e io dov'ero?
è stato bello passegiare in Bocconi, nella sua area più moderna e recente, e scoprire opere di arte moderna. il problema è che eravamo tutti vecchi, un esercito di adulti vecchi e decrepiti, io di studenti non ne ho avvistato manco uno. il bocconiano resiste al richiamo del bello. ho anche scritto al nipote fresco di iscrizione: ma dove sei?, ci sei? manco mi ha risposto.
tornando ai muri, le fotografie di Ljubodrag Andric sono come dei grandi punti interrogativi sulla mia faccia, nella mia retina, e, se vogliamo pensare che ci sia, nel mio cervello. 
è un'operazione in sottrazione, un muro non ha nulla da dire, ma una serie di muri probabilmente si.
è come uno schiaffo in faccia, come se mi ricordasse che i muri esistono e possono perfino essere diversi, diversificati, ma guarda, anche fotografati.
un muro, cos'è?

giovedì 16 novembre 2017

Libertà- qualche cosa di rettilineo e di crudele che si vede nei volti delle suore anziane che comandano

non avevo idea di cosa mi aspettasse quando ho preso questo audiolibro.
sapevo solo che ad ogni intervista in tema Beppe Severgnini diceva che questo audiolibro era il più bello che avesse ascoltato.
nella prefazione l'autore parla di poesia.
e, anche lì, non capivo.
poesia?
ebbene si, ha ragione, è poesia.
perché i Sillabari di Parise non sono racconti.
sono un'estensione in prosa della poesia.
non c'è una storia, c'è, apparentemente, una trama, ma la questione non si dipana in una narrazione, ma in una trovata poetica per ogni singolo tema trattato.
il filo conduttore non è logico, è poetico.
è una sorpresa.
è un piccolo mistero che si disvela attraverso una parola spesso geniale.
in ogni tema ce n'è una, o più di una, che centra l'obiettivo in modo sorprendente ma di lato, di nascosto, inaspettatamente, in controluce.
questa è poesia, ha ragione Parise.
qui qualcuno, con "qualche cosa di rettilineo e di crudele che si vede nei volti delle suore anziane che comandano", "sorride politicamente" al pensiero di un giovane pittore che "emanava un odore di pane crudo lievitato e pronto per essere messo al forno" e che "come tutti coloro che sono belli, giovani, e appartenenti a una grande e ricca famiglia o a un grande e ricco paese, era povero ma felice. Egli, come tutte le persone felici, sapeva a malapena di essere povero e non sapeva affatto di essere felice" e che in "qualche cosa l’aveva attratta in modo quasi scandaloso".

Libertà
Un giorno di primavera un giovane pittore americano di nome Tom Corey pedalava “veloce come il vento” su una bicicletta da corsa giallo canarino sotto gli alti pini di Villa Borghese a Roma. Il cielo era (naturalmente) azzurro, però più celeste che azzurro con nubi e al centro delle nubi una sfumatura grigia e dentro la sfumatura grigia un piumino rosa come di cipria. Tom (naturalmente, anche lui) portava scarpe da tennis, blue-jeans e una ventosa camicia rossa amaranto di seta lucida con larghi e grassi fiori blu dipinti a mano, comprata per un dollaro in un magazzino di stracci cinesi alla Quarantaduesima Strada di New York. Era biondo, aveva occhi celesti, era magro e non troppo alto e simile a un ballerino. Pedalava come un ragazzo, con foga ed era già tutto rosso in faccia, un po’ sudato, così emanava un odore di pane crudo lievitato e pronto per essere messo al forno. 
Correndo attraversava zone d’ombra un po’ cupe, coperte di vegetazione nerastra e umida da cui occhieggiava il tufo e anche il muschio, e in quelle zone si rinfrescava del sole ventosino ma scottante che gli batteva in piena faccia in altre zone aperte. Rideva o sorrideva, mostrando i bei denti bianchi di cane con qualche guizzo di saliva e di luce e qualche volta socchiudeva gli occhi, frenava l’andatura “a razzo” o addirittura si fermava e, sempre con gli occhi socchiusi, guardava: una statua, una fontana, un prato sotto gli ombrelli dei pini, la luce che filtrava e i differenti toni di verde, dal verde pisello al grigio, del prato sottostante. 
Si fermò a lungo sotto la casa di Raffaello, indeciso, con la punta di un piede per terra, immobile e teso con gli occhi sempre più socchiusi e mordendosi i baffetti: poi riprese la corsa ma soprappensiero, in discesa, costeggiando piazza di Siena. Lo sguardo volò dentro quel catino in ombra, si fermò, appoggiò la bicicletta gialla contro una siepe (la bicicletta affondò dentro l’oscurità verdastra), levò da dietro il sellino una cartella e una scatoletta di legno e con questi oggetti di scolaro sotto il braccio e in mano fece pochi passi fino a sovrastare l’ampia conca del maneggio. Qui si sedette sul muro, appoggiò la cartella, ne levò un foglio di carta gialla da macellaio che distese sulla cartella: la fissò con due mollette di lato e aprì la scatola dei pastelli piccoli e ridotti a tanti pezzi. Inutile dire che anche Tom, come tutti coloro che sono belli, giovani, e appartenenti a una grande e ricca famiglia o a un grande e ricco paese, era povero ma felice. Egli, come tutte le persone felici, sapeva a malapena di essere povero e non sapeva affatto di essere felice. Mangiava sì e no una volta al giorno, dormiva in un buco della suburra circondato da vecchi muri romani grondanti sangue e morte (ma egli, giustamente, scambiava sangue e morte per storia) e spesso, alla sera, ballava dei boogie e dei rock con certe ragazze negre di New York (indossatrici) emanando quell’odore di pane, trattandole come puro materiale ritmico ed esse erano ben felici di farsi trattare così. 
Parlava qualche parola di italiano, ma pochissime e con una stupita grazia miagolante che completava il lessico. Era pittore di paesaggi e di interni e ogni giorno con la sua bicicletta giallo canarino usciva per Roma o entrava nei palazzi con i suoi piccolissimi gessi: stava lì un’ora, anche due se non cambiava troppo la luce, ma se la luce mutava e non era più così felice o così infelice come la sua felicità voleva che fosse se ne andava dopo un quarto d’ora; tornava il giorno dopo quando il sole era alto oppure radente. 
Gli piaceva trovare il colore delle cose che passano, soprattutto in quei momenti di luce infelice al mattino, quando il sole è alle spalle, non ha ancora scaldato i muri, gli alberi e i prati e tutto è ancora avvolto da qualche cosa di diurno che però appartiene più alla notte che al giorno. Quella totale mancanza di luce diretta, o quella lampeggiante o radente durava poco, ecco la ragione per cui andava e veniva. Allora non soltanto la carta gialla da macellaio su cui sfregava i gessi assorbiva quell’umidità e quel freddo ma anche la sua pelle e i suoi muscoli, e tutto ciò veniva reciprocamente trasmesso dalla carta ai muscoli e dai muscoli alla carta. 
Quel giorno di primavera e il luogo scelto erano uno di questi. Tom lavorava svelto e un po’ corrucciato e miope, alzando gli occhi aspettava che una di quelle nubi bianche grigie e rosa passasse sul sole. Siccome le nubi correvano questo accadeva spesso e Tom lavorava più svelto con i suoi gessetti abbassando gli occhi fino al foglio. 
Poco distante da lui stava seduta su un seggiolino pieghevole una donna non vecchia ma quasi vecchia, con le gambe tutte fasciate da grosse calze elastiche grigio rosate che le stringevano, vicino alla donna due giovanotti stavano appoggiati ad una macchina blu senza parlare e fumando. Uno di loro aveva una rivoltella infilata nella cintura. 
La donna osservava Tom che dipingeva, lo sbirciava ogni tanto e sempre più spesso con moltissima curiosità e con quella sorta di indiscrezione innocente che hanno sia i vecchi che i bambini. Nel frattempo pensava a certe vicende politiche italiane di cui era stata non soltanto protagonista (si trattava di un senatore) ma anche testimone. Il corpo della donna era forte e grosso come le gambe fasciate ma non grasso, come quello di una contadina, e come una contadina molto pulita e a posto era vestita e anche pettinata. Anche il volto era di una contadina ma, a differenza di una contadina quale doveva essere stata, il volto era offuscato da qualche cosa, qualche cosa che doveva esserci stato un tempo non lontano, qualche cosa di rettilineo e di crudele che si vede nei volti delle suore anziane che comandano. 
Tuttavia la donna guardava Tom come se egli avesse o mostrasse nel modo di muoversi e di essere e di sfregare i gessetti sulla carta una cosa che lei non conosceva, non aveva visto mai nella sua vita. Si alzò molto lentamente dalla seggiolina pieghevole, aveva un bastoncino nero e sottile con il manico curvo, a cui si appoggiò. I suoi piedi erano grossi, bitorzoluti e incerti dentro scarpe nere che parevano fatte apposta, si avvicinò a Tom e guardò attentamente prima lui da vicino, poi quello che stava facendo. Per un istante Tom fu distratto da un passero che si appoggiò a un angolo della cartella allargando e chiudendo le ali come un ombrellino e la donna approfittò di questo momento per dire: «Non la disturbo?». 
Tom ebbe un piccolo soprassalto, guardò dietro di sé la signora e in quel suo modo un po’ miagolante e ridendo, allargando le braccia, le mani e le dita in un gesto di benvenuto, nervoso e timido, come volesse abbracciarla, e anche arrossendo, disse: 
«Oh, no, prego.» Fece una pausa e disse ancora «prego». 
 «Lei è un artista, un pittore» disse la donna e rivelò una voce bella, un po’ maschile. 
 «Sì» disse Tom e arrossì un’altra volta. 
 «Un pittore straniero?» 
 «Americano» disse Tom. 
 «Ah, americano» aggiunse la donna e piegò lievemente il capo in modo gentile e come rispettoso. Ci fu una pausa durante la quale Tom non sapeva che cosa dire essendo sempre la donna in piedi e non trovava in quel momento le parole in italiano per aggiungere qualche cosa alla conversazione appena iniziata. Ma la donna, forzando la sua voce lenta e autoritaria ad essere il più gentile possibile disse «buongiorno» e si allontanò verso l’automobile blu. Due giovanotti l’aiutarono a salire e l’automobile partì lentamente. 
Passarono i mesi, Tom non rivide più la donna con le gambe fasciate e la dimenticò completamente, non così la donna che di tanto in tanto passando con la macchina e le due guardie del corpo per le sue passeggiate a Villa Borghese lo intravedeva dal finestrino. Dava ordine di rallentare, guardava un momento, poi l’auto ripartiva silenziosa verso il Senato. Nonostante la malattia e l’età la donna era considerata sempre battagliera: non più come una volta ma rappresentava, come spesso succede in Italia, una figura di definitivo prestigio politico. Tom questo non lo sapeva e probabilmente non lo avrebbe saputo mai, tanto lontana era la sua vita, da quella politica italiana. 
Ma la donna ricordava Tom e il suo ricordo era sempre legato a qualche cosa che l’aveva attratta in modo quasi scandaloso, così pensava tra sé, ma purtroppo impossibile da capire tanto che spesso se lo chiedeva senza ottenere nessuna risposta. Le venne in aiuto alcuni anni dopo una intervistatrice, giornalista di un mensile femminile che, tra le altre, le pose la seguente domanda: «Senatrice, come definirebbe la libertà? Rosa Luxemburg…». 
«Lo so, lo so…» interruppe la donna, sorrise “politicamente” e alzò leggermente la mano. Il sorriso scomparve, la sua voce tornò un po’ maschile. 
«La libertà è il sociali…» e qui si interruppe un istante. “La libertà è un pittore americano a Villa Borghese” avrebbe voluto dire. Fini la frase: «…il socialismo, il nostro socialismo».

Da I sillabari, Goffredo Parise

venerdì 10 novembre 2017

Italia - Tutti dicono che l’onore non conta niente e invece conta più della vita

Un giorno di settembre sotto un’aria che sapeva di mucche e di vino due italiani di nome Maria e Giovanni si sposarono in una chiesa romanica già piena di aria fredda con pezzi di affreschi alti sui muri di mattoni: raffiguravano il poeta Dante Alighieri, piccolissimo, inginocchiato davanti a un papa enorme e molto scrostato, seduto sul tono. C’era anche un cagnolino nero. La chiesa appariva in quegli anni lontani solitaria nel mezzo di una pianura di granoturco e aveva accanto uno stagno con anatre e oche grandi e piccole. 
Entrambi erano giovani, Maria aveva 18 anni, Giovanni 25, si conoscevano fin da ragazzi, anche le famiglie si conoscevano e avevano una discreta fiducia fra loro. Il padre di Giovanni disse al figlio, subito dopo le nozze: “Non fidarti di nessuno. Tutti dicono che l’onore non conta niente e invece conta più della vita. Senza onore nessuno ti rispetta”. Strano discorso il giorno delle nozze ma Giovanni capì benissimo anche senza capirlo il discorso del padre, che tutti credevano un bonaccione. Giovanni e Maria erano visibilmente italiani, bruni con bei denti bianchi, Maria aveva seni molto belli e capelli castano scuri che da ragazza teneva pettinati in due lunghe e grosse trecce. Poi li tagliò corti. Giovanni era di statura piccolo e tutto muscoli e nervi; Maria, pure non essendo affatto grassa era un poco rotonda, nel volto, nei seni, nel sedere; ma aveva la vita stretta e il punto esatto della vita sembrava come una piega di carne da cui partivano le anche, il ventre convesso ed elastico e il sedere alto sulla curva della schiena. La sua carne era solida e i peli, le sopracciglia, le ciglia erano nerissimi, ricciuti, duri e lucenti. Aveva però mani piccole e magre. 
Non ricordavano più quando avevano cominciato a “fare peccato” ma certo erano giovanissimi, Maria avrà avuto 13 anni. Si baciavano molto nelle sere di primavera, accanto a piccole sorgenti in una cava di tufo, nascoste tra ciuffi di capelvenere che sgocciolavano e sapevano odore di umidità e di terra. Certe volte, di giorno, durante l’estate, andavano a fare il bagno in un torrente molto vasto con ciottoli arroventati e pozze gelide, tra sole e cespugli coperti di polvere bianca. Deve essere stato tra quei cespugli e forse vicino alla sorgente, ma tutto è molto confuso dato il tempo passato. Maria pianse un paio di volte, non si sa bene perché dal momento che lo stringeva molto, abbracciata con le braccia e anche con le gambe tra le stelle e lo sgocciolio del capelvenere. 
Cominciarono ad amare molto i loro odori e sapori. Spesso, d’estate, Maria aveva la pelle che sapeva di sale e Giovanni, dopo il bagno nel torrente aveva i capelli profumati di cioccolato. Molti erano gli odori e i sapori che piacevano uno all’altro come l’odore delle barene nella laguna di Venezia, il sapore del cocomero, più di tutto il spore del pane e quello delle patate fritte. Erano troppo giovani: non avevano ancora imparato ad amare l’odore delle erbe, la mentuccia, il rosmarino, la salvia, l’aglio, avrebbero cominciato ad amarli più tardi, in età matura. In quell’età cominciarono a mangiare più spesso pesce e a provare piacere nei mari profondi del sud dell’Italia. 
Avevano molto il senso dell’onore di cui aveva parlato il padre di Giovanni il giorno del matrimonio: l’onore significava la fedeltà uno all’altro, il non dire mai nulla di sé che non fosse stato uno dei due e non ad altri. Per antica abitudine sapevano che l’onore non avrebbe permesso a nessuno di non rispettarli, ad entrambi per questo piaceva molto dormire insieme la notte nello stesso letto. Affondavano in un sonno profondo protetti dalla forza dell’onore fra i loro odori e sapori perché in quegli anni, e per educazione, non si lavavano enormemente come oggi, ma moderatamente, il “necessario”. Oggi si direbbe di loro che erano “sporchi”. 
Passarono gli anni, erano sempre anni di gioventù e dunque era come se non passassero perché nulla cambiava in loro essendo profondamente radicati alla loro regione anche se avevano cominciato a viaggiare. Le altre regioni d’Italia erano un po’ come stati esteri, ma piano piano capirono che i cittadini di quegli stati esteri erano anche essi italiani e che tutti, ognuno in un modo diverso, erano come avvolti in un loro onore regionale. Spesso avevano momenti di silenzio entrambi, non sapevano cosa dirsi e Giovanni come un ragazzino con un amico prendeva la mano di Maria e con l’altra mano le batteva colpetti sul dorso. Questa era la “confidenza” così vicina e simile all’onore: capirono come era vero che la sola persona di cui potevano fidarsi era l’uno e l’altra. Non che avessero un’idea precisa dell’istituto della famiglia o del matrimonio così come si intende, avevano semplicemente la pratica della vita insieme e la sempre più grande coscienza che degli altri, italiani come loro, ci si poteva fidare, sì, abbastanza, ma non molto, meglio poco. Cosa significava “fidarsi”? 
Non lo sapevano bene perché erano ancora giovani, e qualche volta erano tentati di “fidarsi” ma era una cosa vaga, l’opposto di un’altra cosa vaga che era il tradimento, per cui il rapporto con le altre persone, anche con i loro amici d’infanzia, era molto sincero ma nessuno dei due diceva tutto: bisognava tacere per vivere. 
Ebbero un bambino che chiamarono Francesco. Erano “dotati” per vivere, avevano quel genio italiano, ma non di tutti gli italiani, di muoversi, di camminare e di sorridere che è come bagnato dal mare Mediterraneo. Il sole dell’Adriatico fa molto ma non è come il mare Mediterraneo nei corpi e nelle movenze delle persone veramente italiane. Questo dava loro un forte senso di familiarità, anche come fratello e sorella, e di sempre maggiore complicità. La complicità era dovuta a una grande naturalezza forse nata da matrimoni fra bisnonni ed avi ed è legata ai movimenti comuni che si fanno in gioventù nella stessa terra quando si mangia e si dorme vicini in casa e ad un’aria di famiglia che in quegli anni moltissimi italiani avevano. 
Giovanni conservava nel corpo, come del resto Maria, i muscoli, i nervi, i sonni e la fame di un ragazzo, Francesco era come lui. Certe volte gli amici prendevano in giro Giovanni perché durante il lavoro si stringeva nel suo camice, seduto accanto ad uno al microscopio, gli appoggiava il capo su una spalla e dormiva. Aveva una testa piccola con molti capelli arruffati e così dormendo teneva le mani intrecciate in grembo. Era molto distratto, nuotava e sciava bene, ma di colpo si stancava, certe volte quando era distratto e mangiava alla mensa in distrazione, masticava come uno che non sente nessun sapore e teneva gli occhi fissi al pensiero, non dentro di sé, guardando e parlando col pensiero, ma come se il pensiero fosse una persona, seduta o lontana da lui, sola. 
Non litigavano mai. Maria non ebbe mai un altro uomo e Giovanni non ebbe mai un’altra donna. Non ebbero mai questioni di gelosia in quanto si amavano in modo sempre diverso col passare del tempo e sempre pensando ognuno all’onore dell’altro. Giovanni ogni tanto si arrabbiava, allora diventava pallido, perdeva la voce e si picchiava la testa per non dare pugni in testa a Maria. Si arrabbiava perché Maria era permalosa di carattere, si incupiva, piangeva disperatamente con il moccio come i bambini. 
Ebbero una bambina che chiamarono Silvia come la nonna di Giovanni, era nata con un leggero difetto all’anca per cui diventando grande zoppicava un po’, pochissimo. I genitori se ne crucciarono molto ma quando Silvia ebbe tredici anni e cominciò a mostrare tutta la sua bellezza tra russa e tartara, non ebbe più crucci. Quel lieve zoppicare quasi non si vedeva e dava a Silvia quello che moltissime altre donne non avevano. 
Ormai non erano più giovani ma la loro pelle, la carne, la saliva e i capelli erano ancora abbastanza giovani. Giovanni era invecchiato nel volto, aveva dei capelli grigi, le borse sotto gli occhi e due pieghe dure ai lati del piccolo naso infantile. Maria non era ingrassata, ma aveva anche lei qualche capello grigio e i seni e la carne non erano più veramente quelli: non c’era più la durezza. Giovanni che li toccava sempre fin da ragazzo per scherzo e sul serio smise di farlo per discrezione. Maria capì questa discrezione ma il capirlo fu una cosa oscura e ogni tanto, guardandosi allo specchio e nel bagno, nuda, diceva tra sé a voce altra: “Sono vecchia”. E si copriva anche a se stessa, perché la gioventù se n’era andata. 
Ogni estate andavano al mare e qualche volta facevano dei viaggi in Italia. Nella loro mente Capua veniva immediatamente prima di Porta Capuana perché videro entrambi i luoghi uno dopo l’altro: ricordavano Cuma e le zolfare. Quei viaggi in Italia rimasero ben netti nella loro mente anche se ogni anno che passava i loro sensi avevano sempre minor forza: gli odori dell’aria, il sapore dei cibi e le profondità dei mari erano ogni anno meno sorprendenti anche se più dolci al pensiero e al ricordo. Essi non lo sapevano ma una leggerissima stanchezza nei sensi, cioè nella vita, si era infiltrata nei loro corpi e nei loro pensieri. Passarono altri anni, rapidamente quanto lentamente passava un giorno della loro gioventù lontana, Silvia era molto amata, una delle donne più amate d’Italia e Francesco diventò dirigente sindacale di un partito politico da giovanissimo: era un idealista. 
Un giorno Giovanni a un collega francese che si preoccupava delle sorti dell’Italia disse: “Tout se tient en Italie”. 
“Sì, ma per quanto tempo?” 
“Per sempre.” 
Così dicendo (si era in un ristorante di piazza Santa Maria in Trastevere a Roma, tra luci, lampi e scintillii di oro) vide come illuminarsi davanti a sé l’intero territorio italiano e gli parve che chiese, torri, cupole, ruderi e forre, campagne e oliveti ventosi cucinassero al sole, circondati dal mare. L’omertà era un concetto difficile da spiegare a uno straniero e Giovanni lasciò perdere. 
Giovanni e Maria invecchiarono di colpo ma, come sempre, per quella misericordiosa stanchezza che avevano entrambi ereditato dalle illusioni infinite della chiesa cattolica senza saperlo, nessuno dei due se ne accorse veramente. Nessuno dei due si accorse di avere già vissuto tutta la vita da qualche tempo ormai e non parve a loro di vedere i cieli di Roma al mattino, il pomeriggio al Lido di Venezia quando i bagnini cominciano ad avvolgere le tende per la notte, o le palme di agosto a piazza di Spagna, per le ultime volte. Maria andava a San Pietro. Non era mai stata in chiesa se non da ragazza ma ora le piaceva andare a San Pietro, senza pregare ma per guardare gli altari, l’arco della piazza, sentire l’odore dell’incenso e vedere il Papa dire Messa: il figlio la prendeva in giro e Maria rideva con gli occhi con gli stessi denti bianchi da negretta di quando era ragazza. 
Maria si accorse un giorno di giugno che parlando perdeva le frasi che rimanevano nel pensiero e si esprimeva in modo confuso e spesso incomprensibile. Quando la udì dire quelle frasi senza senso Giovanni si fece molto serio e lo prese un dolore infinito perché capì che sarebbe morta. Infatti Maria morì e di lei non rimase nulla in casa. 
Giovanni visse ancora undici anni: camminava molto e lavorò sempre, ma la cosa si era rotta e la vita continuò a passare anche dopo, dopo che morì Giovanni e nessuno vedeva più i due sposi da tanto tempo. Rimanevano però Silvia e Francesco che a loro volta avevano figli grandi. La figlia di Francesco si chiamava Maria, come la nonna, e come lei aveva piccole labbra color corallo e denti molto bianchi.

Da I sillabari, Goffredo Parise

giovedì 9 novembre 2017

quando, dal niente

quando, dal niente
- è inverno, è notte, sei solo senti
il pullulare della vita che dilaga
per le vie del mondo - sorgono
all'improvviso ombre (numi della memoria, oh quanto
trapassati), fisse
come pianeti alla stella che s'infiamma,

e sai e non sai,
t’increti
nella materia sottile delle cose
che non sono (larve, lemuri, bolle che crepitano
nella caverna della mente che delira), implori
un cenno, un suono
di niente, che scardini
il corso del tempo, affondi

in genealogie di pensieri troppo remoti.

Giancarlo Pontiggia
Il moto della cose

venerdì 3 novembre 2017

Fame - l'uomo notò il sacchetto del ventre muoversi come se contenesse un piccolo animale

Un giorno di agosto del 1968 nuvole nere e basse correvano nel cielo di una piccola città della Nigeria orientale e ogni tanto pioveva. La pioggia cadeva in fasci di gocce enormi che scioglievano la terra rossa delle strade e diventavano torrenti diretti chissà dove. Poi tornava il sole tra il verde della foresta, l’acqua raccolta nell’incavo delle grandi foglie dei banani cessava di zampillare e le ultime gocce si bilanciavano sulla punta di quelle foglie, poi cadevano. In quel momento ricominciava il caldo, la terra rossa si asciugava fumando e negri ridenti vestiti di pezzi di nylon rosa e azzurri sorgevano da sotto i banani e parevano rincorrersi con i piedi con la voce e con le mani. 
Quella piccola città era la capitale di un minuscolo Stato che si chiamava Biafra e che ora non esiste più. Un certo colonnello Ojukwu, un negro pazzo che aveva studiato in Inghilterra aveva fondato quello Stato e un numero immenso di bambini e di vecchi fuggiti dalla foresta a causa della guerra stavano chiusi dentro recinti e vecchie scuole e morivano di fame anche se in città c’erano dei banchetti che vendevano scatolette di cibo a borsa nera. Ma i bambini e i vecchi fuggiti dalla foresta non lo sapevano e se lo sapevano non avrebbero mai avuto i soldi per comperare anche una sola di quelle scatolette. La propaganda del colonnello pazzo voleva che morissero per commuovere il mondo e convincerlo a riconoscere il proprio Stato e ci riuscì, a farli morire, a commuovere il mondo e a farsi riconoscere da qualcuno. Lo Stato durò pochi mesi, la guerra finì e i milioni di morti scomparvero.
In uno di quei recinti sotto il sole e sotto l’ombra delle nubi nere e le docce improvvise, un uomo, un europeo, guardava un bambino nudo. Il bambino non era più completamente nero di pelle, né scuro di capelli perché era diventato quasi roseo e rossiccio di capelli per mancanza di proteine e pareva come spellato. Inoltre era così magro che la pelle sul suo cranio era come seccata dal sole, c’erano molte grinze secche intorno agli occhi e non aveva né collo, né guance, né labbra. Le dita delle mani e dei piedi erano le piccole ossa delle falangi che si muovevano stranamente insieme alle altre ossa dello scheletro. Nell’incavo del bacino aveva una piccola borsa di pelle grinzosa e tutti i suoi movimenti erano molto lenti, ondulati e traballanti. Sorrideva, guardando l’uomo che lo guardava e sorrideva anche ai fotografi che lo fotografavano in massa come sorpreso e lusingato di tanta attenzione. Il suo sorriso era quello di un centenario, che però in quel momento aveva qualcosa da fare, cioè sorrideva con cortesia, ma senza abbandonare il lavoro che lo occupava.
L’uomo che lo guardava da molto tempo aveva visto il bambino raccogliere degli stecchi intorno alla baracca e osservò che per fare questo aveva impiegato più di due ore, prima con piccolissimi mucchi di stecchi intorno a dove si trovava e in seguito riunendoli in un solo mucchio. Poi aveva guardato l’uomo, l’uomo capì lo sguardo, cavò di tasca un accendino e accese gli stecchi che cominciarono subito a bruciare con un po’ di fumo. A questo punto il bambino smise di guardare l’uomo, frugò con le dita dentro la fessura di una baracca, tirò fuori un topo infilato in un grosso stecco e cominciò a farlo girare sul fuoco con molta lentezza e con tutte due le mani. Di tanto intanto alimentava il fuoco con altri stecchi infilandoli con abilità uno sotto l’altro senza far cadere quelli che già bruciavano e diventavano brace. Questo lavoro però lo stancava, allora abbandonava il topo sul fuoco e il topo dopo un po’ friggeva e si gonfiava. Al friggere del topo il bambino pareva svegliarsi e riprendeva in mano lo stecco che faceva girare tra le falangi che parevano molto lunghe, con unghie lunghe. Ma nel fare questo respirava sempre più affannosamente, la cassa toracica si muoveva come un soffietto e dopo pochi minuti il bambino lasciava cadere il topo nella brace. Quello che pareva richiedere al suo corpo una fatica minore era infilare altri stecchi nel fuoco.
Il bambino andò avanti immerso in questi esercizi per circa venti minuti, poi, come definitivamente stanco, ritirò il topo dal fuoco e lo lasciò cadere in disparte, si sdraiò e parve addormentarsi. Ma non dormiva, di tanto in tanto apriva i grossi occhi bianchi e neri molto lucenti e sorrideva all’uomo.
Fu in quei momenti di riposo che sorrise ai fotografi; i fotografi fecero il loro lavoro e se ne andarono. Uno si chiamava André, era un giovanotto grassoccio, sudato, coi capelli rossi dall’odore acre. Strizzò l’occhio a una specie di suo capo senza macchina fotografica, uno magro con un orecchio bucato da una pallottola e disse: «Vachement bon», evidentemente soddisfatto delle fotografie fatte al bambino.
Il bambino pareva veramente dormire, duo o tre volte si scosse come per brutti sogni o per una contrazione dei nervi e mostrò i denti bianchissimi e sporgenti. Ma nemmeno allora dormiva perchè l'uomo notò il sacchetto del ventre muoversi come se contenesse un piccolo animale e un po' di liquido giallastro scorrere sotto l'osso del bacino. Il bambino aprì gli occhi, si accorse di quello che aveva fatto, si alzò traballando e si avviò piano piano fino a un ciuffetto di fogliame con cui si pulì. Poi si lavò prendendo acqua piovana da un secchio di plastica e si asciugò con delle garze che sfilò da un gran pacco sulla porta della baracca. In quei momenti l'uomo distolse gli occhi perchè, da uno sguardo del bambino, capì che non voleva essere guardato. Lo guardò ancora quando il bambino aveva finito del tutto di pulirsi e infatti il bambino sorrise e riprese attentamente il lavoro.
Dalla fessura dove aveva nascosto il topo cavò un vecchio coltello e cominciò a raschiare dal topo tutta la parte carbonizzata. Questo gli portò via molto tempo, sia per la lentezza dei movimenti, sia per la minuzia da vecchio con cui il bambino puliva il topo. Quando fu ben pulito cominciò a mangiarlo dalle natiche verso la schiena. Mangiava a piccoli morsi né abbondanti né voraci come uno che ha poca fame, di tanto in tanto guardava l'uomo con occhi abbastanza indifferenti, faceva piccole pause durante le quali staccava la carne del topo con le unghie e la mangiava con calma osservandola prima di metterla in bocca.
Ricominciò a piovere, l'uomo stette un poco sotto la pioggia, ma poiché la pioggia gli impediva di vedere si rifugiò dentro la baracca dove anche il bambino era entrato dopo aver lasciato cadere a terra quel che restava del topo. Per entrare nella baracca il bambino aveva dovuto alzarsi e fare due gradini: impiegò molto tempo a salire quei gradini, appoggiandosi allo stipite, una volta traballò e stava per cadere quando sopraggiunse l'uomo che lo afferrò per un braccio. Restò in piedi, in equilibrio molto precario sulle ossa delle gambe e tuttavia ne accavallò una come fanno i bambini vivaci e allegri, aggrappandosi però con le falangi della mano allo stipite della porta. L'uomo vide che nell'interno della baracca erano distesi due cadaveri di bambini accanto ai quali stava accosciata una vecchia che piangeva., La pioggia era diventata torrente e portò subito via i resti del topo, anche l'uomo stava appoggiato allo stipite della porta e non guardava più il bambino, guardava il torrente formato dalla pioggia.

Da I sillabari, Goffredo Parise

giovedì 2 novembre 2017

molly bloom?

mi iscrivo?
è una botta, carissimo.
già era caro così, con il "più iva", mi è esploso tra le mani.
sono sette lezioni, cento euro a lezione.
voglio fare la scrittrice?
no.
insegnanti eccelsi?
non lo so, qualcuno mi piace.
alcuni scrivono bene, ma parlano male, problema molto comune.
Chiara Valerio quanto mi piace? cosa mi insegna?
cos'è per me la scrittura?
il mio modo di pensare.
penso come se dovessi scrivere.
cos'è per me la scrittura?
un discorso. 
della mia laurea in medicina ho fatto un discorso, quello che avrei voluto redigere facendo lettere.
ne ho fatto un discorso e non una pratica, io parlo, penso ai pazienti, li visito con la parola, uso il farmaco ma anche la farmacoterapia è un discorso tra me e il mio paziente. io ne ho fatto un discorso, la mia cura, per me e per gli altri, è un discorso.
scrivere è un discorso.
scrivere è un esercizio, altissimo, di stile e di cultura.
perduto.
anni fa, d'estate, lessi Lolita di Vladimir Nabocov. il libro successivo fu XY, di Sandro Veronesi (uno dei docenti della scuola). senza togliere nulla al povero Veronesi, che apprezzo, il confronto fu schiacciante.
qualcosa della scrittura si è perso, per sempre. ora scrivono tutti: leggevo che la parola scritta non è mai stata così diffusa come oggi, i social e la messaggistica mettono tutti in pista.
ma, si sa, la globalizzazione svaluta.
questa diffusione non giova, impoverisce, banalizza, svilisce la parola scritta.
vilipesa, abbreviata, storpiata, anglicizzata, acronimizzata. sbagliata.
cos'è per me la scrittura?
ricchezza.
mi iscrivo alla scuola di scrittura Molly Bloom?

mercoledì 1 novembre 2017

dentro Caravaggio

dentro.
nel senso di dietro.
dietro il quadro, dietro la figura che appare, c'è la tela e su quella tela c'è il mistero della sua pittura. se così si può dire.
la bella mostra a Palazzo Reale ce lo racconta.
ma dentro?
dentro Caravaggio?
il Merisi, c'è poco da andare per il sottile, era un delinquente.
mi fanno ridere le analisi della straziante infanzia, della famiglia sterminata dalla peste.
certo, l'altro Michelangelo, il Buonarroti, veniva da una famiglia bene, la sua biografia ci dice di una casata importante, parliamo del patriziato fiorentino, roba grossa. quindi di agi e di buona formazione.
ma gli altri? quanta povertà miseria malattia epidemia carestia c'erano in quei tempi?
quanti genitori sopravvivevano a lungo ai propri figli? e quanti figli invece non sopravvivevano ai propri genitori? inoltre il Merisi, che comunque non veniva da una famiglia disagiata, il padre Fermo lavorava nelle maestranze della città di Milano, ebbe una sua formazione artistica, andò a bottega. studiò.
mica tutti quelli dalle biografie luttuose ammazzavano e sbraitavano, attaccavano briga, pestavano, minacciavano, insultavano o fuggivano.
i traumi di Michelangelo Merisi da Caravaggio sono insondabili, sono morti con lui, anche le ipotesi sulla sua omosessualità sono noiose. 
era ambiguo, violento, rissoso, inquieto e aggressivo.
e poi dipingeva.
questa è la sua potenza, questo è il suo mistero. 
dentro Caravaggio non ci entriamo, dietro lo osserviamo, per il resto lo guardiamo adoranti come un genio artistico inconfondibile ed epocale.