bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 31 marzo 2016

un grande ondeggiare di sottane e di veli

Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi.
Come in un viaggio al principio del tempo, Cristo si è fermato a Eboli racconta la scoperta di una diversa civiltà. È quella dei contadini del Mezzogiorno: fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore. Il libro tuttavia non è un diario; fu scritto molti anni dopo l'esperienza diretta da cui trasse origine, quando le impressioni reali non avevano più la prosastica urgenza del documento. (Carlo Levi)
lo ascolto in audiolibro, per ora in attesa.
una scena mi ha colpito, sembra ripresa da una macchina da presa, una macchia nera si sposta, si muove, ondeggia, sembra il corpo di un animale, ma possiede anche qualcosa di funebre, materia viva che ricorda una tenebra funesta, un mistero ancestrale.

Ero da solo al tavolo, davanti alla tovaglia pesante, di tela di casa: ma la stanza non era vuota. la porta di strada ogni tanto si apriva, ed entravano delle donne, le vicine, le conoscenti, le comari della vedova. Venivano con vari pretesti, a portar acqua o a chiedere se dovessero lavare per lei, domattina al fiume: si fermavano lontane dal mio tavolo, vicino all'uscio; stavano l'una vicina all'altra, e parlavano tutte insieme, come uccelli. Fingevano di non guardarmi ma ogni tanto sotto i veli, i loro occhi neri si voltavano rapidi e curiosi dalla mia parte, e subito fuggivano, come animali, del bosco. Non ancora avvezzo al costume (un povero residuo di costume, che non ha nulla a che fare con quelli famosi di Pietragalla o di Pisticci), mi parevano tutte eguali, con il viso incorniciato dal velo più volte ripiegato che cade sulla schiena, cone le semplici camicette di cotone, le larghe sottane scure, a campana, lunghe a mezza gamba, e gli stivaletti alti. Stavano ritte, col portamento solenne di chi è avvezzo a portare in equilibrio i pesi sul capo, e i volti avevano tutti un'espressione di selvatica gravità. Gravi e senza grazia femminile erano i loro gesti, come le occhiate pesanti dei neri occhi curiosi. Non mi parevano donne, ma soldati di uno strano esercito, o piuttosto una flottiglia di barche tondeggianti e oscure, pronte a prendere tutte insieme il vento nelle piccole vele bianche. Le guardavo e cercavo di capire i loro discorsi nel dialetto per me nuovo, quando si battè all'uscio, le donne presero congedo con un grande ondeggiare di sottane e di veli, e un nuovo personaggio entrò nella cucina.



martedì 29 marzo 2016

l’arma della Repubblica è il terrore

Per parlare aspettavamo solo il grido di sdegno che risuona da ogni parte. I nostri occhi erano aperti, vedevamo il nemico prepararsi e insorgere, ma non abbiamo suonato l’allarme; abbiamo lasciato che il popolo vegliasse su se stesso, e lui non ha dormito, ha fatto ricorso alle armi. Abbiamo lasciato che il nemico venisse fuori dal suo nascondiglio, lo abbiamo lasciato avanzare; adesso è libero, alla luce del giorno, e allo scoperto, ogni colpo andrà a segno, non appena lo vedrete sarà morto. Ve l’ho già detto una volta: i nemici interni della Repubblica sono divisi in due reparti, come a dire due squadracce. Sotto vessilli di colore diverso e sulle strade piú diverse si affrettano tutti verso il medesimo scopo. Una di queste fazioni non esiste piú . Nella sua studiata follia ha tentato di eliminare i patrioti piú fidati come se fossero dei deboli ormai inservibili, per depredare la Repubblica delle sue braccia piú vigorose. Ha dichiarato guerra alla divinità e alla proprietà puntando a una diversione a favore dei re. Ha parodiato il sublime dramma della rivoluzione per comprometterla con studiati eccessi. Il trionfo di Hébert avrebbe trasformato la Repubblica in un caos, cosa che il dispotismo trovava soddisfacente. La spada della legge ha colpito il traditore. Ma che importa questo agli stranieri, visto che per raggiungere lo stesso scopo possono contare su criminali di altra specie? Non abbiamo fatto nessun passo avanti, se resta da annientare ancora una fazione. Essa è il contrario dell’altra. Essa ci spinge alla debolezza, il suo grido di guerra è: pietà! Vuole strappare al popolo le sue armi, e la forza che guida le armi, per consegnarlo nudo e spossato ai re. L’arma della Repubblica è il terrore, la forza della Repubblica è la virtú – la virtú, perché senza di essa il terrore è guasto, il terrore, perché senza di esso la virtú è impotente. Il terrore è una secrezione della virtú, non è nient’altro che giustizia rapida, severa e inflessibile. Dicono che il terrore sia l’arma di un governo dispotico, che dunque il nostro governo equivale al dispotismo. Certo! ma cosí come la spada nelle mani di un eroe della libertà equivale alla sciabola di cui è armata la guardia del tiranno. Se il despota governa i suoi sudditi simili a bestie mediante il terrore, ha ragione in quanto despota; ma se distruggete mediante il terrore i nemici della libertà, in quanto fondatori della Repubblica non avete meno ragione. Il governo della rivoluzione è il dispotismo della libertà contro la tirannia. Pietà per i realisti! esclamano alcuni. Pietà per i malvagi? No! Pietà per l’innocenza, pietà per la debolezza, pietà per gli infelici, pietà per l’umanità! Solo al cittadino pacifico spetta la protezione da parte della società. In una Repubblica soltanto i repubblicani sono cittadini, i realisti e gli stranieri sono nemici. Punire gli oppressori dell’umanità, è clemenza; perdonarli, è barbarie. Tutte le espressioni di una falsa emotività mi sembrano sospiri che mettono le ali verso l’Inghilterra o l’Austria. Ma non soddisfatti di disarmare il braccio del popolo, si cerca anche di avvelenare le piú sacre sorgenti della sua forza con il vizio. Questo è l’attacco piú sottile, piú pericoloso e piú ripugnante alla libertà. Il vizio è il segno di Caino dei regimi aristocratici. In una Repubblica non è solo un crimine morale, ma anche politico; l’uomo dedito al vizio è il nemico politico della libertà, per la quale è tanto piú pericoloso quanto piú grandi sono i servizi che all’apparenza le ha reso. Il cittadino piú pericoloso è colui che trova piú agevole consumare una dozzina di berretti rossi che compiere una buona azione. Mi capirete facilmente se pensate a gente che in genere viveva nelle soffitte e adesso viaggia in carrozze e fa sconcezze con ex marchese e baronesse. Forse dobbiamo chiederci: è stato depredato il popolo, oppure hanno stretto le mani colme d’oro dei re, quando vediamo i legislatori del popolo far sfoggio di tutti i vizi e di tutto il lusso degli ex cortigiani, quando vediamo questi marchesi e conti della rivoluzione sposare donne ricche, dare sontuosi banchetti, giocare, tenere dei servitori e indossare vesti preziose? Forse dobbiamo meravigliarci quando li sentiamo enunciare pensate, atteggiarsi a begli spiriti e sfoggiare toni beneducati. Recentemente è stata fatta la parodia di Tacito in modo spudorato 21 , io potrei rispondere con Sallustio ed evocare un Catilina; ma non credo di aver bisogno di altri interventi, i ritratti sono ultimati. Nessun patto, nessun armistizio con coloro che miravano solo a saccheggiare il popolo, che speravano di compiere questo saccheggio impunemente, e che consideravano la Repubblica una speculazione e la rivoluzione un mestiere! Trascinati nel terrore dal fiume impetuoso degli esempi, cercano sommessamente di raffreddare la giustizia. Verrebbe quasi da immaginarseli mentre dicono a se stessi: «Non siamo virtuosi abbastanza per incutere tanto terrore. Oh legislatori filosofici, abbiate pietà della nostra debolezza! Non oso dirvi che sono vizioso; preferisco dirvi: non siate crudeli!» Tranquillizzati, popolo virtuoso, tranquillizzatevi, patrioti! Dite ai vostri fratelli di Lione: la spada della legge non arrugginisce nelle mani alle quali la avete affidata! – Daremo un grande esempio alla Repubblica. 

chi è?
Robespierre, nella versione di Georg Büchner, Morte di Danton.
radicalismo.
tempo di terrore.
poco è cambiato.
ora è tempo di islamizzazione del radicalismo.
se non che Robespierre, l'incorruttibile, paranoico e sanguinario, era uomo capace quanto meno di una teorizzazione del terrore, sapeva farne una questione filosofica e politica. il che non lo riabilita in quanto atroce assassino.
credo che ora ci troviamo solo davanti a una schiera di nichilisti, di gente che invece di morire di overdose in un angolo marcio delle periferie di Bruxelles preferisce andare incontro al proprio godimento di morte facendosi saltare in aria. gente comune, delinquenti da strada, gente che qualche mese prima di radicalizzarsi ballava in discoteca con le bionde che poi ha ammazzato al Bataclan e nei locali di Parigi. la Cnn ha pubblicato alcune immagini esclusive che mostrano Salah Abdeslam, l'attentatore di Parigi, che balla in una discoteca a Bruxelles a pochi mesi dagli attentati nella capitale francese e a circa un anno dalla sua cattura. le immagini mostrano il terrorista con indosso una maglia arancione che si diverte in un locale insieme al fratello Brahim, morto kamikaze il 13 Novembre, che fuma una sigaretta e flirta con una donna bionda. i due ballano sulle note del loro rapper preferito Lacrim.
era l'8 febbraio del 2015.
Parigi: 13 Novembre 2015.
ora è tempo di islamizzazione del radicalismo.
oggi un attentatore dell'ultima ora ha dirottato un volo EgyptAir. "non è un terrorista, ma un idiota". così un funzionario del ministero degli Esteri egiziano, citato dal Guardian, ha apostrofato il dirottatore dell'aereo EgyptAir fatto atterrare a Larnaca, a Cipro. e questa espressione dell'avvedutissimo egiziano -che, diciamolo, ci stanno veramente facendo la figura degli idioti di questi tempi- mi colpisce, come se un terrorista fosse invece intelligente e accorto e non si meritasse l'appellativo di idiota.
ora è tempo di islamizzazione del radicalismo.
e mi sembra che idioti, più idioti di così non potrebbero essere, persone che non hanno, ovviamente, nessuna passione religiosa, nessuna frequentazione della religione e delle moschee, nessuna tensione di giustizia, semplicemente senza pensiero, senza credo, senza null'altro da poter portare addosso, si vestono da islamisti, giusto per dare forma a un corpo che altrimenti non ne ha.
senza forma senza mente. un giorno prima fumano bevono scopano il giorno dopo si travestono. è lo stesso identico vuoto di senso. idioti.
ora è tempo di islamizzazione del radicalismo.
sono spesso fratelli, paranoicizzati nella differenza tra un noi e un loro, una rovinosa forma di proselitismo familiare, un'alleanza che costa poco, che affonda rapidamente in una radice comune, la radice della radicalizzazione.
sono presenti in Europa, a Parigi e Bruxelles, e il clamore mediatico è universale, sono presenti in Pakistan, 70 morti a Lahore nel giorno di Pasqua, un numero di vittime impressionante per lo più giovanissimi e bambini, ma meritano due righe sbiadite e frettolose.
la paura ci fa fare cose tremende, differenziamo i morti in base all'occidentalizzazione dei problemi, sembriamo idioti tutti, tutti quanti.

una bella intervista sul corriere a Olivier Roy, orientalista francese docente all’Istituto universitario europeo di Fiesole, offre un’analisi importante, e secondo me inequivocabile, del fenomeno jihadista in Europa.
Qual è il movente? 
«Alla base c’è un nichilismo, una repulsione per la società, che si ritrova anche a Columbine e nelle altre stragi di massa negli Stati Uniti, o in Norvegia con il massacro di Anders Breivik che fece 77 morti a Oslo e Utoya. C’è una descrizione degli assassini del Bataclan che ricorda Breivik in modo impressionante: uccidevano con sguardo freddo, con calma e metodo, senza neanche manifestare odio. Il nichilismo, la rivolta radicale e totale, è comune a tutti questi episodi, e in Europa prende la forma del jihadismo tra alcuni musulmani di origine o convertiti». 
Qual è il peso di questi convertiti?
«Fondamentale, anche per spiegare la natura del jihadismo europeo. Nell’attacco di Parigi un ruolo importante nella logistica lo hanno giocato, dalla Siria, i fratelli Jean-Michel e Fabien Clain. Il fenomeno dei convertiti non è spiegabile se aderiamo alla diffusa analisi post coloniale della radicalizzazione. Alcuni miei amici progressisti, di sinistra o piuttosto estrema sinistra, mi dicono «questi giovani sono vittime di razzismo, di discriminazioni, è per questo che si ribellano». Non è vero. Nessuno ha discriminato i ragazzi francesi anche di buona famiglia che si convertono. Eppure vanno in Siria pensando di tornare per fare stragi».
Oltre al nichilismo, l’altro elemento è il conflitto generazionale?
«Sì, le famiglie sono spaccate. I genitori musulmani non se ne fanno una ragione, talvolta vanno in Turchia per tentare di riprendersi i loro ragazzi. Non abbiamo avuto alcun problema con gli immigrati musulmani arrivati nei decenni scorsi dal Maghreb. Ce l’abbiamo con alcuni dei loro figli, la seconda generazione, nati qui, che parlano il francese meglio dei padri e a un certo punto si sono secolarizzati. Le testimonianze coincidono: i futuri terroristi a un certo punto lasciano l’Islam dei padri e vivono all’occidentale, si dedicano al rap, bevono alcol, fumano spinelli, e poi all’improvviso cambiano, si lasciano crescere la barba, diventano islamisti, integralisti. Sempre in contrapposizione ai padri. Sono tanti i fratelli terroristi, dai Kouachi ai Clain agli Abdeslam entrati in azione a Parigi: la dimensione generazionale è evidente». 
Paradossalmente la secolarizzazione non aiuta?  
«È così. La secolarizzazione, la mancata trasmissione dell’Islam dei padri, favorisce l’islamismo. Islam dei padri che peraltro i convertiti non hanno mai conosciuto. Quindi, non si tratta di radicalizzazione dell’Islam. Ma di islamizzazione del radicalismo». 

Stefano Montefiori - Corriere della sera

venerdì 25 marzo 2016

l'isola che c'è



Affordable Art Fair 2016
Milano, Superstudio Più
qualcuno protesterà
non metto nomi
già trovarli, questi, è costata fatica
ma siete belli
questi quadri
li avrei comprati
messi in una bella casa
spaziosa e dalla ampie pareti
li avrei messi in studio
luminoso e accogliente
li avrei appesi in camera
in modo
da
sentire
il vento
tra i capelli


Gianpaolo Talani
L'isola che c'è

mi commuove

giovedì 24 marzo 2016

Trace

di nuovo street art, ma domestica. strano ma vero.
cioè su tela, quadri cosparsi nella sede di Banca Generali in piazza Sant'Alessandro.
Palazzo Pusterla, apertura per le giornate di primavera del FAI.
code allucinanti, ormai i milanesi, dopo Expo, si mettomo in coda per ore come automi.
è una domenica di sole immenso, mi vedo questa singolare mostra negli uffici di lusso della banca privata, del palazzo originale è rimasto ben poco, alcuni soffitti.
di fronte a scrivanie di mogano e oggetti di iluminazione che non provengono dall'ikea, intorno a tavoli ovali di sale riunioni tenute a battesimo da soffitti mozzafiato, sono sparse le opere di Farhan Siki, street artist indonesiano parecchio inviperito con la globalizzazone e l'occidentalizzazione incipiente se non fagocitante che annulla la ricchezza culturale delle regioni che va colonizzando.
la sua impronta è del tutto simile a quella di Blek le Rat, forse meno originale, e mi ritrovo stupita in questa mia repentina conoscenza di un mondo a me ignoto fino a qualche mese fa.

Palazzo Pusterla, affacciato sulla piazzetta di Sant’Alessandro, risalirebbe nel suo nucleo originario, alla metà del XIV sec., come residenza dell’antica e potente famiglia Pusterla. Oggi il palazzo, sede di Banca Generali, si presenta in veste seicentesca, rimaneggiata negli anni, con un cortile porticato in controfacciata e sul lato opposto. Ulteriori rifacimenti ottocenteschi si devono all’opera del Canonica. Nella sua destinazione attuale e nelle intenzioni di Banca Generali c'è quella di promuovere e valorizzare l'arte, sia con acquisti che vadano a incrementare la collezione permanente di proprietà della banca, sia con l'allestimento temporaneo di mostre in collaborazione con curatori e Gallerie d'arte. “Le bellezze del Paese sono parte intrinseca della nostra cultura e della nostra identità” – dichiara Piermario Motta, Amministratore Delegato di Banca Generali. In quest’ottica, è in corso TRACE, la mostra personale dell'artista Farhan Siki, street artist indonesiano, tra i più apprezzati a livello internazionale. In particolare la sua riflessione si concentra sulla occidentalizzazione che la cultura global ha portato in Indonesia dagli anni '90.La visita continua nel cortile del palazzo di una delle famiglie nobili milanesi più antiche ed importanti per la storia della città, il casato dei Trivulzio. Palazzo Trivulzio si presenta in stile rococò, l’origine è però più antica e va ravvisata nella cinquecentesca dimora della famiglia Corio Figliodoni-Visconti. Acquistata dal Marchese Giorgio Trivulzio venne ristrutturata agli inizi del ‘700. La facciata, sobria ma imponente, si arricchisce di un fastoso portale su cui poggia lo Stemma della famiglia Trivulzio con sotto una testa di elefante. Il palazzo si distribuisce intorno al cortile d'onore, sotto cui sono conservati frammenti scultorei e architettonici, tra i quali un pozzo ottagonale di marmo recante gli stemmi dei Trivulzio e degli Sforza. I busti raffigurano probabilmente esponenti della famiglia Trivulzio. In fondo è riutilizzato un prezioso portale quattrocentesco, in marmo bianco e rosso di Verona, proveniente dall'antica casa Mozzanica (poi Serbelloni), distrutta per allargare l'attuale Corso Vittorio Emanuele (ex Corsia dei Servi). Il gusto e lo stile rimandano al classicismo bramantesco, secondo un modello molto usato in quei tempi nei palazzi e dimore del Ducato.


nel suo gioco artistico sovrappone arte e marchi globali, macerie storiche e svalorizzaione, un messaggio relativamente semplice, certamente più efficace su un muro, per strada, in una periferia abbandonata che negli angoli storici ristrutturati di gran lusso di piazza Sant'Alessandro. 
non mi fido di una banca che si veste di un'arte che la condanna.
e forse ancora meno dell'artista che gliela affida.

 piazza Sant'Alessandro è molto bella, il portone di palazzo Trivulzio anche di più e, forse anche oltre, il cortile al suo interno.
piazza poco milanese e un po' romana sentivo dire, meno quadrata e più ovale, senza intersezione di rette ma di vie oblique. un bel posto, comunque.

domenica 20 marzo 2016

tempi moderni

Milano, corso Sempione, Stramilano, polizia e vigili che deviano il traffico, il corso non si può attraversare, stanno per arrivare i concorrenti.
al semaforo, con una donna che dirige e devia il traffico, si impianta una macchina, mercedes? non sono pratica ma trattavasi di macchinone extra, il solito esaltato di turno tira giù il finestrino, biondo sembra abbia le meches e con ciuffo svettante, comincia a parlare, poi urlare con la donna poliziotto.
lui deve passare.
inizio della faida.
strafottenza, aria insultante, occhiale da sole, al fianco una donna -che sarà  di certo dolce gentile educata e a modo- inveisce contro la polizia e la legge che gli impone di cambiare strada, rispettare le regole, aspettare il suo turno, deviare a sinistra, parcheggiare prima (la strada era piena di parcheggi vuoti) e fare 200 metri a piedi.
insulta, lui abita in Londonio, "solo dei coglioni come voi potrebbero impedirmi di raggiungere casa mia".
avanza aggressivo e si ferma a un centimetro dalla macchina che lo precede.
la donna poliziotto si allarma, prima gli spiega e poi urla a sua volta, voce rotta isterica, questo non ingiunge autorevolezza, piuttosto cedevolezza di nervi.
infatti il primate capisce che può forzare la mano, sbraita "siete ridicoli", svia a sinistra e passa lo stesso accelerando, attraversa corso Sempione tra le urla incarognite della gente che lo insulta pesantemente per quel gesto...incauto?
la perversione, la legge che non insegna il limite, che non fa un baffo, nessun riconoscimento di un ente regolatore.
il potere dei soldi, sbrodolavano giù insieme alla bava assassina, giustifica la maleducazione che spiana la strada alla trasgressione beffarda.
non so come sia finita, di polizia ce n'era parecchia, ha detto al mondo dove abitava, penso lo abbiano bloccato e poi arrestato e infine carcerato e ora giustiziato. la legge deve pur fare il suo corso.
di certo da qualche parte c'è un padre disposto a giurare che si tratta, o trattava, di un bravo ragazzo, un modello di virtù, una mente superiore, magari alla tv, magari da quel pezzente di Vespa con il canino vampiro sporgente e il prossimo coltissimo libro a dirla lunga sui tempi che corrono, magari a un'ora dal misfatto, magari con il pubblico che applaude, magari davanti al mondo che si sgretola, i muri che crollano, i primi cadaveri in studio.
ma la telecamera filma, filma tutto. "io c'ero, e ho fatto un selfie".

venerdì 18 marzo 2016

la vita non è che un’ombra che cammina



Domani, e domani, e domani,
si insinua a piccoli passi di giorno in giorno,
fino all’ultima sillaba del tempo;
e tutti i nostri ieri hanno illuminato gli stolti
fino alla morte polverosa. Su, su, breve candela!
La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore,
che si agita e pavoneggia per un’ora sulla scena,
e poi non si presenta più. È il racconto narrato da un idiota,
pieno di strepito e furore,
che non significa nulla.



ho visto un bellissimo film, Macbeth di Justin Kurzel.
crudo imponente incisivo.
sono rimasta folgorata, credo di non essermi persa nemmeno una parola.
e che parole, le parole di William Shakespeare sono pietre.
incisioni indelebili nella carne.
sono travolta dalla bellezza del testo, delle immagini, della storia.
ambientato in gran parte in Scozia, un film maestoso e potente in cui ombre e nebbie penetrano nella pelle.
le streghe la follia la morte il castello le luci la musica, tutta l'ambientazione è poderosa e originale, indimenticabile.
straordinaria la dannazione di Macbeth, condannato a perseguire il suo destino, a seguire la traccia indicata dalle voci che lo vogliono re: per ogni uomo, qualsiasi uomo, un destino già tracciato è la via per l'inferno, è la tragedia che si compie, è il racconto narrato da un idiota.



M'è parso inoltre d'udire una voce
che mi gridava: "Più non dormirai!"
Macbeth ha ucciso il sonno;
è l'assassino del sonno innocente,
il sonno che ravvia, sbroglia,
dipana l'arruffata matassa degli affanni,
ch'è morte della vita d'ogni giorno,
è lavacro d'ogni affannosa cura,
balsamo d'ogni ferita dell'animo,
secondo piatto nella grande mensa della Natura,
nutrimento principe al banchetto dell'esistenza umana.

giovedì 17 marzo 2016

la Gorgone e gli eroi

un po' di simbolismo, tenebre morte perversione lussuria luce ombre angeli e demoni, è quello che ci vuole per rimettere le cose a posto.
Aristide Sartorio

la lupa

bene, la mia solidarietà è bella e finita.
quella simpatica confusione che faceva del politico una donna è conclusa.
dopo quella espressione di protezione e di smarrimento che dicevano di un affidarsi al senso ancestrale delle cose riprende corso il treno del marasma propagandistico e la primitività del cervello rettiliano.
ora permane l'idiozia.
non solo della Meloni, per carità, ma di molto entourage politico, soprattutto femminile.
l'idiozia può arivare al punto di prendere una posizione di pura opposizione all'enunciato maschile perdendo completamente di vista il valore simbolico dei gesti, il valore assoluto delle scelte.
si scagliano scandalizzate alle frasi bonarie perfino naif sulla maternità di un Bertolaso strattonato a destra e a manca - ma di certo non mi fa pena questo fantaccio rincorso da avvisi di garanzia e pluripremiato indagato che qualche demente senza idee in testa pensa di servire alla cità di Roma come possibile sindaco perpetuando la cattiva salute di una città già molto malata di corruzione e pessima politica - pure a quelle di un Berlusconi, e porca miseria, per la prima volta e spero l'ultima nella mia vita mi trova d'accordo, quando strepita che una donna in attesa di un bambino non è indicata a fare il sindaco di Roma - anche se è chiaro che l'intento di Berlusconi non è certo protettivo nei confronti di chi inevitabilmente sta sgretolando il suo progetto politico sulla capitale.
mettendo da parte le questioni politiche e il significato sociale dei diritti civili ma ragionando sulle vite degli uomini e delle donne, dobbiamo offenderci per questo, dobbiamo dire frasi acefale tipo: un uomo non deve mai dire a una donna quello che deve fare o cretinerie imperdonabili alla Boschi tipo: a un uomo non si è mai detto di non fare il sindaco perchè diventerà padre?
forse che le donne non dicono di continuo dalla mattina alla sera quello che un uomo deve fare? non è lo sport nazionale femminile indicare i tempi i modi e le strategie che un uomo deve adottare nella vita? dobbiamo farci portatrici delle peggiori cazzate del bestiario nazionale? delle peggiori banalità in bocca ai coglioni? dobbiamo perpetuare le fesserie imperanti che regolano le discriminazioni, reciproche, tra i sessi?
tra poco qualcuno riuscirà a dimostrare che per fare un figlio non ci vuole un gamete maschile e uno femminile e che anche i canguri hanno diritto di avere figli tra omosessuali e mettere su famiglia tanto quel che conta è l'amore.
la scienza è diventata una gran puttana e questo ormai è una via senza ritorno,
ma una donna non è come un uomo e mai lo sarà, anche dovesse venire giù l'universo intero saremo diversi per sempre, fino all'ultimo dei nostri respiri.
e una madre non è come un padre, nemmeno dovessero a impiantare un utero a un uomo finalmente appagato di possedere lo strumento che fa girare il mondo.
ma cosa ci guadagniamo a fare gli uomini? 
ma dove sta scritto che la parità e i diritti civili nascono dal mettere al mondo un figlio a darlo in mano a qualcun altro per crescerlo? ma quando capiremo che certe parità sono solo una perdita e una colossale fregatura?ma dov'è finito quel meraviglioso mondo femminile che preserva l'uomo dalle brutture? che custodisce il valore inestimabile della diversità e dell'alterità?
ma da quando fare la madre e fare il padre è perfettamente intercambiabile? da quando la cura materna ha lo stesso valore simbolico del ruolo paterno? ma per quale motivo dobbiamo fare della genitorialità una marmellata indistinguibile? ma per quale straccio di ragione si può arrivare a pensare di appiattire e stralciare dalla storia dell'uomo i simboli madre e padre a arrogarci il diritto di pensare che per le creature che verranno andrà comunque bene delirando che non è questo quel che conta? per per quale motivo il limite va sempre oltrepassato a scapito della vita stessa? 
ci si indigna per cosa? perchè in qualche angolo polveroso e dimenticato ancora resiste l'idea che la maternità abbia un valore sovrano e che andrebbe vissuta e preservata da interferenze di qualsiasi genere soprattutto coglionerie di rivalsa verso un mondo maschile che, tra le altre cose, quel privilegio non ce l'ha?
Roma mamma lupa, dice la Meloni, mai esempio fu più stonato e ignorante, nulla più dell'uomo appartiene alla naturalità tutto è condizionato dalla cultura e più che mai quella attuale femminile che rivendica per sè la stronzaggine maschile dell'egoismo e della supremazia del fallo, uno stravolgimento che di vantaggi non ne porterà mai alcuno. 
le donne si perdono le cose migliori della loro esistenza e sono sempre più disperatamente sole, fumano e bevono guadagnando solo cattiva salute e immaginano esistenze manageriali e aggressive senza speranza di condivisione con l'Altro, solo per la cecità e la rabbia schiumosa di rivendicare quel che loro non viene garantito. ma il privilegio della diversità, maschile e femminile, ha un valore inestimabile, svenderlo significa affidarci al caos di un godimento senza limite, perdersi in vite disperate, crescere figli senza riferimento che ammazzano e torturano per noia.
e lo stesso vale per gli uomini che inseguono desideri di "maternità" irrealizzabili di fatto ancora ricorrendo, diversamente non si può, all'impianto del loro sperma - unica traccia reperibile ma temo non bastevole alla futura progenie per rispondere alla sempiterne domande di un bambino sulla propria provenienza- onnipotenza travestita da amore -quante idiozie si dicono in nome dell'amore- che, come insegnano la vita e la mia professione, da solo non è mai bastato a fare di un essere umano un buon genitore. 

domenica 13 marzo 2016

ala bianca dell’adolescenza

Sola. In questa mia bella casa, coi mobili ricchi e dalla radio la voce del paese che amo e ho davanti la piccola lampada della fedeltà che non basta a calmare l’irrequietudine, a riempire la vita. E questo terrore: mi perdo, non mi ritroverò, non mi riguadagnerò più. Piccole cose mi scalpellano, miserie mi corrodono. Quanto bene vorrei volere e non c’è nessuno e se qualcuno venisse, ormai è forse troppo tardi e il sangue è ancora malato di te, di voi. […] Penso anche a te, lontanissimo e dolce, che non avevi corpo e mi baciavi così puro: ala bianca dell’adolescenza.

come è stato infinitamente più bello e rivelatore il film di Marina Spada Poesia che mi guardi.
intelligente e misurato, un film di poesia sulla poesia fatto di poesia che non fa inciampi, celebra Milano, città di Antonia Pozzi, i suoi luoghi, senza cadere nel ridicolo della retorica.
Antonia di Ferdinando Cito Filomarino va fuori registro in molti e diversi aspetti. la localizzazione di Antonia non risulta mai vera. totalmente disautentica, sempre, in ogni inquadratura. Antonia era goffa, timida, certamente imbrigliata dalla sua educazione, torturata dall'appartenenza alla sua rigidissima famiglia. è invece troppo disinibita ed elegante e ardita e disinvolta e moderna nelle movenze questa Antonia che in nulla mi fa pensare a una sofferenza sul corpo. della carne. nella mente. una Milano assurdamente travestita di cui si scopre subito il trucco - che pena- senza nessuna cura dei dettagli, errori così macroscopici da invocare l'ergastolo cinematografico. macchine d'epoca appiccicate come su ritagli su un cartoncino quando appaiono in primo piano gli archetti gialli antiparcheggio. pure con le biciclette legate. tram con personaggi che salgono dall'entrata di mezzo, usanza contemporanea impensabile negli anni '30 con i tram con il bigliettaio. e altre sono le sciatterie imperdonabili di questo film che vede Antonia sviluppare le sue foto, ammesso che lo facesse, con attrezzature improbabili. un'Antonia che certamente sognava l'amore, anche fisico come alcune sue poesie apertamente raccontano, ma che in questo film indugia su una sua corporeità troppo intima, troppo nota, con posture troppo clamorose, propagandistiche di un eros maturo e contemporaneo che certamente Antonia non possedeva, così incerta nel mostrare la sua femminilità nelle foto che la ritraggono.

mancano la sofferenza, l'ambiente universitario prestigioso ma distante, il padre oppressivo simpatizzante del regime, l'incombenza della guerra, il fallimento sentimentale, mancano, non giustificano l'atto finale che, come ho ripetutamente letto, la vedono sulla neve, e non con un soprabitino, adagiarsi sul suolo per poi morire di barbiturici e disperazione.
manca tutto di Antonia che per troppa vita che ho nel sangue tremo nel vasto inverno, questa è un'invenzione veramente poco convincente, un'erotica contemporanea senza conoscenza per non parlare delle sue poesie inquadrate sui libri pubblicati postumi, un gioco che amplifica la confusione di un neo regista che, probabilmente, ha letto le sue poesie per l'occasione ghiotta consigliata da Luca Guadagnino, produttore del film, ma che non le ha amate, non le ha guardate.
Poesia che mi guardi, questa è Antonia Pozzi, 

giovedì 10 marzo 2016

war is over





fotografie a colori dei Signal Corps dell’esercito americano


immagini in bianco e nero dei fotografi dell’Istituto Luce

La Liberazione dell’Italia durò due anni, dallo sbarco degli angloamericani in Sicilia nel luglio 1943 alla resa dei nazifascisti nell’aprile 1945. Questo processo lungo e doloroso fu messo straordinariamente in scena dai due opposti sguardi fotografici dei fotografi dell’Istituto Luce e dei Signal Corps dell’esercito americano. Sguardi che restituiscono due Italie e due diverse guerre e si osservano reciprocamente e che oggi sono messi a confronto e presentati per la prima volta al pubblico di Milano (dopo il successo della prima tappa della mostra a Roma a Palazzo Braschi). L’allestimento di Forma Meravigli proporrà per la prima volta anche alcune fotografie che vedono come protagonista la città di Milano. Nelle foto dei Signal Corps (l’efficiente servizio di comunicazioni al seguito delle truppe statunitensi) provenienti da un raro repertorio, conservato presso la NARA (National Archives and Records Administration) di Washington, il colore diventa il segno di un’Italia diversa, “rivelata” da operatori e fotografi più attenti al dato sociale e uno strumento di esportazione dell’american way of life che, con la ricostruzione, raggiunge anche l’Italia. Fanno da controcanto gli scatti dell’Istituto Luce, l’organo ufficiale di documentazione fotocinematografica del regime, dove il “bianco e nero” è espressione prima del cupo declino del fascismo e poi della sobrietà di una classe dirigente che cerca di costruire sulle rovine della guerra. Tra queste, la mostra propone molte immagini del fondo “Reparto Guerra Riservati” in cui erano conservati i negativi bloccati dalla censura. 
A Forma Meravigli saranno esposte circa 140 immagini, anche inedite, e filmati d’epoca – compresi nel periodo tra il luglio del 1943 (lo sbarco degli alleati in Sicilia) e il 1946 – che propongono la narrazione della guerra attraverso i suoi protagonisti, italiani e americani, e il confronto, unico e suggestivo, tra due differenti punti di vista.

le differenze si notano, la propaganda americana in blu e la retorica fascista in nero, l'american way of life in tacco 12 e la cupezza del declino nelle macerie di via Benito Mussolini.
non so se fosse tutto così semplice, così manicheo, vero falso, bene e male, bello e brutto, dalla mostra risulta così.

spazio Forma

io non ci potevo credere.
le ho chesto di nuovo: ma dice sul serio??
certo, ce l'ho scritto qui davanti, bello grande, tutti possono vederlo!
tesoro, penso io, o hai un problema spazio temporale, oppure cognitivo, oppure sei in difficoltà e dai risposte non-senso.
giovedì sera vado allo spazio Forma per vedere la mostra War is over.
ore 21.30.
chiuso.
stupore in seguito meraviglia poi rabbia.
e che diamine, ho pure controllato sul sito per essere certa: giovedì, orario di apertura: 12.00-23.00.
e DIAMINE, c'è scritto ANCORA!! ore 13.25 del 10 marzo 2016 anno del signore.
ancora non hanno modificato, cialtroni.
è da tempo che penso che qualcosa è cambiato dai tempi dello Spazio Forma di piazza Tito Lucrezio Caro. 
diversi segnali di non curanza, di distrazione, ora francamente di sciatteria. di scorrettezza.
mando una mail di richiesta di spiegazioni: nessuna risposta, la buona creanza vuole che si risponda e si rimedi a un torto palese. da queste mosse si capisce se hai a che fare con gente seria, che magari sbaglia ma prontamente rimedia.
sabato telefono, mi è venuto un dubbio, magari sono chiusi per faccende serie, giovedì non c'era scritto nulla sulle vetrate di Via Meravigli, ma non si sa mai.
mi risponde la candida ragazza, le chiedo  se sono aperti, certo è ovvio, sa giovedì sera eravate chiusi però, certo, è ovvio abbiamo cambiato orario di chiusura, ma dai??? ma sul sito non avete modificato la dicitura, sa, di questi tempi, tutto passa dai siti, mai sentito parlare di internet?, non avessi controllato.., scocciata, molto scocciata la candida ragazza, vede signora sul sito non abbiamo modificato ma  ce l'ho scritto qui davanti, bello grande, tutti possono vederlo! dice sul serio? ma per essere davanti a lei, davanti alla cassa devo essere dentro il negozio, e se arrivo che è chiuso come faccio? come entro se nell'orario ufficiale di apertura siete chiusi? capisce quello che dico? ha presente il dentro e il fuori? come leggo che è chiuso se è chiuso? e, soprattutto, come lo leggo da casa o dall'ufficio??
povera, bisognerà provvedere con una spiegazione chiara ed esaustiva, migliore delle mia.
sono andata alla mostra, che è discretamente interessante, e certo, ha ragione c'è un A4 stampato dalla stampante di casa che dice giovedì 12-21. ha proprio ragione tutto in regola, ora tutti lo sanno, telepaticamente, che dentro lo spazio Forma c'è indicazione della modifica dell'orario di apertura. 
esco e fuori, sulle vetrate del locale - quelle che rimangono inaccessibili alla chiusura perchè all'interno di una piazzetta che viene chiusa da cancelli- guardo incuriosita, chi sa mai.
Invece, anche fuori, giovedì: 12-23!

ore 13.52 del 10 marzo 2016 anno del signore. sito ufficiale Spazio Forma, giovedì orario di apertura: 12.00-23.00.


venerdì 4 marzo 2016

l'illusione Art Nouveau

leggiadra e coloratissima.
una festa per gli occhi, donne bellissime e pregiate che si trasformano in stagioni, stelle, mesi dell'anno, pietre preziose, arti femminili.
una vera gioia, un monumento alla bellezza, ideale, femminile.
c'è anche il divismo di Sarah Bernhardt oltre che le immagini pubblicitarie della vita comune, biscotti profumi e cioccolato sempre veicolate dalla sensualità femminile.
l'Art Nouveau di Alfons Mucha sembra fatta per dimenticare, dimenticare il reale e sognare l'ideale, queste donne appartengono a una fantasia irraggiungibile, le atmosfere floreali, orientali, angeliche, sensuali sono fuori dal tempo, sono gemme di un universo magico.
ho perfino pensato che è bello essere donna, quale sogno, mi sono dimenticata della pesantezza del corpo e dell'anima, sono stata accecata dalla luce fortissima dell'illusione artistica, poi a casa c'erano i letti da rifare e il cardiologo da chiamare.
 
 
Milano, Palazzo Reale, fino al 20 marzo 2016

giovedì 3 marzo 2016

la morte di Danton

mi sono indubbiamente ritrovata, ateatro, tra le note immagini cinematografiche di Noi credevamo e de Il Giovane Favoloso.
l'impronta di Martone è inconfondibile.
la storia è il luogo della sua scena. al cinema come a teatro.
scena che si svolge tra spazi che si aprono e si chiudono mossi e separati da tendaggi rossi, scena che va ben oltre il palcoscenico tra la platea e la galleria, il popolo di Danton siamo noi.
si sente il rumore sinistro e spaventoso della ghigliottina che scende vorticosa al suo traguardo. 
gli attori gesticolano molto, le mani si muovono vorticose a sottolineare le parole, hanno le pose della propaganda, della messa in scena del potere, del comizio, dell'arringa in tribunale, della sentenza.
il movimento di scena è molto ampio, è spazioso, arioso, sembra in effetti di essere al cinema, Martone amplifica il teatro, lo allarga, lo espande, con la concitazione di scene di gruppo che hanno la potenza della fisicità, della voce, del movimento, dello sguardo.
gli attori sono tanti, direi che una massa di uomini e donne si muove sulla scena.
anche questo è un evento, si, direi un evento teatrale.
abituati da tempo a un teatro minimale, stilizzato, negli allestimenti e nei personaggi, qui siamo nella pienezza, nella moltitudine, nel corpo scenico.
non mi capitava da anni, o forse mai, di vedere una tale quantità di personaggi a teatro, l'effetto è veramente poderoso, a tratti sembra di assistere davvero a quacosa che sta accadendo in quel momento. il mondo è tutto ciò che accade.
il personaggio più interessante è quello di Robespierre e il suo interprete è molto convincente, Paolo Pierobon.
il personaggio più accattivante è quello di Danton e il suo interprete è molto bravo, Giuseppe Battiston.
due personaggi e due attori diversi, due versioni del mondo e della recitazione diverse, e, proprio per questo, che bei momenti di vita e di arte, ieri, al Piccolo Teatro di Milano.
il testo è ricchissimo, lo cerco disperatamente sul web e non trovo nemmeno una riga, vorrei riportarlo, così carico di dramma e di storia, di parole piene e vigorose, di testimonianza dell'epoca del terrore, della paranoia erudita di Robespierre, dell'intelligenza gogliardica di Danton.
emerge la megalomania messianica di Robespierre, che si declamava uomo virtuoso, incorruttibile, inflessibile, chiamato a creare uno «Stato della virtù»: doveva rigenerare completamente il mondo, formando un nuovo popolo. «Noi — scriveva — vogliamo un ordine di cose in cui tutte le passioni basse e crudeli sono incatenate, e tutte le passioni generose e benefiche sono risvegliate dalle leggi. Noi vogliamo sostituire la morale all’egoismo, la probità all’onore, i princìpi agli usi, l’impero della ragione alla tirannide della moda, tutte le virtù e tutti i miracoli della Repubblica a tutti i vizi e al ridicolo della monarchia».
si delinea, contrapposta, la stanchezza di Danton, abbandonata la foga omicida della rivoluzione, lontano dal manicheismo giacobino di Robespierre e dall'idea che il terrore sia giustizia, pronta, severa, inflessibile giustizia, la disillusione della praticabilità di una rivoluzione permanente che cerca conforto nel godimento e nei piaceri l’unica soluzione alla limitatezza della della conoscenza delle cose e degli uomini: “Conoscersi? Dovremmo scoperchiarci il cranio e strapparci vicendevolmente i pensieri dalle fibre del cervello”.
incapace di distinguere tra dissenso e tradimento, il Robespierre di Paolo Pierobon è già febbricitante, austero, quasi monacale, in preda alle sue paranoie complottiste e ai suoi deliri sul regime assoluto della Verità e della Virtù, ormai vittima condannata dalla storia il Danton di Battiston non può liberarsi dalle maglie del delirio dell'antico compagno, l'onda forte e ancora inarrestabile di una rivoluzione che avrebbe voluto trasformare in ipotesi politica lo travolge, progressivamente sfatto e trasandato, al suo terrore finale.

splendido spettacolo teatrale.
onore a Büchner, onore a Martone.