bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 30 maggio 2013

La vita vi si torce In alberi forti E ritorti La vita vi morde La morte A quattro palmenti Nel bruire dei venti.

se si accede a google search e si digita Soutine -immagini,
se si accede a google search e si digita Utrillo-immagini,
se si accede...e si digita Modigliani-immagini,
la pagina del pc si riempe, zeppa, strabordante di immagini dei quadri degli autori.
quel che si vede, ripetuto in decine di immagini, affiancate, vicine, tutte quelle che ci stanno in quella pagina web, è un modo, una visione del mondo, unica, irripetibile e allo stesso tempo sempre uguale.
si vede lo stile.
l'impronta, lo sguardo, il tatuaggio che si imprime su ogni tela.
certamente chi colpisce di più, per la violenza, di tutto e in tutto, è Soutine. è un macello, di colori forme e strappi. un inferno su tela.
questo e gli altri autori me li sono goduti alla mostra di Milano, Palazzo Reale, "Modigliani, Sautine e gli artisti maledetti. La collezione Netter."
Amedeo Modigliani - La bella spagnola o Madame Modot - 1918 - Olio su tela, cm 92 x 50 - Torino, Società Culturale Subalpina - © Collezione Privata






























Si è inaugurata a Palazzo Reale la mostra “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter": oltre 120 le opere in mostra per ricostruire il percorso degli che vissero a Parigi nel quartiere di Montparnasse agli inizi del ‘900: Modigliani, Soutine, Utrillo, Suzanne Valadon, Kisling e molti altri. La mostra, in programma a Palazzo reale dal 21 febbraio all’8 settembre 2013, è promossa dall’Assessorato alla Cultura, Moda e Design del Comune di Milano, Palazzo Reale, Arthemisia Group e 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE. Le opere in mostra risalgono tutte ad un periodo affascinante e fondamentale della storia dell’arte. Periodo che di lì a poco verrà definito bohémien e che, come scrive il curatore Marc Restellini, vede “questi spiriti tormentati" esprimersi “in una pittura che si nutre di disperazione. In definitiva, la loro arte non è polacca, bulgara, russa, italiana o francese, ma assolutamente originale; semplicemente, è a Parigi che tutti hanno trovato i mezzi espressivi che meglio traducevano la visione, la sensualità e i sogni propri a ciascuno di loro. 
Ed è a Parigi, ‘l’unico luogo al mondo in cui la rivolta ha il diritto di cittadinanza’, prima a Montmartre e poi a Montparnasse, che quegli artisti – tutti ebrei – si sono ritrovati per tentare la sorte". Ed ebreo era anche Jonas Netter, una figura fondamentale per gli artisti in mostra, senza il quale molti tra loro non avrebbero avuto di che vivere e dipingere: il percorso espositivo mette a confronto i capolavori acquistati nell’arco della sua vita da Netter, che, affascinato dall’arte e dalla pittura, diventa un estimatore illuminato e un acuto riconoscitore di talenti. 

tutti ebrei, la maggior parte provenienti da Russia, Polonia e altri paesi dell'est, tutti a Parigi, accolti e commissionati dall'illuminato, e buon affarista, Jonas Netter, un'assemblea di artisti più o meno geniali, quasi tutti segnati da un'esistenza infame all'insegna di povertà, miseria, alcoolismo e malattie. Utrillo, che ritrae deliziosi scorci di Montmartre, figlio naturale della pittrice e modella Suzanne Valadon, altra artista tutta sui generis per modi e stile di vita, era alcolizzato dal'età di 13 anni, la nonna gli curava i violenti accessi epilettici con buone dosi di vino.





CORNI DA CACCIA 
 La nostra storia è nobile e tragica
 Come la maschera d’un tiranno
 Né drammi audaci o ammaliatori
 Né indifferenti minuzie
 Sanno rendere patetici i nostri amori

 E Thomas de Quincey succhiando
 L’oppio veleno dolce e casto
 La povera Anna andava sognando
 Passiam passiamo ché tutto passa
 Mi volterò all’indietro spesso

 Sono i ricordi corni da caccia
 Il cui bruito muore nel vento
(Guillame Apollinaire )

Modigliani,sbarcato a Parigi nel 1906 sentendo che quello era il posto dove avrebbe potuto “salvare il suo sogno”, sempre malato, malandato, alcoolizzato, misero squattrinato, con suoi visi lunghi, gli occhi vuoti, la mani aperte, l'arte africana nella testa, cerca bellezza e dolore, cerca le porte che aprono i misteri. "Non cerco me, cerco l'inconscio", e pare che posare per lui valesse l'esperienza di farsi spogliare l'anima.



ZONA 
... 
Una famiglia si trascina un piumino rosso come voi il cuore 
Quel piumino e i nostri sogni sono altrettanto irreali 
Alcuni si fermano qua e vanno ad abitare 
In Rue des Rosiers o in Rue des Écouffes in catapecchie 
Li ho visti spesso di sera prendono una boccata d'aria per la strada 
E di rado si spostano come i pezzi degli scacchi 
Ci sono soprattutto ebrei le mogli hanno la parrucca 
Se ne stanno sedute esangui in fondo alla botteguccia 
Sei al banco d'un bar tra i più malfamati 
Prendi un caffè da due soldi in mezzo agli sventurati 
Sei di notte in un gran ristorante 
Queste donne non sono cattive hanno i loro pensieri ciò nonostante 
Anche la più brutta ha fatto soffrire il suo amante 
Suo padre è di Jersey nelle guardie giurate 
Le mani che non le avevo visto son dure e screpolate 
Provo un'immensa pietà per il suo ventre cucito 
Umilio ora la mia bocca su una povera ragazza dall'orrendo riso 
Sei solo sta per arrivare il mattino 
I bidoni del latte tintinnano nelle vie 
La notte s'allontana come una bella meticcia 
È Ferdine la falsa o Léa la premurosa 
E tu bevi quest' alcool che brucia come la tua vita 
La tua vita che bevi come un'acquavite 
(Guillame Apollinaire ) 

Soutine, ebreo russo, viene descritto come selvaggio, puzzolente, lercio, di carattere chiuso, bizzarro, isolato, e così sono i suoi quadri, crudi, spietati, sanguigni, angoscianti, vibranti di morte, demoniaci, senza misericordia.




TORBIERE DI VALLONIA 
Tristezze tante e plenarie 
Mi strinsero il cuore nelle squallide torbiere 
Quando stanco mi riposai nelle abetaie 
Pesante di chilometri al rantolo 
Del ponentino 
Avevo lasciato il bel bosco 
Gli scoiattoli rimasti lì 
La mia pipa cercava di formare nuvole 
Nel cielo 
Che restava ostinatamente puro 
Non ho confidato nessun segreto se non una canzone enigmatica 
Alle torbiere umide 
Le eriche profumate di miele 
Attiravano le api 
E indolenziti i miei piedi 
Calpestavano mirtilli e mortelle 
Teneramente sposata 
Nord
Nord 
La vita vi si torce 
In alberi forti 
E ritorti
La vita vi morde 
La morte 
A quattro palmenti 
Nel bruire dei venti. 
(Guillame Apollinaire )

lunedì 27 maggio 2013

MIA fair

è la stessa location in cui si svolge, a ottobre, lo yoga festival. Via Tortona, zona sempre più cool di Milano.
è la stessa concezione dell'esposizione sull'Arte Accessibile visitata, con grande successo, ad Aprile durante il Salone del Mobile.
MIA Fair, Milan Image Art Fair
padiglioni.
moltissimi.
e foto.
moltissime, ma anche di più.
troppe per ricordarle tutte.
troppe perché mi piacessero tutte.
me ne è piaciuta qualcuna, peraltro per lo più di autori già a me noti.

quel che mi sembra di annotare, da subito, è che la fotografia oggi, per rendersi appetibile, per motivi che non so, forse supponendo che per rendersi tali bisogna necessariamente essere molto originali, si complica, si arrovella, si appesantisce, perdendo di gran lunga in bellezza.
alla fine chi veramente mi piace sono gli Jodice, i Mulas, i Gardin, gli Scianna, i Branzi. i classici dei classici.
tra i giovani apprezzo quelli che non ingannano con costruzioni iperboliche, falsificazioni, foto irrealistiche, foto indigeribili, foto che somigliano più ai quadri che alla fissazione dello sguardo.
un compromesso lo devo fare, mi rassegno, il trend digitale è inarrestabile, ma non posso dire di rimanere a bocca aperta.
ne metto qui alcune, dovendo scegliere, che tra un po' mi scoppia il blog!!, sparse, mischiando le carte, vecchie e nuove, senza nomi degli autori...arrangiatevi anche un po'.
















giovedì 23 maggio 2013

Miele

non è facile raccontare il rapporto con la morte.
è facilissimo dire cose ovvie o fanatiche o ideologiche o anche semplicemente molto stupide.
nel film diretto da Valeria Golino e interpretato da Jasmine Trinca e da un meraviglioso Carlo Cecchi si cerca di non dire troppo, anzi si sta molto attenti a non dire nulla, in linea di massima si assiste ai movimenti che la morte, il suo pensiero, il suo desiderio o paura, induce negli esseri umani. quelli sani e quelli malati. quelli che desiderano rimanere vivi e quelli che agognano morire.
l'unica cosa che ho proprio sentito dire, da Miele, nome in codice dell'angelo della morte, la dispensatrice di barbiturici che uccidono senza dolore, è che nessuna delle persone che lei ha incontrato, nessuna e proprio nessuna, di quelle che l'hanno contattata per essere condotti dolcemente nel sonno senza ritorno, nessuna voleva veramente morire. erano solo stanchi di vivere una vita senza nome e senza dignità.
bisognerebbe capire la distinzione tra desiderio di morire e desiderio di non vivere più una vita senza senso, forse non sono la stessa cosa o forse invece esattamente si. nella mia vita professionale, pur essendo in realtà esposta molto più della media nazionale all'incontro con il suicidio, non posso dire di avere avuto modo di farci i conti molto spesso. mi ricordo sopra ogni altro un ragazzo, psicotico, angosciato, isolato dal mondo, risucchiato da una madre malata a sua volta, bipolare gravissima, e soprattutto incapace di separazione dal proprio figlio, rimasto bambino fino all'età ormai adulta. ho avuto notizia del suo suicidio per defenestramento dopo mesi che non lo vedevo più, mentre era ricoverato in comunità, proprio là dove avrebbe dovuto riabilitarsi, ricostruirsi, separarsi. invece la separazione è stata totale, definitiva, senza ritorno. 
ero molto giovane, assolutamente inesperta, la notizia mi colse su un piano molto personale, come nella mia professione non deve accadere.
ma è proprio su questo aspetto, quello del versante psichiatrico del desiderio di morte, che il film, la storia che racconta, trova il suo orizzonte visivo interessante. finché si tratta di profondere morte, per professione, a malati terminali, la coscienza di Miele procede diritta, senza intoppi, senza angosce, né ripensamenti, quando è il malato depresso che chiede di morire, la macchina dispensatrice si blocca. Miele va in crisi, si fa domande, entra in angoscia, non ce la fa più a viaggiare fino in Messico per procurarsi barbiturici per cani che in Italia non si vendono più. 
è lecito, legittimo, giusto, doveroso consentire di morire a chi non si muove più, paralizzato in ogni sua parte, dal letto, a malati distrofici o ritardati mentali gravissimi, a malati terminali oncologici, a pazienti in coma irreversibile ma non non lo è più se lo chiede un malato di depressione maggiore, melancolico, isolato, solo, disgustato, disancorato dalla vita? un depresso può consegnarsi alla morte da solo, può buttarsi giù dalla finestra, no? tagliarsi le vene no? o come ha tentato, senza riuscirci, una mia paziente infermiera somministrandosi insulina, no? dov'è il limite tra la miseria esistenziale delle due condizioni patologiche? perché in un caso è lecito e nell'altra la coscienza fa un sussulto e protegge la vita cercando addirittura di renderla migliore. Miele si avvicina al malato depresso, cerca quasi di dissuaderlo, di volergli bene, di restituirgli un senso. ma non troverà un senso da donare alla vita dell'altro, lo troverà per se stessa.
il libero arbitrio vale solo per chi è paralitico o anche per chi decide coscientemente di porre fine a un'esistenza che dispensa torture dal primo respiro cosciente del mattino fino al sonno che somiglia tanto alla morte?
ho una paziente, anziana, di 85 anni, una donna di un'intelligenza superiore, dotata di uno spirito, una consapevolezza, un'acutezza mentale, una visione critica, una profondità morale, una curiosità culturale, una tenacia e caparbietà volitive che non ho mai conosciuto in nessuno. ha due figli disgraziatissimi, uno handicappato e una malata mentale bipolare con gravi difficoltà di adattamento alla vita. una donna la cui intelligenza, però, ha completamente mascherato, forse offuscato, o negato, la capacità affettiva. lo dice da sè, di aver vissuto la maternità mai in termini affettivi, di vicinanza fisica, viscerale, ma sempre come un mandato morale. desidera morire, ogni giorno che vive al mondo, desidera solo morire. mi ha chiesto, non sapendo nemmeno come si accende un pc, di fornirle informazioni sui centri svizzeri che praticano l'eutanasia.
l'ho fatto.
non lo farà mai, sa bene che il suo mandato, fino all'ultimo respiro, è di accudire quei figli che, senza di lei, saranno perduti, in un mondo civile, e parliamo di Milano, non dell'Uganda, che non fornirà loro nessuna assistenza adeguata, una vita dignitosa.
l'ho fatto.
sono un angelo della morte?

martedì 21 maggio 2013

lei non sa

Quando mette in ordine
le cose sparse intorno a lei,
cosa significa mai
un pensiero che

la racchiuda-
il nesso sta
altrove. Lei lo
sa e non lo sa. Sono

soltanto i suoi movimenti
le sue braccia
non le cose. E

poi quello sfinimento
quella calma, che di nuovo
la confonde, e la fa

ricominciare a ordinare
quel che
mettere in ordine non si può.

Rolf Dieter Brinkmann
1967


ecco la poesia. parole e immagini. bisogna sapere cosa farsene, della poesia.
bisogna mettere nella poesia qualcosa di nuovo, qualcosa che non è già lì, ma che è suggerito dall'effetto che la poesia ha su di noi: facciamo qualcosa con essa, piuttosto che comprenderla. parliamoci con la poesia. e lasciamoci parlare.

lunedì 20 maggio 2013

a ripentirsi, quasi.

il libro è finito così. e proprio non capivo.
c'è un errore mi sono detta.
la narrazione si interrompe su un punto assolutamente non risolutivo, una frase qualunque, in un momento sospeso e drammatico, così drammatico da non poter rimanere sospeso.
e invece è proprio così. fine del discorso, senza soluzione, senza colpevole, senza soluzione del mistero.
arrangiatevi, voi lettori.

« Fuori il nome ! » urlò don Ciccio. « La polizzia lo conosce già chesto nome. Se lo dite subbito, » la voce divenne grave, suasiva: « è tanto di guadagnato anche pe vvoi. » « Sor dotto, » ripetè la Tina a prender tempo, esitante, « come j' 'o posso dì, che nun so gnente? » « Anche troppo lo sai, bugiarda, » urlò Ingravallo di nuovo, grugno a gnigno. Di Pietrantonio allibì. « Sputa 'o nome, chillo ca tieni cà: ot' 'o farà sputare 'o brigadiere, in caserma, a Marino: 'o brigadiere Pestalozzi. » « No, sor dotto, no, no, nun so' stata io ! » implorò allora la ragazza, simulando, forse, e in parte godendo, una paura di dovere: quella che nu poco sbianca il visetto, e tuttavia resiste a minacce. Una vitalità splendida, in lei, a lato il moribondo autore de' suoi giorni, che avrebbero ad essere splendidi: una fede imperterrita negli enunciati di sue carni, ch'ella pareva scagliare audacemente all'offesa, in un subito corruccio, in un cipiglio: « No, nun so' stata io !» Il grido incredibile bloccò il furore dell'ossesso. Egli non intese, là pe' Uà, ciò che la sua anima era in procinto d'intendere. Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell'ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi.

è mai possibile che un libro, giallo, noir, dopo tutta 'sta girandola di personaggi e situazioni, finisca con un quasi?
ho veramente pensato a un errore, prima tecnico, poi umano, dell'ingegner Gadda stesso, ma poi no, nessun errore, nemmeno umano, solo desiderio caparbio che il pasticciaccio brutto rimanga brutto e insoluto, rimanga appeso a un quasi, come la vita. c'è forse qualcuno che ha risposte ai suoi gialli familiari, ai suoi pasticciacci brutti de via merulana?

Ebbene, nella terza scena si riassume l’intera vicenda sentimentale e sociale di Tina e Liliana. Tina era l’amante di Liliana e non merita di essere trattata come fa la signora alla presenza del commissario Ingravallo; Liliana si è meritata il comportamento di Tina, che non si fa vedere al suo funerale. E Liliana potrebbe persino essersi meritata la morte, anche per avere rotto bruscamente la loro relazione con un immotivato licenziamento: la rotazione di serve e figlie adottive con cui Liliana surroga l’assenza di figli. L’assassina (Tina?) aveva mandato un messaggio per svelare la natura delle relazioni che Liliana ha con figlie e serve: lasciando «violentemente» sollevate fino al petto le gonne di Liliana morta o morente. Dunque un delitto passionale, come sin dall’inizio aveva congetturato Ingravallo. Il quale nella prima pagina del romanzo ha indicato nell’interesse e nell’erotìa due tra i fattori principali del comportamento umano. Tina è una ragazza povera che vive in ambiente che ha la sua cifra fondamentale nella miseria. Difficile distinguere quanto nel suo comportamento sia dovuto alla condizione sociale da cui ha impellente interesse a liberarsi e quanto si deve alla relazione sentimentale e sessuale avviata da Liliana, la bellissima, elegante e dolce signora che utilizza la propria ricchezza per “asservire” le ragazze che hanno urgenza di abbandanare i luoghi natali, quelli che danno il tremendo spettacolo finale nell’agonia del padre di Tina. Chi è più colpevole a questo punto fra Liliana e Tina, ammesso che questa sia l’assassina per via di una negazione che afferma? 
Di cosa si pente allora Ingravallo? Forse di essere arrivato a una conclusione che comporta la condanna di Tina? Si pente di essere un poliziotto che ha il dovere di arrestare chi ha compiuto il reato? O il dovere sarebbe quello di valutare i fatti come farebbe un loro sottile e più veritiero interprete, cioè un narratore la cui sensibilità vada oltre i fatti? Di quante cose non deve pentirsi un uomo in presenza della morte: per ora l’altrui ma presto anche la propria! Gadda è alla fine del romanzo, che forse è anche l’ultimo della sua vita. Quella che ora sta scrivendo forse è l’ultima pagina. E infatti poi non scriverà altro, anche se promette di riprendere il Pasticciaccio per portarlo a termine. Gadda può anche credere di doverlo completare, ma è il romanzo a dire no. È arrivato dove «doveva» arrivare? Quasi. 
(WALTER PEDULLÀ - Il finale di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana)

nella meraviglia e nello stupore di questo lessico gaddiano, così ricco da saziarsi per il resto della vita letteraria, mi vengono in mente le descrizioni del duce, dell'italia fascista, della retorica e vuoto trionfalismo.
arriverderci ingegner Gadda.

e vai col buce testa di morto:
Vigeva ora il vigor nuovo del Mascellone, Testa di Morto in bombetta, poi Emiro col fez, e col pennacchio, e la nuova castità della baronessa Malacianca-Fasulli, la nuova legge delle verghe a fascio. Pensare che ce fossero dei ladri, a Roma, ora? Co quer gallinaccio co la faccia fanatica a Palazzo Chiggi?

Il caso Pirroficoni non aveva ancora afflitto le cronache dell'Urbe: il Testa di Morto in feluca sitiva già, per altro, la penna di pavone dell'indiziato, da potersela infilare dove lui s'infilava le penne: de pavone o de pollo guasto che puzza.

Il Pirroficoni avea fatto, com'e' suole, alcuna carezza alla bimba: il quale atto, e il di cui rossore, lo perdettero. Su questo bell'indizio il Testa di Morto in pernacchi eruttò che « la polizzia romana in meno di 48 ore eccetera eccetera ». E il birro, confortato dall'alta parola del buce, dagli a stangare.

Di maschio, in casa sua, non c'era che lui: a non computare la maschia boce del buce, che di quand'in quando gli risonava nelle camere timpaniche suscitandovi tonifìcatrici risonanze, rivitalizzandogli non meno che a dodici milioni d'italiani la capa, anzi: ch'era, la sua, na capa marescialla, per quanto scaltra.

Ereno i primi boati, i primi sussulti, a palazzo, dopo un anno e mezzo de novizzio, del Testa di Morto in stiffelius, o in tight: ereno già l'occhiatacce, er vommito de li gnocchi: l'epoca de la bombetta, de le ghette color tortora stava se pò dì pe conclude: co quele braccette corte corte de rospo, e queli dieci detoni che je cascaveno su li fianchi come du rampazzi de banane, come a un negro co li guanti. I radiosi destini non avevano avuto campo a manifestarsi, come di poi accadde, in tutto il loro splendore. La Margherita, di ninfa Egeria scaduta a Didone abbandonata, varava ancora il Novecento, el noeufcént, l'incubo dei milanesi di allora. Vacava alle mostre, ai lanci, agli oli, agli acquerelli, agli schizzi, quanto può vacarci una gentile Margherita. Lui s'era provato in capo la feluca, cinque feluche. Gli andavano a pennello. Gli occhi spiritati dell'eredoluetico oltreché luetico in proprio, le mandibole da sterratore analfabeta del rachitoide acromegàlico riempivano di già  L'Italia Illustrata: già principiavano invaghirsene, appena untate de cresima, tutte le Marie Barbise d'Italia, già principiavano invulvarselo, appena discese d'altare, tutte le Magde, le Milene, le Filomene d'Italia: in vel bianco, redimite di zàgara, fotografate dal fotografo all'uscire dal nartece, sognando fasti e roteanti prodezze del manganello educatore. Le dame, a Maiano o a Cernobbio, già si strangolavano ne' su' singhiozzi venerei all'indirizzo der potenziatore d'Italia. Giornalisti itecaquani lo andavano intervistare a palazzo Chigi, le sue rare opinioni, ghiotti ghiotti, le annotavano in un'agendina presto presto, da non lasciarne addietro un sol micolo. Le opinioni del mascelluto valicavano l'oceano, la mattina a le otto ereno già un cable, desde Italia, su la prensa dei pionieri, dei venditori di vermut. « La flotta ha occupato Corfù ! Quell'uomo è la provvidenza d'Italia. » La mattina dopo er controcazzo : desde la misma Italia. Pive ner sacco. E le Magdalene, dai: a preparar Balilli a la patria. Le macchine de la questura « stazzionaveno » : ar Collegio Romano.

venerdì 17 maggio 2013

Gordon Parks


sono belle, bellissime e basta.
Gordon Parks.
nelle ultime foto, un bellissimo vecchio, nero con i capelli bianchi.
faccia buona.
faccia intelligente.
Spazio Forma di Milano.
da vedere.









“Those people who want to use a camera should have something in mind, there's something they want to show, something they want to say”. 
Gordon Parks 

Gordon Parks è un narratore unico dell'America, in grado con il suo apparecchio fotografico e la sua capacità di comprendere e scavare dentro le pieghe della società, rivelare le ingiustizie e i soprusi, portare alla luce la storia di chi non aveva voce per gridare la propria storia. Tra i fotografi più importanti del ventesimo secolo, dagli anni Quaranta fino alla sua morte, nel 2006, Parks ha raccontato al mondo, soprattutto attraverso le pagine della rivista Life, la difficoltà di esser nero in un mondo di bianchi, la segregazione, la povertà, i pregiudizi, ma anche i grandi interpreti del ventesimo secolo, il mondo della moda e perfino le grandi personalità del mondo in pieno cambiamento, come Malcom X, Muhammed Ali e Martin Luther King. Personalità eclettica come non mai (“Uomo del Rinascimento”, veniva chiamato già ai tempi della sua collaborazione con Life), oltre che fotografo Parks è stato regista, scrittore, musicista, poeta e se il suo lavoro sfugge a una semplice catalogazione, forse la chiave per comprenderlo al meglio è quella del narratore di professione, lo storyteller della tradizione orale che usa la sua stessa esperienza, vissuta e sofferta, per comporre le storie. In tutta la sua carriera, Gordon Parks ha cercato di raccontare molte storie, illustrandole con immagini esemplari. Storie di gruppi di persone che lottano per sopravvivere, piccole comunità lontane dal mondo, personaggi alla deriva o già sotto i riflettori che però devono essere compresi meglio di quanto non accada. Vere o verosimili, nate dai drammi profondi, vissute sulla sua stessa pelle di ex ragazzo nero condannato a morire prima di nascere o costruite nell’alchimia della pura finzione, le storie di Gordon Parks sono tutte autenticamente sentite, tutte raccontate come visioni genuine e nate dalla volontà di incidere sulla realtà, affermando attraverso il racconto per immagini la propria opinione e la necessità di gridarla forte al mondo. La mostra di Forma è la prima grande retrospettiva europea dedicata la suo lavoro, alla sua profonda poesia, alla sua fotografia classica, potente e profondamente cinematografica.

giovedì 16 maggio 2013

ascoltando

ascoltando Amos Oz, scrittore israeliano, e il suo Tra amici, libro leggero ma intelligente, acuto e sottile, una raccolta di racconti che fanno il giro tra gli abitanti di un kibbutz, piccole cellule sociali improntate alla solidarietà e alla condivisione di tutto, anche dei figli, mi ha colpito la storia di un padre che guarda attonito e dolente la figlia di 18 anni che intreccia una storia d'amore con un uomo, suo amico, di almeno trent'anni più vecchio di lei: la guarda e la vede bambina, come non è ma come non sa vedere diversamente.
ascoltando ho focalizzato quel che non mi voglio dire ma che da sempre so, che pur non potendomi definire una madre ansiosa o controllante o apprensiva -no- non so lasciar andare. non mi fido, non credo che ci sia già la capacità di un fare autonomo e non so lasciare andare, non ci credo ancora, che tu sia adulto. no non ci credo e, lo vedo bene, non allento il mio sguardo protettivo, il mio bisogno di dirigerti, il mio bisogno di dirti come devi fare. e di soffrire vedendo che non lo fai, rifiutandomi per poter crescere, a modo tuo.
per ora non c'è soluzione, alla negazione del riconoscimento della mia parola, corrisponde solo un infinito dolore, che non passa e mai passerà perchè la tua parola non sarà mai la mia, ma solo la tua.
bisogna saper attendere, aspettare senza suggerire soluzioni non richieste, senza prevenire i bisogni.
e così dovrà essere.


lunedì 13 maggio 2013

your wounds will be named silence

Your wounds will be named silence - fotografie di Robin Hammond.
“Their suffering, in generations to come, their collective wounds, will be named silence.”
da “A poem for Zimbabwe” di Chenjerai Hove.

Robin Hammond racconta in un intenso reportage la situazione odierna dello Zimbabwe.
Ex colonia britannica, nel 1980 il paese conquista l’indipendenza ma da allora quelli vissuti dalla popolazione locale, anziché anni di libertà, sono stati 33 anni di violento deterioramento causati dal regime della violenza imposto dal dittatore Robert Mugabe.
Robin Hammond ha visitato lo Zimbabwe per la prima volta come giornalista nel 2007, per poi tornarvi spesso nei cinque anni successivi. Ogni volta, ha lasciato il paese combattuto tra due opposti sentimenti, uno misto di sgomento e repulsione, l’altro, ugualmente forte, di profondo attaccamento per le sorti di un Paese in bilico.
Le sue immagini raccontano un Paese costellato da scheletri, quelli delle fabbriche un tempo funzionanti e delle case abbandonate o distrutte e quelli, ancora più agghiaccianti, dei corpi degli abitanti piegati dalle malattie e dalle privazioni. Attraverso le sue immagini incontriamo comunità fatte di vecchi e bambini, dove i giovani uomini sono stati uccisi o sono scappati all’estero. Attraverso i suoi occhi osserviamo la paura e il dolore di un Paese e la sconfitta di quella che avrebbe potuto essere una grande nazione africana.
“Lo Zimbabwe è ormai una terra caduta nell’oblio. Oggi, senza alcuna luce puntata sull’ombra nera dell’incessante tirannia di Robert Mugabe, l’oppressa popolazione di una delle più belle e indomabili nazioni africane, si sente, a ragione, abbandonata dal resto del mondo. Le modeste speranze degli abitanti dello Zimbabwe sono state divorate dalla malvagità e dalla cupidigia dei politici; ora la popolazione non ha più nessuno a cui rivolgersi e, contro le atrocità commesse dalla polizia e dai militari, nessuna forza per gridare aiuto dall’oscurità in cui è immersa. Attraverso il lavoro Your Wounds Will Be Named Silence il premiato fotoreporter Robin Hammond offre, con sguardo critico, la propria voce a questa generazione perduta di africani che lottano incessantemente con la morte a causa di malattie, povertà e disinteresse.
Testimoniando la disperazione di una nazione, a rischio della propria vita e di quella dei collaboratori abbastanza coraggiosi da aiutarlo, il fotografo riporta sotto i riflettori una delle più importanti e durature emergenze africane, ponendola in uno spazio in cui nulla può ostacolare la libera espressione e la protesta, cosicché le voci dei perseguitati abitanti dello Zimbabwe possano venire di nuovo udite e ascoltate.”
Dan McDougall, Corrispondente pluripremiato per l’Africa del The Sunday Times of London

La mostra ospitata a Forma raccoglie gli scatti più significativi di questo lavoro che si è aggiudicato il Premio Carmignac Gestion per il Fotogiornalismo 2011.
La mostra è a cura di Alessandra Mauro e Robin Hammond.
Robin Hammond è un fotoreporter nato in Nuova Zelanda 37 anni fa. Dal 2007 fa parte dell’agenzia fotografica Panos. Vincitore di quattro Amnesty International awards for Human Rights journalism, Robin ha dedicato la propria carriera alla documentazione dei diritti umani e dei problemi legati allo allo sviluppo in particolare dell’Africa sub-Sahariana. Dopo aver trascorso alcuni anni tra Giappone, Gran Bretagna e Sud Africa, Robin Hammond attualmente vive a Parigi.







queste foto le ho viste associate ad un'altra mostra, quella di Gordon Parks, allo Spazio Forma che, potrei direi, è quasi ormai l'equivalente di casa mia..
quindi non sono andata a vedere questa mostra, l'ho vista solo perchè andavo a vedere l'altra, più pubblicizzata e di un più noto, meritevolissimo, artista.
quindi non ho alcun merito ma solo la fortuna di portarmi in giro, ovunque ci sia qualcosa da vedere e che ritengo in qualche modo interessante.
questo fotografo, Robin Hammond, è bravo, molto bravo, le sue foto giornalistiche mi piacciono, sono espressive oneste asciutte, ed è una rarità, i suoi ritratti su sfondo nero sono di una bellezza commovente, e io mi sono commossa.

ma sono stata rapita da tutta l'operazione di informazione sulla condizione dello Zimbawe, terra dimenticata come moltissime altre e non potrebbe essere che così. non si può conoscere tutto, nè tutto il bene nè tutto il male, almeno io non posso. ma almeno se vedo mi fermo a guardare.
e nemmeno questo è un merito. probabilmente un dovere.

venerdì 10 maggio 2013

IgorIvanAlexej

Hotel Hyatt di Milano. Ristorante Vun. Chef Andrea Aprea. napoletano rivisitato, ovvero la tradizione che si proietta nel futuro.

si festeggiano 21 anni insieme.
sorvolo sul preambolo, mortifero come solo io fare e creare e distruggere quando vado completamente fuori di senno, e mi dedico invece al giovane cameriere probabilmente straniero che ci serve e, soprattutto, ci intrattiene, al tavolo.
Igor, Ivan, Alexej, non lo so. il cartellino appeso alla giacca c'è ma non riesco a leggerlo.
si intuisce dall'accento, solo vagamente accennato, fortemente addomesticato, un italiano senza inciampi, ma ne ho la certezza quando parla con la solita famiglia russa -vestita con cattivo gusto, madre padre figlio 10 anni e figlia 15, annoiata come solo la ricchezza più sfrenata può annoiare, sbracata come solo il lusso può educare, russa, chiaramente riccamente sfondatamente russa-. è russo.
bene, IgorIvanAlexej, è un fenomeno.
un vero fenomeno, un vero patriota, italiano.
non capisco bene cosa dice, parla moltissimo, fa lunghissimi discorsi, potrei dire che tiene dei sermoni o comizi, racconta del cliente giapponese e della cucina francese e della bravura dello chef e della giusta misura nel mangiare ed è molto compreso nel ruolo e soprattutto è molto italiano. il lessico è eccellente, la sintassi un po' meno, parla molto ma non è chiaro, io non colgo tutto il senso dei suoi discorsi ma quel che capisco è il senso di una forte appartenenza, e chissà forse riconoscenza, alla comunità che lo ha accolto, quella italiana, e che lui sposa fedelmente totalmente visceralmente.
è strepitoso, una difesa della bandiera dei costumi della cultura della civiltà (!) italiana che, ormai, nessun italiano più si sognerebbe di sostenere.
mi è venuto il dubbio di un atteggiamento adottato con la clientela.
noto che la sommelier -la, è una donna- e tutti i camerieri hanno un atteggiamento scolasticamente educato  all'attenzione ossessiva e maniloquente per il cliente. un atteggiamento servilmente elegante, un rispetto anche delle richieste probabilmente più capricciose. l'istruzione e il mandato devono essere molto chiari: o sei un servo fedele o sei fuori di qui.
ma il nostro IgorIvanAlexej è un fenomeno e nessuno gli ha chiesto di fare il tifo per l'Italia.
noto anche che solo da noi si ferma per svariati minuti nell'intrattenimento turistico sui beni della città e della patria Italia, deve aver pensato che, a questo tavolo, si poteva permettere, e con successo, di esprimersi liberamente...in fondo è sempre una questione di transfert!
lo chef cucina sfiziosità interessanti ma calca la mano, non tutto è all'altezza della napoletanità futuristica, si mangia buon cibo condito a volte di delusione, con la percezione gustativa di una presunzione immatura, ma IgorIvanAlexej rimarrà nella memoria dei camerieri più italiani d'Italia.

giovedì 9 maggio 2013

cosa fare del resto che si è

sabato e domenica, 11 e 12 maggio, c'è il convegno della scuola lacaniana di psicoanalisi.
ci vado, e spero di capire.
quel che capisco per ora è che ciò di cui si parla mi riguarda così da vicino che quasi mi fa paura.
l'irriducibile resto del godimento mortifero è una roccia che non si scardina, c'è solo da aggirarla, come altri meglio di me scrivono in preparazione del congresso. 
li riporto, leggendoli e rileggendoli, perchè la psicoanalisi resta e rimane e permane un mio grande sogno e desiderio.

Nel 1920, nel saggio Al di là del principio di piacere, Freud affronta proprio il punto relativo all’Io e a qualcosa particolarmente paradossale che l’Io del soggetto attua. Dall’analisi che ne fa, giunge ad una nuova ed ulteriore elaborazione metapsicologica, modificando per la terza volta la sua teoria delle pulsioni. Dopo anni di esperienza, Freud è costretto a domandarsi come mai, tutti i pazienti, durante il lavoro di analisi, mettono in atto delle resistenze contro l’analisi medesima. Come mai i soggetti che giungono dall’analista con una domanda di cura, che si lamentano delle sofferenze che i propri sintomi infliggono loro, che trascorrono una vita fatta d’inibizioni, angosce, limitazioni, ad un certo punto e reiteratamente lungo l’analisi, mettono in atto degli agiti che si traducono in resistenze all’analisi ostacolando il suo avanzamento? Ciò che l’analista constata è che l’analizzante agisce, nella relazione con lui, le medesime modalità sintomatiche di legame che lo hanno portato in analisi. Chi si lamenta di essere sempre maltrattato, ad esempio, agisce dei comportamenti tali per cui si farebbe maltrattare dall’analista. È chiaro che l’analista non risponde precisamente in questo modo, ma è fondamentale che l’analista si giochi lì la partita cruciale dell’analisi e che ne tenga conto nel modo in cui risponderà nei momenti in cui l’analizzante, nel transfert, metterà in atto gli stessi meccanismi autodistruttivi che mette in atto ogni volta nella sua vita. Freud aveva considerato, fino a quel momento, che l’apparato psichico tendesse prevalentemente al piacere, cercando di evitare le situazioni che potessero essere fonte di dispiacere. In tal senso, le richieste pulsionali non possono che recare dispiacere, destabilizzazione, andando in un verso del tutto diverso rispetto ad uno stato di quiete, voluto dall’Io. Per non aver a che fare con tali richieste l’Io mette in atto una difesa, che gli consente di intraprendere quella che si presenta come la strada più comoda, più consona a se stesso, alla sua stoffa e che, contemporaneamente, sembra esigergli, nell’immediato, meno lavoro. Come spiegare, però, alla luce del principio di piacere l’istaurarsi, nell’analisi, delle resistenze? Nel saggio del 1920, Freud giunge ad una rivoluzionaria conclusione teorica, che sarà relegata ad un secondo piano dalla maggior parte degli analisti post-freudiani, ma che sarà ripresa da Lacan, dandole un luogo fondamentale nella teoria e nella clinica. Ciò che conclude Freud è che l’esperienza clinica della resistenza, così come altre, sia l’espressione di una coazione a ripetere che non è prodotto della libido. Occorre pertanto dedurre che sia presente nel soggetto umano un altro genere di pulsione, non sessuale, ma distruttiva, di morte. Ecco che Freud giunge alla sua terza ed ultima teoria pulsionale: c’è Eros, la pulsione di vita, il cui fine è il legare e Thanatos, la pulsione di morte, il cui fine è la distruzione. Da questo punto di vista, in realtà, i poli piacere-dispiacere vanno rivisti. La questione in gioco per il soggetto non è più quella di ottenere piacere o dispiacere di per sé. La questione è che in ogni soggetto c’è Eros ed anche Thanatos e che il piacere è al servizio della pulsione di morte. Come colloca Freud la pulsione di morte in relazione alla fine dell’analisi? La pulsione non va liquidata, ma imbrigliata, ci dice Freud. Non si tratta, dunque, di eliminarla (come cerca di fare l’Io, mettendo in atto una difesa); l’analisi non ha la finalità di cancellare la pulsione. L’analisi, per Freud, ha la funzione di rettificare il processo di rimozione. Salviamo la pulsione e salviamo anche l’Io; ciò non significa però che alla fine dell’analisi entrambi non abbiano subito delle importanti modificazioni. Li salviamo in modo tale che la prima sarà ben incanalata e potrà essere al servizio della soddisfazione del soggetto, ed il secondo avrà esaurito tutti i modi in cui metteva in atto la sua difesa espulsiva in relazione al soddisfacimento pulsionale ed in relazione a tutto ciò che gli rammentava tale soddisfacimento, a partire dal fatto che appariva Altro da sé. Alla fine, l’ultimo atto espulsivo sarà nei confronti del proprio modo di espellere. L’analisi non può essere finita se l’Io del soggetto non ha accettato, definitivamente, di accogliere che c’è l’Altro da sé, modo in cui il non rapporto strutturale si manifesta. Alla fine dell’analisi il soggetto constata che l’alternativa è trovare ogni volta un modo di fare con ciò. Questo può essere un altro modo di dire della rettifica del processo di rimozione. Infine, per Freud e per Lacan, alla fine dell’analisi rimangono delle manifestazioni residue, dei residui pulsionali. Non tutto il pulsionale può essere metabolizzato dal simbolico, vi è un resto che ciascuno avrà trovato il modo di bordare. Che c’è Thanatos vuol dire che c’è dell’indicibile in modo irriducibile. Questo non può essere modificato; ciò che sì può cambiare con l’analisi è il rapporto di ciascuno ad un indicibile. Accettarlo realmente ci consente di trovare delle soluzioni possibili ogni qualvolta esso si presenti.





Cosa fare del resto che si è
Giovanna Di Giovanni

 All’inizio dell’analisi è l’angoscia, che viene a velare lo scompensarsi del sintomo. Lacan dice che il soggetto si rivolge all’analista affinché gli sveli il perchè del suo malessere, nella speranza che “il fatto di comprendere non lo libererà soltanto dall’ignoranza, ma dalla sofferenza stessa. “ ( Lacan, Sem. VII,p. 11 ) La richiesta infatti rivolta all’analista è di felicità, dicono Freud e Lacan, , ma se l’analista “ si fa garante che il soggetto possa in qualche modo trovare il suo bene nell’analisi è una sorta di truffa. “ (Lacan, Sem VII, p.380) Ciò che infatti l’essere umano, l’analizzante, ritrova non è il bene a cui anela, ma piuttosto la traccia con cui il significante eternizza la nostalgia per l’oggetto da sempre perduto. Scoprirà così la derelizione solitaria, il nucleo di reale insondabile di fronte al quale anche l’angoscia è un riparo e la realtà stessa una difesa. Lacan interroga anche la posizione dell’analista, che “accoglie il supplice, nella sua domanda di non soffrire, almeno non soffrire senza comprendere” ( Lacan, Sem. VII , p. 11), indicando la posizione “ impossibile” come quella del “santo”. E tuttavia, Lacan ,come già Freud, sottolinea che nel transfert, nell’andata e ritorno dell’elaborazione del fantasma, il sapere lascia intravedere il godimento irriducibile. Oltre il velo, a tratti, emergente negli attimi di vacillazione dell’essere, appare la roccia, contro cui infrangersi oppure intorno alla quale, come intorno a una sorta di boa con un misterioso ancoraggio nell’ imperscrutabile fondo dell’essere, condurre la navigazione della vita. Si può dire , in certo senso, sia questo il passaggio dell’irriducibile resto da Freud a Lacan, come servirsi di ciò che non si può traversare. Lasciando tutti gli Ideali a cui di volta in volta si era identificato , anche quello che gli è apparso nell’analista, il soggetto arriverà a scoprire che l’oggetto ha un nucleo di scarto e che lui stesso è tale, un reale liberato dal senso ( JA Miller, Un grande disordine nel reale, nel XXI° sec.), da mettere in gioco nell’estemporeneità più totale. L’analisi infatti accompagna il soggetto sulla soglia dell’azione, oltre ogni Ideale, per fare qualcosa di ciò che egli è, perchè si faccia egli stesso strumento per lavorare la mancanza che lo abita, che è al cuore dell’essere, nell’incontro ogni volta casuale, contingente. ( Lacan, Sem. XX) Tale percorso è tanto più necessario per l’analizzante nel suo passaggio ad analista, al di là dell’accomodamento trovato col sintomo, per fare del suo nucleo di reale la bussola con cui orientarsi nel discorso del paziente, non certo per proporre un’identificazione immaginaria ad una ancora ideale normalità , ma invece paradossalmente per coglierne la singolarità irriducibile. Questo, nella responsabilità solitaria che l’autorizzarsi da se stessi non diminuisce, ma rende anzi incommensurabile. 


Sapere o non sapere? Questo è il problema
Cristiana Santini

Dopo aver sondato tutto il dicibile, aver creduto che si trattasse di saperne di più, aver sperato nella conoscenza, nella sapienza, alla ricerca della “verità”, si giunge all’incontro con il reale. Con emozione, finalmente capisci di cosa si tratta, di cosa stavano parlando, ma la gioia dura poco perché a quel punto vedi la melma soffocante in cui sei immerso. Sono le tue parole, le loro parole, sono tutte le storie che mandano avanti le vite di ciascuno, in un determinismo agghiacciante. Improvvisamente, ti sembra di poter prevedere le mosse tue e degli altri, è tutto mortalmente scontato, proprio come ti raccontava il più intelligente fra i tuoi pazienti “difficili”. Tu hai dovuto fare una analisi per arrivare “lì dove lui è nato”, come soleva dire. Lui aveva dovuto costruire qualcosa, che gli permettesse di sopportare quel vuoto dell’essere che, se ci guardi dentro, ti risucchia. Aveva dovuto imparare il gioco del “fare come se”, accettare di essere un po’ dupe, di lasciarsi un po’ ingannare dal linguaggio, per non essere schiacciato dalla sensazione di non trovare un senso, che gli permettesse di vivere. L’analisi mostra la banalità della vita, la sua inconsistenza. Tutta la tragicità, con cui avevi cercato di darle dignità, rivela la sua natura teatrale. I resti di questo smantellamento sono carcasse vuote, che costellano un deserto dalla luce accecante, in cui non c’è più niente da scoprire, nessuna verità. Sei affranto, solo e spossato. Poi, succede qualcosa, se decidi che succeda. Quell’incertezza, quell’assenza di senso, mancanza di riferimenti logici e numerabili, quel tempo che non è più successione di attimi, ma uno stare, che cancella e riassume ogni volta ciò che non è più, tutto questo diviene possibilità. Di nuovo, l’opposto di quanto descriveva un’altra paziente “difficile”, molto intelligente (sono spesso intelligenti): “solo quando ho smesso di oppormi alle definizioni altrui, ho accettato i nomi che mi fornivano, ho potuto veramente contrastarli, non subirli più, permettermi il mio metodo”. Nella nevrosi, solo quando si rinuncia alle definizioni, alla verità che si suppone nascosta nel senso, si crea un vuoto che produce un movimento vitale, creativo, al di fuori del sapere, che finora era comunque dell’Altro, della struttura. E’ il famoso “farne a meno a condizione di servirsene” che, nella psicosi, si potrebbe declinare in “accettarlo a condizione di non crederci”. La ricerca di sapere all’interno della logica del senso, del sistema significante, rimane dell’ordine del saputo; come dire che si tratta di far emergere qualcosa che c’è, che ti sa, che ti parla. Oltre, c’è un sapere che ha a che fare con il reale: si tratta di un atto creativo, sapere è saperne sulle condizioni stesse dell’essere, è dell’ordine dell’esperire intrecciato con l’agire, un farsi carico, prendersi la responsabilità della propria esistenza perché si trasformi in una vita possibile. Questo sapere o non sapere corrisponde all’essere o non essere scespiriano. Un atto in grado di riportare la parola alla sua funzione di segno, traccia, marchio oltre l’illusione ipnotica del senso. 

Il resto come cardine nel passaggio da analizzante ad analista 
 Domenico Cosenza 

 “Il passaggio da psicoanalizzante a psicoanalista ha una porta il cui cardine è questo resto che fa la loro divisione; infatti questa divisione è soltanto quella del soggetto, di cui tale resto è la causa” (Scilicet, “Proposta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola”, p. 28-29) 
 Questa frase di Lacan, introduce il resto come cardine della porta che si apre quando un analizzante passa ad occupare la posizione di analista. E’ un battito, un momento decisivo, e al contempo l’esito di un processo di lunga durata e per nulla naturale nei suoi esiti. Può accadere che questo passaggio avvenga illusoriamente più sulla spinta di un’identificazione all’analista e all’ideale che incarna, piuttosto che come atto causato da quella mutazione nell’economia del proprio desiderio che Lacan chiama il desiderio dell’analista. In questi casi il praticante si trova la porta immaginariamente aperta dall’Altro, che può quindi in ogni momento richiudergliela, tenendolo fuori. Ma si tratta di un passaggio da analizzante ad analista immaginario, e non reale. Nella mia esperienza mi accadde per la prima volta di vedere una paziente in un tempo troppo precoce rispetto al mio lavoro di elaborazione in analisi, avendo ricevuto appunto (così almeno lo avevo inteso) più un via libera immaginario dall’Altro, che un’autorizzazione reale a partire da una trasformazione della mia economia di desiderio che la sostenesse. Ero ancora impelagato nel riconoscimento della trama delle identificazioni narcisistiche di cui era intessuta la mia identità, da non avere avuto che un sentore lontano di quel resto di godimento attorno a cui esse giravano. L’effetto che ricordo fu effettivamente di mancare del cardine essenziale su cui far poggiare la mia posizione rispetto all’ascolto della parola della paziente. Silenzi che stonavano, parole che volevano dire troppo. Mi mancava ancora la bussola del reale. La sensazione soggettiva era di avere compiuto una forzatura dei miei tempi logici rispetto all’autorizzazione ed al passaggio all’analista. Cosa che mi indusse dopo due o tre incontri a lasciare perdere per alcuni anni l’idea di praticare, e a dedicarmi sostanzialmente alla mia analisi. Quando decisi di incontrare alcuni anni dopo un paziente qualcosa era mutato in me. Non ebbi più quella sensazione di assenza di cardine che avevo sperimentato anno prima con quel protoinizio o pseudoavviamento della pratica, campo di esperienza di cui potrebbe essere interessante poterne fare una clinica. Ai problemi mai mancanti nella pratica analitica iniziavo a fare fronte a partire dal cardine della bussola del reale, facendo del resto di godimento a cui la mia analisi iniziava a condurmi il vettore a partire da cui il mio ascolto si orientava verso il punto di reale del paziente emergente nel cardine del suo dire.

lunedì 6 maggio 2013

luci e chiarori nel buio

queste foto sono di Franco Bacoccoli.
persona a me sconosciuta fino a qualche settimana fa quando ho visto la sua piccola ma apprezzabile esposizione alla Casa di Vetro di Milano.
è un giornalista, rock, che ama fotografare le città di notte, Milano, Vienna, Londra, New York.
un vizio interessante, non particolarmente originale, ma a volte i risultati sono gradevoli. i giochi di luce, le insegne dei negozi, le indicazioni stradali, i lampioni, i riflessi del bagnato sull'asfalto, piccole e brevissime poesie.
piccoli bagliori nel buio, niente più.
“Le luci che mi attirano – spiega – sono quelle che suggeriscono aloni di mistero, di solitudine, di immaginario. Sono quelle in grado di evocare lontananze, di ritagliare spazi gentili di quiete nell’immobilità della notte”.