bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 28 novembre 2014

il femminile impossibile da sopportare

“L’uomo che vuole imporre la sua diversità con la violenza fa pensare che nascere donna sia quasi un invito al delitto. L’Uomo non riesce ad abdicare al proprio trono selvaggio e ci sono donne, così stupide come me, che provano intolleranza mista ad amore verso ‘i portieri di notte’. Io non lotto per le anime delle donne, per la loro rivendicazione civile e sessuale. (…) Checché se ne dica la donna un poco ama la violenza che sta come l’ombra alla luce, la notte al giorno”. 

 Alda Merini

voce fuori dal coro, come sempre la Merini. una considerazione, analitica, sulle donne interessante dal mio punto di vista, la pubblico oggi e non il 25, giornata mondiale  contro la violenza sulle donne, volutamente.
e pubblico questo bellissimo articolo di Monica Vacca tratto dall'Ebook a cura dell'Istituto Freudiano:
FEMMINICIDIO. IL FEMMINILE IMPOSSIBILE DA SOPPORTARE.
(raccolta di testi di rappresentanti istituzionali, giuristi, psicoanalisti e operatori del sociale riunitisi a Roma il 17 Maggio 2013 alla Casa Internazionale delle Donne)
da leggere. 

Monica Vacca 
Crisi. Crisi economica, crisi politica, crisi spirituale, crisi istituzionale. È lecito domandarsi che cosa succede? Niente è più quel che era. Qualcosa nel sistema è imploso. Se da una parte i nostalgici non mancano di rievocare la tradizione, dall’altra un nuovo vento soffia. Vento che soffia nella rete. La rete è il teatro di incontri amorosi, relazioni interpersonali, movimenti politici, anche il Papa twitta. Non si può più fare a meno della rete. Ci troviamo in un’era dominata dal discorso della scienza e dal discorso del capitalismo-finanziario. “Sono Introduzione12 i due discorsi che prevalgono nella modernità e che dall’inizio, dalla loro apparizione, hanno cominciato a distruggere la struttura tradizionale dell’esperienza umana ”. Si è sgretolata la funzione del simbolico. E “il disagio della civiltà” si estende.Nel 1938, anno delle leggi razziali, Jacques Lacan mette in luce “il declino sociale dell’imago paterna”. Ma già da qualche anno era in atto la ripulitura sociale sostenuta dall’Eugenetica. I primi a essere sterminati sono stati i bambini handicappati e i malati psichici, quelli che Hitler chiamava “vite indegne di essere vissute”. Nel 1967, Lacan a proposito dei campi di concentramento, in modo profetico afferma “Abbreviamo per dire che ciò che abbiamo visto emergere, con nostro orrore, rappresenta la reazione di precursori riguardo a ciò che andrà sviluppandosi come conseguenza del rimaneggiamento dei raggruppamenti sociali a opera della scienza e segnatamente dell’universalizzazione che essa introduce qui. Il nostro avvenire basato sui mercati comuni troverà la sua bilancia con una sempre più dura estensione dei processi di segregazione”. Un anno dopo nel 1968, Lacan articola l’evaporazione del padre con la segregazione: “Noi pensiamo che l’universalismo, la comunicazione della nostra civiltà omogeneizzi i rapporti tra gli uomini. Al contrario io penso che ciò che caratterizza la nostra era - e non possiamo non accorgercene - è una segregazione ramificata, rinforzata, che fa intersezione a tutti i livelli e che non fa che moltiplicare le barriere”. Ecco le coordinate che costituiscono ciò che oggi definiamo come multiculturalismo e globalizzazione. In passato il padre funzionava come garante e come principio regolatore. Oggi invece niente è più al suo posto. Se da un lato l’Uno del mercato spinge, dall’altro il molteplice delle culture esplode. Comanda il mercato globale, “la mano invisibile”. Per dirla con Toni Negri siamo nell’Impero: “L’impero non solo amministra un territorio e una popolazione, ma vuole creare il mondo reale in cui abita. Non si limita a regolare le interazioni umane, ma cerca di dominare la natura umana ”. L’Impero si costituisce dopo la caduta del muro di Berlino, caduta che apre la porta all’ipermodernità. La civiltà ipermoderna si fonda sull’assenza di un principio unico regolatore che tiene insieme il sistema sociale. I principi sono multipli, equivalenti e interscambiabili. Assistiamo al declino di ciò che garantisce l’ordine delle cose. La società della disciplina cede il posto alla società del controllo. Siamo sotto l’egida del biopotere. La scienza si allea alla finanza, identifica i fattori di rischio e attraverso la politica della prevenzione e della guerra giusta produce nuove forme di segregazione, vite di scarti. L’ipermodernità è il tempo dell’accelerazione. Muta la nozione di spazio e di tempo. La società diviene “liquida”. Una nuova geografia sociale prende corpo: famiglie monoparentali, ricomposte, allargate, omosessuali. L’ordine della famiglia si sovverte. Cade la famiglia come sostegno alla sceneggiata del rapporto sessuale, quello che Freud chiamava Edipo. Siamo nell’era del dopo Edipo. La maternità era dell’ordine della natura, la paternità aveva lo statuto della legge, della parola, della fiducia. Oggi l’esame del DNA mostra la certezza della paternità. Si sfalda la nozione di natura, di ordine naturale che legava donna e maternità. La disgiunzione tra procreazione e sessualità prende avvio con l’introduzione del contraccettivi, per poi consolidarsi con l’aborto, e infine prende la rincorsa con l’avvento delle biotecnologie: la fecondazione assistita, la fecondazione eterologa, l’utero in affitto. Non più mater certa est. Nell’epoca della comunicazione generalizzata la parola perde consistenza e lascia il posto all’acting-out e al passaggio all’atto. I legami sociali si allentano, si disfano. “ciò che è stato rigettato dal simbolico riappare nel reale”, in particolare ritorna sotto forma di violenza, di odio e di razzismo. Le pratiche di rottura dilagano. Si legge sempre più spesso di femminicidi, di violenza domestica, di violenza bruta tra giovanissimi. Possiamo dire con Lacan che “la violenza è l’aspetto essenziale dell’aggressione, almeno sul piano umano. Non è la parola è esattamente il contrario. Ciò che si può produrre in una relazione interumana è o la violenza o la parola”. 
Sulla violenza domestica 
A livello mondiale la violenza domestica è la causa principale di morte o lesioni nelle donne tra i 16 e i 44 anni. Nel mondo una donna su 3 è stata picchiata o è stata vittima di abusi da parte del partner. In Italia, nella fascia di età tra i 16 e i 50 anni, le donne muoiono più per violenza domestica e sessuale che per malattia o incidenti stradali. Dal 2002 al 2012 sono state uccise 2061 donne. Il 10% delle donne in Europa è vittima di stupro o di tentato stupro. 127 femminicidi nel 2012 di cui il 70, 8% perpetrato in ambito familiare o affettivo. A maggio del 2013 si rilevano 27 femminicidi. Morti annunciate, nella maggior parte dei casi l’assassino era stato denunciato per violenze, atti persecutori, maltrattamenti. Non mancano le polemiche sui dati, ma al di là dei numeri ci troviamo qui ad affrontare un tema spesso mal-trattato e sfruttato dai media. Oggi abbiamo l’opportunità di offrire una possibile lettura di questo fenomeno che non è altro che la punta di un iceberg, la cui parte sommersa fatta di soprusi, maltrattamenti, violenze ogni giorno si consuma avvolta dal silenzio. Silenzio assordante. Il 25 giugno 2012 la relatrice speciale delle Nazioni Unite Rashida Manjoo afferma: “A livello mondiale la diffusione degli omicidi basati sul genere ha assunto proporzioni allarmanti, culturalmente e socialmente radicati, questi fenomeni continuano a essere accettati, tollerati e giustificati, e l’impunità costituisce la norma… Le donne è come se vivessero sempre “nel braccio della morte”. La violenza non è più un problema privato ma politico. Dunque quelle morti annunciate sono a carico delle Istituzioni che non si adoperano per far fronte al fenomeno. E’ arrivato il tempo di parlare, di gridare NO MORE. 
Ma che cosa è il femminicidio? Neologismo cacofonico introdotto da Marcela Lagarde, antropologa messicana. Il femminicidio è la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotta dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine. Per dirla con Pierre Bourdier “la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile” di dominio dell’uomo sulla donna”. Ma c’è un al di là da mettere in luce, al di là che si apre a partire dalla pratica clinica. Dunque una politica orientata dall’inconscio, dalla logica del caso per caso. Se da un lato il mandato sociale è aiutare le donne, dunque promuovere una serie di servizi per il bene e la salute delle donne, dall’altra l’orientamento psicoanalitico introduce una dimensione etica che mira alla singolarità e che oltrepassa la logica universale vittima-carnefice. La pratica clinica ci mostra che c’è una certa regolarità nella vita del soggetto, qualcosa si ripete nel modo di soddisfarsi, nel modo di godere, nel modo di stare al mondo, nella scelta del partner. La scienza dal canto suo tenta di rendere conto della relazione tra i sessi, della relazione con l’Altro. I laboratori scientifici vogliono scrivere le condizioni soggettive dell’amore, della felicità, dell’attaccamento affettivo genitoriale o amoroso. Uno studio recente, pubblicato in diversi giornali ha osservato che più l’ossitocina è presente nel cervello degli individui più la relazione amorosa sembra forte e duratura. Da quando si può prevedere il potenziale di una relazione amorosa con il dosaggio dell’ossitocina? Da quando si può rivitalizzare una coppia con l’aiuto periodico dell’ossitocina? E l’odio? Un interrogativo si palesa. L’odio è legato a un difetto di ossitocina o all’azione di un altro ormone? 
Con Freud e Lacan invece possiamo dire che l’amore e l’odio hanno a che vedere con il godimento. Dunque è necessario riprendere il cammino tracciato da Freud, cammino che si è interrotto sulla “roccia basilare”, “il rifiuto della femminilità”, ostacolo per uomini e donne,“ quell’inspiegabile intreccio di Eros e Thanatos, l’odio che nasce ogni volta dall’amore, nella vita personale come nella sfera pubblica”. Lacan nel 1971 afferma “È buffo che tutto questo abbia preso la forma di una idealizzazione di una razza, ossia della cosa che in quella faccenda centrava di meno. (…) Ma intanto occorre dire che non c’è nessun bisogno di una tale ideologia perché si costituisca un razzismo basta un plusgodere che si riconosca come tale”. Lacan dunque sovverte la prospettiva non si tratta di ideologia ma di godimento. In Television profetizza l’ascesa del razzismo, specificando che si tratta dell’odio del godimento dell’Altro. Jacques-Alain Miller riprende la questione e seguendo la pista tracciata da Lacan afferma: l’uomo e la donna sono due razze non dal punto di vista biologico ma per quanto riguarda il godimento. A partire da questa sovversione si può aggiungere che il rapporto tra i sessi per gli esseri parlanti non è dato dalla biologia, non è scritto, non si può misurare. Altro accade tra gli animali dove tutto è scritto nell’ordine della specie. Con Freud e Lacan possiamo dire che per gli esseri parlanti l’incontro con l’Altro sesso è sempre problematico. Il malinteso strutturale dei sessi nasce proprio dal linguaggio. C’è una differenza costitutiva fondamentale, differenza spesso impossibile da sopportare. “Questo significa che, invece di usare la squisita cortesia animale, agli uomini capita di stuprare una donna, o viceversa”. Freud termina la sua ricerca su un interrogativo, che cosa vuole una donna? E definisce la donna “un continente nero”, un enigma per l’uomo, ma anche per la donna stessa. Poco prima di morire ci ricorda che le analisi si arrestano per uomini e donne su un punto cieco “il rifiuto della femminilità”. Lacan a partire dalla strada tracciata da Freud va oltre, afferma che la donna non esiste, ma esistono le donne. Detto altrimenti non c’è nell’inconscio un significante che la dice donna. Infatti o la si diffama (ditfemme) o la si idealizza. La violenza, l’odio, il disprezzo si palesano ogni volta che la donna non si fa trovare là dove un uomo la posiziona. Si assiste a un paradosso più l’emancipazione della donna avanza, e più l’uomo perde la sua identità e la perseguita “o mia o di nessun altro”. 
Ma questo non vuol dire che non ci possa essere un incontro felice tra un uomo e una donna, fondato sulla parola d’amore.

tratto da
FEMMINICIDIO.
IL FEMMINILE IMPOSSIBILE DA SOPPORTARE
Interventi del 17 Maggio 2013
Casa Internazionale delle Donne - Roma
(http://www.istitutofreudiano.it/sites/default/files/femminicidio.pdf)

Copyright 2013, Il Cortile - Consultorio di psicoanalisi applicata,
Istituto freudiano e la Scuola Lacaniana di Psicoanalisi,
in collaborazione con Parteciparte, Solidea, Tavolo Pari Opportunità
- Comitato Più scuola meno mafia, Casa Internazionale delle donne.

giovedì 27 novembre 2014

big change big chance

In un saggio di qualche anno fa (La carità che uccide, Rizzoli), l'economista zambiana Dambisa Moyo imputava all'Occidente la persistente povertà dell'Africa. Non causata, come si potrebbe pensare, dalla mancanza di aiuti economici, quanto dal suo esatto contrario: uno spaventoso flusso di denaro (oltre mille miliardi di dollari a partire dagli anni Cinquanta) che da una parte ha viziato e impigrito l'economia del Continente Nero, adagiatasi in una sorta di adolescenza senza fine, dall'altra ha fatalmente alimentato la corruzione nei Paesi politicamente meno strutturati.  
Una situazione complessa e in rapida evoluzione che oggi è oggetto anche di una mostra dedicata dalla Triennale di Milano all'Africa ( Big Change, Big Chance , fino al 28 dicembre), per spiegare le dinamiche delle sue grandi trasformazioni attraverso l'architettura intesa nel suo senso più ampio (urbanizzazione, costruzione di infrastrutture, conseguente gestione del territorio e salvaguardia dell?ambiente, oltre alle opere dei principali architetti). Problematiche inevitabili e pressanti in un continente dove nei prossimi anni un miliardo di persone, spesso poveri destinati a costituire un nuovo ceto medio, lascerà i villaggi attirato da megalopoli come Lagos, Maputo, Nairobi, il Cairo o da altre in costruzione (nel 2030 la popolazione urbana dell'Africa, 748 milioni, supererà quella complessiva dell'Europa, 685 milioni).
La mostra appare più un inizio che una fine, enuncia delle problematiche ed esorta a studiarle, a decodificarne il significato. «Il titolo che abbiamo scelto riassume la posta in gioco: in Africa ci sono grandi cambiamenti, e quindi grandi opportunità. È una specie di laboratorio globale dove è ancora possibile sperimentare, e quello che succederà in quei Paesi, tra eccessi, progetti ambiziosi e fenomeni inquietanti, servirà a comprendere il futuro dell'intero pianeta - dice il curatore Benno Albrecht-. Mostriamo le grandi trasformazioni territoriali, i progetti che riguardano le nuove città, lo sfruttamento delle acque con le dighe, la produzione di energia con impianti solari ed eolici, l'arresto della desertificazione attraverso la riforestazione, sempre secondo modalità diverse da quelle a cui siamo abituati. Quello che è chiaro è che in Occidente non abbiamo ancora gli strumenti mentali e concettuali per comprendere davvero cosa significhi una città africana abitata da svariati milioni di persone, cioè un probabile modello urbanistico e sociale alternativo alle città occidentali e asiatiche contemporanee. In Africa le categorie e i parametri di tradizione europea e americana non funzionano. Dobbiamo studiare ancora a lungo e inventarci strumenti concettuali che non abbiamo ancora individuato».  
Parilli Marcello -  Corriere della sera 20 Ottobre 2014

mostra molto interessante, immensa infinita non finiva più. allestimento straordinario.
la Triennale di Milano si conferma luogo di enorme fermento e vitalità, è un posto dove vado, insieme ad alcuni altri, sempre molto ma molto volentieri.
una mostra sull'Africa, e chi se l'aspettava, ben modulata, così ricca di immagini e informazioni, così declinata e distribuita: reportage di progetti architettonici, immagini di realtà architettoniche, fotografie (alcune strepitose).






(foto di Kiripi Katembo, Pierrot Men, Ali Charaibi, Justine Punkett)

Il “contesto planetario” sta cambiando a causa della scarsità di risorse fossili, ormai in accertato esaurimento, della pressione antropica, oggi dotata di una immensa potenzialità tecnica, della situazione demografica, in impetuoso aumento, dell’incremento dell’urbanizzazione, della globalizzazione dell’economia ed anche del pensiero. 
Occuparsi dell’Africa dal punto di vista dell’architettura, intesa nel suo senso più ampio, significa occuparsi di un luogo in cui stanno sviluppandosi alcuni dei fenomeni più interessanti, complessi ed anche inquietanti di questi ultimi anni. 
La mostra AFRICA Big Change Big Chance vuole rendere palesi le dinamiche delle grandi trasformazioni in corso in Africa. 
Il cambiamento – Change – riguarda in particolare i fenomeni di concentrazione urbana. Nel 2030 anche le regioni che oggi hanno il minor tasso di urbanizzazione saranno a maggioranza con una popolazione residente nella città. 
La possibilità – Chance – è impersonata dai protagonisti della scena dell’architettura in Africa dal dopoguerra, dal modernismo tropicale, ad oggi. Sono gli interpreti di una progettualità impegnata nella proposizione di una nuova modernità, il cui interesse travalica le ragioni specifiche, estetiche e tecniche, e fa riflettere attorno a problemi più generali, di assetto complessivo delle città e delle modalità di intervento. 








oltre all'interesse suscitatomi da immagini e progetti, riqualificazioni e sogni, in un territorio a me totalmente sconosciuto -lo conoscerò mai un po' di più?- e lontano, e che immagino caldo, povero, malato, torturato dalla guerra e dalla segregazione-emarginazione ma anche bollente di evoluzioni, natura, possibilità, la Triennale ha allestito una mostra in modo eccellente, anche questo mi piace, la cura nelle cose. 








È il solito dilemma «bifocale» di quando pensiamo all'Africa: troppo piena o mezza vuota, la frontiera della maggiore crescita o il pantano della più resistente povertà, promessa di nuove megalopoli sostenibili o inferno di sterminate baraccopoli. Gli africani sono tanti o pochi? È vero che se oltre il Mediterraneo e soprattutto oltre il Sahara le donne continueranno ad avere in media 4,7 figli a testa, la popolazione complessiva quadruplicherà prima di fine secolo: da 1,1 a 4,2 miliardi di abitanti. E allora entro il 2100 quasi un ragazzo su due nel mondo sarà africano. Però non sbaglia chi sostiene che quello rimane un continente relativamente deserto: con il 25% delle terre emerse conta oggi solo il 15% della popolazione mondiale. L'Asia, il più (densamente) popolato, ospita 137 persone per chilometro quadrato. L'Africa appena 39. C'è posto per altri abitanti, scrive l'«Economist». Ma come sarà quel posto? Come saranno «le Afriche» che si affacciano sul domani?
...
La finestra di opportunità rappresentata dal «dividendo demografico» (più persone in età da lavoro, meno bocche infantili o anziane da sfamare) non resta aperta in eterno: l'Africa diventerà vecchia prima che ricca? L'altro giorno alla Triennale, mentre percorrevo le sale di Big Change , ho chiesto a un monaco francescano amico di missionari cosa pensasse della mostra: «Bellissima -ha risposto- Questa è la storia, anche architettonica, dell'Africa: bravissima a fare pasticci, a mischiare il vecchio e il nuovo». L'Africa vista con la lente «bifocale»: grandi pasticci, grandi cambiamenti.

Michele Farina- Corriere della sera 20 Ottobre 2014

lunedì 24 novembre 2014

la frontiera del giornalismo

L’ultima frontiera del narcisismo beota

di Claudio Magris

IL COMMENTO 
Tempi senza gloria per i detectives, gli investigatori che scoprivano, con pazienti ricerche e sottilissime deduzioni, gli autori dei delitti più efferati, anche quando avevano abilmente celato ogni traccia ed eliminato ogni indizio. Oggi invece un’infermiera sospettata di aver assassinato 38 pazienti in un ospedale romagnolo si fa fotografare ridente con il telefonino accanto al cadavere di una degente, consegnando all’eternità e agli inquirenti una ebete infamia. Immagine perfetta dell’imbecillità oltre che dell’atrocità del male. Il male non è solo crudele; è stupido, «una banale medusa» scriveva Joseph Roth, prendendo a schiaffi gli spiriti gregari affascinati dalla trasgressione ed eccitati dai divieti, magari pure dal divieto di gettare immondizie dai finestrini dei treni. Non occorre commentare la mostruosità del fatto.

 Quella donna che si fa fotografare è un esempio estremo di quel narcisismo beota che sembra diffondersi sempre più, sia fra i delinquenti - gli stupratori che si eternizzano mentre compiono il loro delitto - sia fra gli ipodotati innocui, che sentono il bisogno di comunicare sulla rete a conoscenti e sconosciuti che cos’hanno mangiato la sera prima, chi hanno aiutato per strada, quale maglietta hanno acquistato. Trionfa l’aspirazione a un’eternità da cesso, una paradossale democratizzazione del culto della personalità; ognuno vuole che si sappia tutto di lui o di lei, come il Capo Carismatico vuole che si sappia quando prende in braccio per trenta secondi un bambino. Ognuno è in adorazione delle proprie esternazioni e secrezioni, chiede l’eternità per il proprio calzino e per il numero di cucchiaini di zucchero che mette nel caffè. Cani, diceva Federico II ai suoi soldati che fuggivano, volete vivere in eterno?

23 novembre 2014 | 08:40
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ah però, Claudio Magris, che commento, no? tagliente, sarcastico e, sopratutto, definitivo.
quando l'ho letto ieri sul giornale sono rimasta molto colpita dal testo, dalle parole, dal giudizio.
sono andata a sentirlo a BookCity, l'ho ascoltato parlare delle diversificazioni dell'espressione letteraria, ovvero, in pratica, della sua esperienza, in qualità di scrittore, come giornalista. ha iniziato giovanissimo, a 17 anni, sul Messaggero Veneto, ma attualmente, e da anni ormai, scrive sul Corriere della Sera.
ed eccolo qui. 
ciò che ascoltato da lui, lo devo dire, in quella lezione non corrisponde a quel che ho letto sul giornale e riportato qui.
intendiamoci, sono molto in linea sull'osservazione di fondo, o meglio di sottofondo, dell'articolo, la denuncia di una comunicazione urgente e immediata, per lo più senza senso se non, in questo caso, mostruosamente immorale e oscena, che vorrebbe eternizzare il momento ma, siccome è volta ad ogni singolo momento, non solo non eternizza proprio niente ma squalifica proprio tutto. una mercificazione di ogni atto, una pornografia diffusa, anzi pervasiva, inarrestabile, inquinante, nauseabonda, rivoltante. anche senza il cadavere sullo sfondo. 
a dirla tutta quel che si vede in quell'immagine dell'infermiera con aria esultante, di una gioia quasi infantile, ritratta vicino al cadavere di un'anziana signora (presunto cadavere si legge sull'articolo del collega del Corriere che riporta la notizia, ancora si stanno facendo delle indagini) è l'esatta concretizzazione, la precisa corrispondenza in un'immagine di quel che si produce con selfie ininterrotti, come orgasmi multipli, e commenti postati ovunque, disponibili a chiunque e volutamente a cani e porci, è esattamente il tentativo annaspante di nullificare l'inevitabile morte ma, inconsapevolmente, facendo della morte, del godimento mortifero, il vero unico compagno, sostenitore, e ispiratore di questi atti sconsiderati e ripetuti all'infinito, senza mai reale piacere né soddisfazione. una foto in allegra compagnia della morte, ed ecco il nostro tempo immortalato per i posteri.
ma, come dire, da un favoloso scrittore e saggista, nonché giornalista, come Claudio Magris, che mi ha insegnato, in quella lezione, che giornalismo significa immergere le parole nello sporco per mantenerle pulite, fonte creativa che deve saper resistere al tempo facendosi verità nel tempo, riflessione nell'atto di scrivere, ascolto, caritatevole, degli altri, non mi aspettavo un'intrattenuta veemenza di questa portata.
la nostra infermiera non la immagino malata di narcisismo beota ma di perversione che si nutre dell'ultimo respiro. la faccia esultante è data dal godimento infantile della somministrazione della morte, come medicina senza scampo di una vita malata, prima di tutto la sua. il male si dimostra ancora una volta banale, come diceva la Arendt, nasce da una quotidianità senza senso, che necessita, anche ma mi sembra il minore dei mali, di una divulgazione virtuale. ma qui non siamo malati del comandamento odierno della condivisione imperativa del colore delle mutande, qui siamo ben oltre, siamo nell'abisso dell'angoscia che nell'esalazione del cadavere trova il suo naufragio e anche il suo sostentamento. 
non siamo nella democratizzazione del culto della personalità (frase buona per berlusconi e casi affini), qui siamo nell'immondizia della perdita di senso, nella disancora dal senso, nella convulsione che scardina la tenuta della legge e del desiderio. siamo nel vuoto simbolico. 
inoltre siamo ancora nel regno delle ipotesi, ci sono ancora indagini in corso, siamo ancora nel dubbio e nella domanda. io scrivo su un blog del piffero, Magris sul Corriere della Sera, credo davvero che l'asprezza del commento, anche un po' fuori tema, andava pensato e ripensato e riflettuto e maturato, francamente, di più, rimandando l'urgenza dell'indignazione. credo. 

giovedì 20 novembre 2014

Royal Library (Kongelige Bibliotek), Soren Kierkegaards Pl. 1, Copenhagen, Danimarca

diamante nero.
biblioteca reale di Copenaghen.
bel posto. mi piacciono moltissimo questi posti.
il diamante, nero, grazie alle lastre di marmo nero e vetro affumicato che formano l'involucro esterno, si affaccia e si riflette sul mare da una parte, si collega al vecchio edificio, alla vecchia biblioteca fondata dal re Federico III, dall'altra. un matrimonio perfetto.











inoltre, al piano terreno, c'è un ristorante Søren K (ovvero Søren Kierkegaard) ove ho avuto anche la fortuna di cenare. ho mangiato bene a Copenaghen e si parla un gran bene della "nuova" cucina danese. qui ne ho avuto un buon, anzi ottimo assaggio. certo che l'ospitalità è un'altra cosa, siamo abituati molto diversamente noi italiani, i modi sono nordici...nessuno si preoccupa del tuo cappotto...




martedì 18 novembre 2014

immaginare la felicità dei morti

Una volta in una poesia ho scritto che “cerco” a volte “di immaginare la felicità dei morti” e penso che anche per i morti la felicità sia la vita. (Giovanni Raboni; Rai, estate 2003)


Tanto difficile da immaginare,
davvero, il paradiso? Ma se basta
chiudere gli occhi per vederlo, sta
lì dietro, dietro le palpebre, pare

che aspetti noi, noi e nessun altro, festa
mattutina, gloria crepuscolare
sulla città invulnerata, sul mare
di prima della diaspora – e si desta

allora, non la senti? una lontana
voce, lontana e più vicina come
se non l’orecchio ne vibrasse ma

un altro labirinto, una membrana
segreta, tesa nel buio a metà
fra il niente e il cuore, fra il silenzio e il nome…

Giovanni Raboni


regalo immenso di BookCity 2014, la presentazione di una raccolta di poesie di Giovanni Raboni, alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. e che bello rivedere, dopo anni!, piazza san Sepolcro.
evento mirabile, la felicità dei vivi, Massimo Cacciari mi ha illuminato di immenso con i suoi commenti sul poeta.
video di Raboni che legge le sue poesie tra le vie di Milano, una stretta al cuore. 

lunedì 17 novembre 2014

BookCity 2014, amenità

mi sono ubriacata quest'anno, di BookCity.
3 giorni di libri, autori, dibattiti, presentazioni.
ho sentito cose eccelse, altre meno, altre inquietanti.
ho avuto anche incontri umani, divertenti alcuni, sconcertanti altri.
mi sono presentata da Recalcati, non da lui in persona suvvia, ma all'auditorium del Museo della Scienza e della Tecnica, per la presentazione del suo libro L'ora di lezione. Per un'erotica dell'insegnamento, con il cartellino del prezzo, fresco fresco, della camicia che indossavo in bella mostra alle signore alle mie spalle. un prezzo modico, un affare, mi si poteva portare via per soli 20 euro. queste simpatiche ragazze mi hanno avvisata, facendomi anche i complimenti per la bella camicia, e abbiamo riso di gusto, anche con la signora di fianco a me che ne aveva ben donde! la suddetta signora a me vicina aveva chiesto alla ragazza che avevo a fianco prima di lei se potevamo scalare di un posto, per farla sedere vicino a un'amica. mi sono prontamente spostata ma l'introversa ragazza vicino a me, molto scocciata, si è categoricamente rifiutata...ma dai, perchè fai così! a testa bassa, ma se potesse potuto urlare la sua rabbia lo avrebbe fatto, ha detto che lei doveva sedere lì, al centro. a pensarci eravamo in una splendida terza fila e la sua posizione era perfettamente centrata davanti al punto esatto in cui era situata la scrivania dalla quale avrebbe parlato il relatore, il magico psicoanalista lacaniano di chiarissima fama (meritata). sono entrata nella ragnatela della sua testa e ho provato molta pena...una delle tante pazienti psichiatriche che popolano il mondo...una forma ossessiva incoercibile la costringeva, probabilmente in un progetto meditato da ore o forse da giorni, a posizionarsi così e in nessun altro modo se non così. chissà con quale fatica aveva ragionato sul modo di procurarsi quel posto, e c'era anche riuscita, ma probabilmente era disposta ad uccidere per questo, soprattutto ora che era stata smascherata. non si è spostata, io si, ma la signora non si è seduta di fianco alla sua amica e non mi è sembrata altrettanto comprensiva, ma almeno rideva del mio costo piuttosto risibile sulla mia schiena.
alla presentazione del libro di Amos Oz, Giuda, alla Sinagoga Centrale, è successo di tutto...
intanto devo dire che devo a BookCity la riscoperta o addirittura la scoperta di luoghi di Milano ormai dimenticati o sconosciuti. nella Sinagoga di Via della Guastalla, e non mi ricordavo nemmeno che esistesse, non sono mai entrata. mi si è spalancato un mondo. sono stata perquisita, come gli altri, prima di entrare, come in aeroporto. circondata da ebrei poco sorridenti, mi sono avventurata nel grande tempio e ho subito respirato aria di segregazione. sono entrata ma chiaramente a casa d'altri, che mi facevano notare che non ero a casa mia. ho il cervello deviato? mi sono seduta, una botta di fortuna insperata a sinagoga ormai stracolma con gente in piedi, di fianco a una donna, non giovanissima che mi ha fatto sedere con clausola: puoi (subito del tu, ma io sono ormai una vecchia signora) sederti ma dovrò alzarmi spesso per lavoro. per me va bene, le ho detto,  mi basta essere seduta e vicino al palco. sono sorda da tre settimane, un'otite catarrale, regalo dell'atterraggio di ritorno da Copenaghen, mi isola completamente dal mondo. un paradosso, o forse proprio no, dato il mestiere che faccio. e anche per la cultura che amo, questa, che mi ha costretto a numeri incredibili per ascoltare la parole degli altri. devo dire che ho imparato che molte parole sono superflue, che il tono della voce ha variazioni incredibili mai notate prima e certamente legate al valore simbolico ed emotivo che quelle parole hanno per il parlante, e che posso anche sentire metà delle cose se per sentire quelle che sento metto un'attenzione spasmodica, che si è decuplicata. una lezione di vita ma spero di tornare tra i vivi udenti il più rapidamente possibile.
la ragazza mi sente tossire e, con una confidenza inaudita che mi conferma l'arditezza del "tu" di poche minuti prima, mi fa notare che ho una brutta tosse e mi sottolinea che la mia camicia, la stessa dell'ora di lezione di Recalcati, non è adatta per le mie condizioni, precarie, di salute. un successo pazzesco 'sta camicia, mai ricevute tante attenzioni in così poche ore da donne a me sconosciute. mi consiglia, inoltre, di andare da un'otorinolaringoiatra. basita, la rassicuro sulle mie capacità di prendermi cura di me da un punto di vista medico ma non demorde. cerca sul cellulare, i-phone ultima generazione, si prende di diritto il foglio su cui annoto delle considerazioni, si prende dello spazio e ci scrive sopra nome e cognome e indirizzo di una bravissima fisioterapista (?) che si può prendere cura di me. per ora è lei che mi dimostra, con una certa foga, che si deve prendere cura di me, mi dice che devo fare il suo nome...Roberta.
a delle affermazioni quanto meno sorprendenti di Amos Oz e del suo intervistatore, Fabio Vacchi, faccio un'osservazione, a voce troppo alta. Vacchi chiede a Oz se è vero che chi tradisce è perchè ama troppo. che dire di tale affermazione? è più stupida la domanda o chi la fa? mi sono permessa di augurarmi che lo scrittore, al contrario del musicista, avesse un'opinione più profonda sul legame tra tradimento e amore. la risposta di Oz è stata quanto meno più adeguata, ovvero che il tradimento è sempre collegato a un sentimento di amore, e intendo che il tradimento prevede un legame, un patto, da tradire. ma Roberta, che mi ha sentito trasalire, si sente in dovere di dirmi questa cosa: questo è  un precetto ebraico, non si può capire. e invece io capisco molto. se qualcosa non si può capire ma lo si adotta lo stesso è per fede, per dogma. questa è la religione e lei ci tiene -ma perchè? perchè ho la tosse?- a parlarmi del suo credo. mi spiega anche che nella religione ebraica è consentito il divorzio, e me lo dice con orgoglio e mi precisa: se una donna non può avere figli, l'uomo può chiedere il divorzio.
e per credere giusto tutto questo, e la sua faccia lo diceva, bisogna avere grandissima eterna incommensurata fede.

sulle preoccupanti incongruenze che ho sentito da Amos Oz, scrittore fino a quel momento amato ed apprezzato moltissimo, su Gesù Cristo nato e morto ebreo (è una questione così interessante? mi domando), mi soffermerò un'altra volta. mi basta ripetere le parole della traduttrice a sostegno della tesi -ma forse era lei in errore, mi sono detta- ovvero che Gesù non si è mai fatto il segno della croce. sogno o son desta?

giovedì 13 novembre 2014

Cimitero Assistens (Assistens Kirkegard) Norrebrogade/Kapelvej, Copenhagen, Danimarca (Nørrebro)

difficile da credere?
eppure questo cimitero, a Copenaghen, è una delle visite in città che mi è piaciuta di più, domenica mattina, in bici,  in giro per i quartieri residenziali.
un luogo indimenticabile.
la concezione del cimitero di questi paesi è lontana anni luce dalla nostra. ammetto la mia passione sviscerata per il Monumentale di Milano che è, appunto, monumentale ed enfatico, fortemente suggestivo ed artistico, ma questi luoghi sono magici, riposanti, distensivi, comunicano pace, un buon rapporto con la vita, con la morte.
Assistens Kirkegard è un parco, prati erbosi, viali, angoli gotici, mamme con bambini, biciclette, silenzio, rispetto, scoiattoli e corvi. il cimitero è un luogo da vivere.
l'autunno e la sua luce hanno fatto il resto, un ricordo unico e irripetibile.








mercoledì 12 novembre 2014

l'infinito viaggiare

Il viaggio sempre ricomincia, ha sempre da ricominciare, come l’esistenza, e ogni sua annotazione è un prologo; se il percorso nel mondo si trasferisce nella scrittura, esso si prolunga nel trasloco dalla realtà alla carta – scrivere appunti, ritoccarli, cancellarli parzialmente, riscriverli, spostarli, variarne la disposizione. Montaggio delle parole e delle immagini, colte dal finestrino del treno o attraversando a piedi una strada e girando l’angolo. Solo con la morte, ricorda Karl Rahner, grande teologo in cammino, cessa lo status viatoris dell’uomo, la sua condizione esistenziale di viaggiatore. Viaggiare dunque ha a che fare con la morte, come ben sapevano Baudelaire e Gadda, ma è anche un differire la morte; rimandare il più possibile l’arrivo, l’incontro con l’essenziale, come la prefazione differisce la vera e propria lettura, il momento del bilancio definitivo e del giudizio. Viaggiare non per arrivare ma per viaggiare, per arrivare più tardi possibile, per non arrivare possibilmente mai.

Ci sono luoghi che affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che incantano perché, già la prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio. Conoscere è spesso, platonicamente, riconoscere, l'emergere di qualcosa magari ignorato sino a quell'attimo ma accolto come proprio. Per vedere un luogo occorre rivederlo. Il noto e il familiare, continuamente riscoperti e arricchiti, sono la premessa dell'incontro, della seduzione e dell'avventura; la ventesima o centesima volta in cui si parla con un amico o si fa all'amore con una persona amata sono infinitamente più intense della prima. Ciò vale pure per i luoghi; il viaggio più affascinante è un ritorno, come l'odissea, e i luoghi del percorso consueto, i microcosmi quotidiani attraversati da tanti anni, sono una sfida ulissiaca. "Perché cavalcate per queste terre?" chiede nella famosa ballata di Rilke l'alfiere al marchese che procede al suo fianco. "Per ritornare" risponde l'altro.

già la prefazione, de L'infinito viaggiare di Claudio Magris, è di una ricchezza densissima. leggo piano, rileggo, mi concentro, ripenso. e sono solo alla presentazione! ci metterò un secolo a leggerlo. in compenso ho finito Don Chisciotte, lo ascolto da maggio...e già Magris lo cita nella prefazione, ma ho visto un intero capitolo a Lui dedicato.

Richiamo del noto o dell’ignoto? La sor­tita di don Chi­sciotte vor­rebbe essere la sco­perta, la veri­fica e la ricon­ferma di ciò che si sa, della verità letta nei libri di caval­le­ria, delle leggi immu­ta­bili dell’amore e della lealtà, della bel­lezza di Dul­ci­nea e della forza dei giganti... Il don Chi­sciotte della Man­cia si tro­va fac­cia a fac­cia con l’ignoto, con la vio­lenza, la bru­ta­lità e la vol­ga­rità di una realtà ad esso sco­no­sciuta e che cer­ca di non ammet­tere; ma pro­prio la sua amo­rosa fedeltà a un ordine noto lo costringe a per­ce­pire più acu­ta­mente il disor­dine del mondo in cui si avven­tu­ra. Il viag­gia­tore è un anar­chico con­ser­va­tore; un con­ser­va­tore che sco­pre il caos del mondo per­ché lo com­mi­sura con un metro asso­luto che ne svela la fra­gi­lità, la prov­vi­so­rietà, l’ambiguità e la mise­ria. Come ben sapeva Kafka, senza il senso pro­fondo della legge non si può sco­prire la sua ver­ti­gi­nosa assenza nella vita. Risa­lito dalla caverna di Mon­te­sino, don Chi­sciotte rac­conta tutte le mera­vi­glie e le magie che ha visto, ma quando San­cho gli obietta che secondo lui si tratta di fan­do­nie, egli risponde “Potrebbe anche essere”. Uto­pia e disin­canto. Molte cose cadono, quando si viag­gia; cer­tezze, valori, sen­ti­menti, aspet­ta­tive che si per­dono per strada – la strada è una dura, ma anche buona mae­stra. Altre cose, altri valori e sen­ti­menti si tro­vano, s’incontrano, si rac­cat­tano per via. Come viag­giare, pure scri­vere signi­fica smon­tare, rias­se­stare, ricom­bi­nare; si viag­gia nella realtà come in un tea­tro di prosa, spo­stando le quinte, aprendo nuovi pas­saggi, per­den­dosi in vicoli cie­chi e bloc­can­dosi davanti a false porte dise­gnate sul muro. 

Il viaggio è anche una benevola noia, una protettrice insignificanza. L' avventura più rischiosa, difficile e seducente si svolge a casa; è là che si gioca la vita, la capacità o incapacità di amare e di costruire, di avere e dare felicità, di crescere con coraggio o rattrappirsi nella paura; è là che ci si mette a rischio. La casa non è un idillio; è lo spazio dell' esistenza concreta e dunque esposta al conflitto, al malinteso, all' errore, alla sopraffazione e all' aridità, al naufragio. Per questo essa è il luogo centrale della vita, col suo bene e il suo male; il luogo della passione più forte, talora devastante - per la compagna e il compagno dei propri giorni, per i figli - e la passione coinvolge senza riguardi. Andare in giro per il mondo vuol dire pure riposarsi dall' intensità domestica, adagiarsi in piacevoli pause pantofolaie, lasciarsi andare passivamente - immoralmente, secondo Weininger - al fluire delle cose.

mioddio come scrive questo signore...mi fermo qui, altrimenti lo trascrivo tutto.

martedì 11 novembre 2014

class enemy

Buonasera a tutti, 
non vi scrivo per questioni di classe o di studio ma per consigliarvi un film. 
Si tratta di Class Enemy, un film sloveno di Rok Bicek. Lo danno al Mexico, cinema d'essai in Via Savona, forse noto per le repliche ormai decennali di Rocky Horror Picture Show, ma anche per scelte cinematografiche raffinate, intelligenti. 
Questo film è straordinario e riguarda tutti noi ed è un vero peccato che sia relegato a un cinematografo piccolo e quasi periferico, ignorato dai circuiti maggiori. 
Parla dei nostri figli, della loro adolescenza, dell'età della personalità incerta, della rabbia che tutto travolge senza forma nè riflessione, del dolore e della morte, tema da sempre privilegiato in età adolescenziale. 
Parla degli insegnanti e dell'insegnamento. Ci guida dall'impulsività del giudizio afffrettato, anche di chi guarda, fino alla valutazione più profonda riflessiva che fa emergere sfumature e verità nascoste. Parla del ruolo dell'insegnamento, quando è educativo e formativo,e anche quando è compiacente e deresponsabilizzante; quando, al contrario del ruolo genitoriale, coinvolto e spesso altrettanto rabbioso, sa essere fermo, mai trascendente, misurato, paziente. Un insegnamento che dopo aver osservato, e anche subito, dopo aver guardato e riflettuto restituisce ai giovani adolescenti materia incandescente su cui riflettere. Almeno questa è la mia impressione. 
Lo consiglio a tutti, anche agli insegnanti se potessi. E, naturalmente, ai nostri figli, se non sapessi di prendermi subito della rompi... 
Buona notte

Rossa
ai genitori della 4B.

lunedì 10 novembre 2014

Non poteva ancora essere la fine. Non sarebbe mai venuta la fine finché la paura si fosse tramutata in furore

E le banche e le società si scavano la fossa con le proprie mani, ma non lo sanno. I campi sono fecondi, e sulle strade circola l'umanità affamata. I granai sono pieni, e i bimbi dei poveri crescono rachitici e pieni di pustole. Le grandi società non sanno che la linea di demarcazione tra fame e furore è sottile come un capello. E il denaro che potrebbe andare in salari va in gas, in esplosivi, in fucili, in spie, in polizie e in liste nere. Sulle strade la gente formicola in cerca di pane e lavoro, e in seno ad essa serpeggia il furore, e fermenta.

inizia con la siccità, termina con il diluvio universale dopo la morte del primogenito. sembrano le piaghe d'egitto e il riferimento biblico non può essere casuale, non lo è. la simmetria è perfetta, inesorabile.
sono colpita da questo progetto letterario, ha la dimensione universale di un destino dell'umanità e mi sembra una dimensione grandiosa, superlativa. la storia dei Joad è la storia dell'uomo, dalla nascita alla morte, dall'inzio alla fine, dal singolo alla comunità, nella disperazione, nella dannazione.
la scena finale, che mi immagino nel grande teatro della vita, è quella della madonna dolente, della resurrezione, della pietà. nel diluvio che tutto cancella, che trascina raccolti e corpi, che annienta le ultime risorse, che invita a lasciarsi andare alla corrente mortifera, il seno gonfio di latte della giovane madre alimenta il moribondo, in un gesto di infinita compassione.
un quadro inimmaginabile, per me, prima di leggerlo.
avrei voluto ascoltarlo da Baricco (che ne fece una lettura radiofonica anni fa), mi sarebbe piaciuto molto.
posso sentirne il ritmo da Bruce Springsteen che, nel 1995, incise The Ghost of Tom Joad in omaggio al capolavoro di Steinbeck.


CAPITOLO 29. 

 Provenienti dall'oceano i nuvoloni grigi scavalcarono le alte montagne costiere e s'ingolfarono nelle vallate. Il vento soffiava feroce ma silenzioso nel cielo, mentre nella macchia sibilava, e ululava nelle foreste. Le nuvole arrivate a frotte, a stormi, da tutte le parti, si adunarono a ponente e vi si acquattarono; il vento allora cessò, e le lasciò in formazioni profonde e compatte. La pioggia cominciò a cadere: dapprima sotto forma di capricciosi temporali, rotti da pause, poi gradatamente assunse un ritmo di caduta uniforme e costante, e diventò grigia controluce, e convertiva in vespertina la luce meridiana. E al principio l'arida terra la succhiò avidamente, prendendo una tinta color tabacco. Per due giorni interi la terra bevve la pioggia, finché non risultò satura. Allora, dappertutto, si formarono pozze, che nei punti più bassi assunsero proporzioni di laghi. E i laghi fangosi crebbero di livello, e la poggia s'accaniva a frustarne la lucida superficie. Ben presto le vallate risltarono colme, e allora i versanti parvero liquefarsi in mille torrenti che precipitavano ruggendo nel canalone in fondovalle. E le acque dei fiumi strariparono, mordendo gli alberi alle radici, rosicchiando le radici finché gi alberi non si dessero per vinti. Le acque fangose turbinando a ridosso degli argini li sormontarono, e traboccarono nei campi di cotone. In tutta la pianura i campi si convertirono in laghi, estesi, grigi, e la pioggia ostinata continuava a frustarne la superficie. Poi l'acqua si rovesciò lungo le strade, e le automobili procedevano lente fendendo l'acqua come i bastimenti con la prora, e lasciandosi dietro una scia fangosa e gorgogliante. Sotto le sferzate della pioggia tutta la terra bisbigliava, e accogliendo i precipiti torrenti i fiumi tuonavano. Quando la prima pioggia aveva cominciato a cadere, i nomadi si erano ritirati sotto le tende dicendo: Passerà presto, e domandando: Quanto potrà durare? E quando si formarono le pozze, gli uomini uscirono dalle loro tane, e coi badili costruirono piccole dighe attorno alle tende. La pioggia martellante mordeva la tela finché penetrandola non riusciva ad irrompere all'interno. Poi distrusse le dighe, e allora l'acqua irruppe anche per via di terra, travolgendo giacigli e coperte. I nomadi, fradici, rizzarono cassette a mo' di palafitte, e sulle cassette adagiarono tavole, e sulle tavole stavano seduti giorno e notte. Presso le tende stavano i decrepiti veicoli, e l'acqua ne deteriorò i circuiti e i carburatori. Le tende grigie emergevano dall'acqua. E finalmente i nomadi si decisero a traslocare; ma i motori non partivano più, o, se partivano, le ruote affondavano nel fango. E molte famiglie dovettero abbandonare le macchine e si incamminarono a piedi nell'acqua portandosi addosso le coperte, gli uomini guazzavano portando sulle spalle i bambini e i vecchi. E arrivando al primo cascinale, vi si affollavano. Taluni ricorrevano agli uffici d'assistenza: ma ne ritornavano avviliti e depressi. C'è il regolamento. Bisogna esser qui da almeno un anno per aver diritto al sussidio. Dicono che il governo provvederà, ma non sanno dire quando. E allora sopravvenne il più terribile dei terrori: per tre mesi, niente lavoro, di nessun genere. Nei cascinali i nomadi stavano pigiati in ozio, e il terrore si abbatté su di loro illividendone le facce. I bambini piangevano per la fame, e non c'era da mangiare. Poi sopravvennero le malattie: la polmonite, e un morbillo che s'attaccava agli occhi e alle orecchie. E la pioggia continuava implacabile, e l'acqua inondava le strade, perché le fogne risultavano incapaci di portarla via. Allora dalle tende, dai cascinali affollati, uscivano, nei loro stracci, gruppi d'uomini gracili con le scarpe ridotte a viscida polpa; e guazzavano alla volta dei paesi, o dei negozi di campagna, per mendicare: mendicare cibo o sussidi. O per provare a rubare. E sotto questa suprema degradazione cominciò a fermentare il furore della disperazione. D'altra parte, nei piccoli paesi, anche la compassione che gli abitanti dapprima sentivano verso i nomadi fradici, prese a convertirsi in furore; e il furore contro gli affamati si convertì a sua volta in paura degli affamati. Allora gli sceriffi reclutarono nuovi agenti a frotte, e s'affrettarono a commissionare ingenti forniture di fucili, di gas lacrimogeni, di munizioni. E gli affamati s'accalcavano nei vicoletti dei retrobottega per mendicare un pezzo di pane o qualche avanzo di verdura, o all'occasione, per rubare. Frenetici, i pezzenti venivano a bussare alle porte dei medici; ma il medico aveva sempre troppo da fare. E i pezzenti si riducevano a lasciar detto nelle botteghe di campagna di far venire il "coroner" col carro funebre. E il carro arrivava, s'accostava a marcia indietro nel fango, e si portava via i morti. E la pioggia continuava incessante e i fiumi rompevano gli argini e dilagavano nella campagna. Rintanati negli umidi fienili o nei ripostigli annessi alle case coloniche, la fame e il terrore generarono finalmente il furore. E allora anche i ragazzi si decisero a uscire non per mendicare, ma per rubare, e gli uomini indeboliti li seguirono per cercar di rubare. E gli sceriffi reclutavano nuovi agenti e ordinavano nuovi fucili. E la gente che viveva comoda nelle case al riparo dalle intemperie dapprima sentì compassione e poi disgusto e finalmente odio contro i nomadi pezzenti. Nei fienili inzuppati le donne ammalate di polmonite mettevano al mondo le loro creature, e i vecchi si rannicchiavano negli angoli e lì si lasciavano morire, accartocciati su se stessi così che il "coroner" non era più in grado di distenderne le membra irrigidite. Di notte i frenetici pezzenti irrompevano apertamente nei pollai, e si portavano via i polli schiamazzanti. Se qualcuno li faceva segno a colpi di fucile non correvano via, non cercavano di nascondersi, ma continuavano a diguazzare con la stessa andatura di prima, e se colpiti si lasciavano stancamente cadere nel fango. La pioggia cessò. Sui campi restò l'acqua, a riflettere il grigio del cielo, e tutta la terra era un murmure d'acqua corrente. E i pezzenti uscivano dai loro covi, dai fienili e dalle stalle e accoccolati contemplavano la terra inondata, silenziosi, o parlando con una tragica calma. Niente lavoro fino a primavera. Niente lavoro. Niente lavoro... niente denaro, niente cibo. Ma, dico io, chi ha una pariglia di cavalli, e se ne serve per arare, per coltivare, non si sognerebbe mai di metterli fuori dalle stalle e lasciarli morire di fame, quando manca il lavoro nei campi. Ah, ma quelli sono cavalli... noi siamo uomini. Le donne osservavano i mariti, per vedere se questa volta era proprio la fine. Le donne stavano zitte e osservavano. E se scoprivano l'ira sostituire la paura nei volti dei mariti, allora sospiravano di sollievo. Non poteva ancora essere la fine. Non sarebbe mai venuta la fine finché la paura si fosse tramutata in furore. 
L'erba spuntò tenerissima e distese sui colli la delicata coltre verzolina dell'annata nuova.

venerdì 7 novembre 2014

Verdi come architetto

Francesco sa fotografare.
e scopro anche che ha fatto una mostra a Milano, peccato non averla vista.
Francesco mi ha fatto conoscere Francesca Woodman e molti personaggi femminili (ma Francesca è la migliore).
scrive bene, facendosi capire (dote rara).
le foto le prendo dal suo sito, con il suo consenso scritto!, che vi invito a visitare. (http://francescomariacolombophoto.com/)
le foto appartengono a una serie "Verdi come architetto" (http://francescomariacolombophoto.com/verdi-as-architect/) ambientate a Villa Verdi a Sant'Agata di Villanova e alla Casa di riposo per musicisti "G.Verdi" di Milano, e vi invito a visionarle tutte insieme, l'effetto è notevole. e anche l'idea è notevole. 
il talento ha molte facce.












giovedì 6 novembre 2014

il vero consiste nel dubbio

in attesa di Grey's Anatomy, che va un po' scadendo ormai, vedo la Gruber su La7. lei è inguardabile, la solita maschera facciale oscena portata dalle donne che hanno paura di morire. suoi ospiti : Corrado Augias e un certo Pietrangelo Buttafuoco, personaggio un po' paranoico e francamente dall'eloquio povero e infarcito di luoghi comuni. Augias, che ha fatto l'errore di dire superficialmente qualche parola di troppo ma che ha rimediato all'aggressività dell'altro con molto savoir faire, ha presentato un suo libro, Il lato oscuro del cuore, citando un commento di Massimo Recalcati, secondo il quale, a volte, da parte delle donne che sono abusate c'è un certo godimento nell'essere abusate. è chiaro che un'affermazione del genere può essere male interpretata dal pubblico, come una minimizzazione o svalorizzazione della gravità del problema, ma è un'interpretazione psicoanalitica, che vale anche per chi fuma a onta di una broncopneumopatia ostruttiva o di un tumore ai polmoni: gli essere umani fanno cose nonostante facciano male, o meglio, proprio perché fanno male. Freud lo chiamava istinto di morte, Lacan, godimento. trattasi di godere di ciò che ci fa male, alimentandolo anzichè interromperlo. penso sia esperienza comune. 
quei 10 minuti di tv erano intrisi di parole come psicoanalisi, interpretazione, Recalcati, e anche di reazioni anomale. mi ha colpito la reazione del Buttafuoco, che si altera e invoca la sua emarginazione discriminazione culturale, facendomi pensare a una difesa rispetto a qualcosa che tocca, che non si può accettare e  poi immediatamente rimandata al mittente. spesso l'aggressività verso l'altro è rapidamente smaltita e giustificata come una giusta reazione a qualche tipo di ingiustizia subita ma, più propriamente, è l'impossibilità di accogliere qualcosa che ci riguarda molto da vicino. pensavo a una mia paziente, vista mercoledì mattina che, finalmente, ha cominciato a "lavorare" su di sè, a non proiettare meccanicamente sull'Altro colpe e torti. finalmente lavora sulla sua responsabilità, la responsabilità dei suoi sintomi. vede la datrice di lavoro aggressiva e intollerante con lei per cose da nulla, e si domanda: non farò la stessa cosa con la mia colf? che, recentemente, la infastidisce oltre modo e le provoca forti moti di ansia e aggressività. lentamente si avvicina alla verità dei suoi sintomi, ovvero al dubbio, in questo caso, che il problema non sia nell'altro, ma in noi.
“Il vero consiste del dubbio. E' solo dubitando che ci si avvicina alla verità delle cose”, dice Leopardi. 

lunedì 3 novembre 2014

autunno a Copenaghen

Copenaghen.
splendida non è.
ho sentito, soprattutto il primo giorno, fortissima, la cupezza nordica. per le strade, nei negozi, nei ristoranti, un senso di oppressione, al petto, nella mente.
all'inizio mi è sembrata una città senza stile. priva di un suo stile, identificabile, come la maggior parte delle capitali europee.
qualcosa ho recuperato, in stima, nei giorni seguenti ma mi è rimasta l'impressione globale di una città indistinta. poche macchine, molte bici, molto rigore e rispetto della cosa pubblica, ma nessun guizzo di personalità. 
mi è rimasto l'autunno, palpabile e solido, e poco altro, che verrà.