bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 21 dicembre 2017

memoria

Paura - i capolavori di Parise non finiscono mai

Una sera di nebbia e di sirene al Lido di Venezia una signora sola tornava a casa: aveva settant’anni, era vedova e nella sua vita aveva avuto poca compagnia salvo una serie di gatti siamesi una ventina d’anni prima, poi un bassotto che era morto prestissimo in seguito al suo troppo zelo nel nutrirlo (mangiava solo tagliatelle al burro e fegatini di pollo) e il marito. Ma anche quello era morto due anni prima e di lui restava soltanto il ricordo vago, come di un’ombra alta e un po’ curva con due baffetti che ora, a ricordarlo nella nebbia, si perdevano nella nebbia. Da poco aveva un canarino. 
La figura di questa donna era insieme infantile e animale: rotonda, con una pellicciotta interna che l’arrotondava ancora di più, aveva un colbacco rotondo e tutta la sua persona, sostenuta da gambe come colonnine fragili, si muoveva nella nebbia con l’incertezza di un bambino di due o tre anni che impara a camminare. Procedeva lentamente, come portata avanti dalla collottola, che aveva grassa e robusta come una piccola gobba tra il collo corto e l’inizio della spina dorsale: quel punto, tra testa e schiena, racchiudeva nella sua convessità una forza animale e suina che era il segreto della sua prepotenza e del suo egoismo. Ma, come accade in nature così composite tra animalità e umanità, la signora aveva occhi celesti chiari di bambina bizzosa, capricciosa e infinitamente ingenua, sempre pronta a ridere. Così, con tutte queste cose nel corpo, fragilità, animalità, bizzosità e allegria procedeva lentamente (ma inesorabilmente) nella nebbia dei vialetti deserti del Lido. Pensava, ma in modo anche quello composito, come in sogno, a metà tra la sensazione e il pensiero. 
Pensava a una pentola a pressione che aveva visto usare proprio quella sera e che avrebbe voluto comprare senza essere certa di saperla usare e dunque con un po’ di paura per l’accumulo di pressione e lo scoppio. Quella pentola però mancava alla sua collezione di pentole, tutte nuove, che teneva insieme ad altre pentole vecchie, in grandissima quantità, dentro un magazzino affittato in un convento di suore: nel magazzino, oltre le pentole, aveva coperte, materassi, un baule pieno di biancheria, qualche mobile, e alcuni scatoloni di cui non riusciva in quel momento a ricordare il contenuto: forse le statuine di gesso di un vecchio presepio e i ninnoli per l’albero di Natale. Tutta roba che non aveva mai più tirata fuori essendo sola. Un tempo, quando aveva il marito e il figlio, quando era piccolo, costruiva l’uno e l’altro per Natale. E a questo pensiero, quello della sua solitudine, si perdette un poco tra commozione e il nulla delle cose e delle persone. Ma il pensiero non tardò a mutare e a concentrarsi, come sempre accade nei vecchi, nei particolari che riguardavano direttamente e immediatamente la propria vita: una macchia di umidità che pareva allargarsi ogni giorno di più nell’angolo del soffitto della sua camera da letto. Perché l’amministratore non provvedeva, dopo essere stato sollecitato mille volte? La signora si arrabbiò, la forza che stava tutta nella nuca parve come raggrinzirsi in un profondo senso di ingiustizia e di dispetto provocato ai suoi danni e accusò dentro di sé il figlio lontano, di cui non sapeva se era vivo o morto anche lui. 
Camminava lentamente in quel modo infantile e un po’ pesante, come avviene quando lo spirito così vicino ai muscoli, ai tendini e ai nervi, ha già ceduto alle illusioni del passato e non resta altro che procedere un po’ alla deriva come una barca. Infatti, si udì per tre volte la sirena bassa e lunga di un rimorchiatore o addirittura una nave, un transatlantico che usciva dal Bacino di San Marco. Qui lo spirito della signora, come sempre quando udiva quelle sirene, si risvegliò, e anche il passo. 
«Se potessi, se avessi le possibilità, andrei in crociera d’inverno. Prima di morire vorrei andare anch’io in una piccola crociera» pensò la signora e all’idea del viaggio parve risvegliarsi: non temeva i viaggi, anzi era sempre pronta a farli e il momento in cui tutto il suo spirito si risvegliava e accendeva era quello in cui metteva piede, il più agilmente possibile data la sua corporatura e la sua età, sul predellino di un treno o di una corriera. Sarebbe salita anche in aeroplano. Ma ora aveva davanti a sé, fittissima, la nebbia del Lido. Sentiva gocciolare gli alberi, qualche scarico nei canali, e lo sciacquio della laguna non lontana ma invisibile. 
Pensò al canarino e immediatamente a certi piccoli scoiattoli che aveva visto nel giardino di Schoenbrunn, a Vienna, e mangiavano nella mano. Ogni tanto qualche ricordo passava rapidissimo nella sua mente, limpido, chiaro, dove poteva distinguere nei particolari se stessa più giovane, il figlio, il marito e i suoi baffetti (li ricordava neri), un’altra città, l’estate sulla spiaggia, quella stessa spiaggia fredda e umida nella notte che era lì a pochi passi: le gelaterie, le luci, e poi, di colpo, la neve e il ghiaccio delle strade di Cortina dove per lei era necessario camminare a minimi passi per non cadere. 
Era il pensiero che aveva suggerito i passi o i passi avevano suggerito il pensiero? Perché udì dei passi e delle voci dietro di sé. Erano voci di ragazzi che camminavano veloci e la raggiunsero: non li vedeva quasi perché la nebbia aveva appannato gli occhiali, li intravedeva, uno di questi che le passò accanto guardandola, aveva i capelli lunghi. A quel punto i ragazzi smisero di parlare e la superarono lentamente in silenzio. Ancora si udì la sirena del transatlantico ormai giunto quasi al limite del mare aperto, all’altezza del faro. «Rex» fu il pensiero della signora, per un istante pensò al fratello, commissario di bordo del Rex, morto molti anni prima. «Il Rex non ci sarà più. Non è affondato?» si chiese la signora, e così pensando si accorse che i ragazzi erano ancora lì, vicino a lei, muti e con passo uguale al suo. 
Uno dei ragazzi si avvicinò e proprio sopra un ponte (si sentiva lo sciacquio del canale sotto le tavole di legno del ponte) si fece di fronte a lei. La signora aveva paura e, in quel modo confuso, veloce e incredibile che l’immaginazione di una persona anziana e assolutamente normale può avere in un momento come quello, pensò alla morte. Era tutta lì: lo sciacquio, la nebbia, la sera, l’affogamento dentro la pelliccia nell’acqua nera del canale, il cimitero. Udì la voce del ragazzo, una voce bassissima da uomo anziano e beone; il ragazzo disse: 
«O mi dai la borsetta o te copo». 
Le gambe della signora tremavano, ma perché, si disse, tanta paura della morte? E quel te copo aveva tutta l’ignoranza della verità. «Perché tanta paura della morte? Sono sola» e disse lentamente, con un tremito, ma con voce dura: 
«Còpeme». 
Il ragazzo esitava: 
«Dammi la borsetta» disse ancora, con quella voce delittuosa e casuale, coperta dalla nebbia: l’alito fumava. 
«No, non te la do, còpeme, vediamo se lo sai fare». 
Strinse con tutte e due le mani la borsetta ma guardò con forza, con forza animale il ragazzo di cui vedeva solo i contorni, lunghi e curvi, a forma di esse. Il ragazzo le diede una spinta sulla spalla, una specie di pugno e la signora traballò e andò a sbattere contro il parapetto del ponte. Di nuovo disse, con la voce tremante di indignazione questa volta, tra le labbra strette: 
«Còpeme», e a questa parola il ragazzo fuggì correndo, seguito dagli altri due. 
La signora aveva il cuore in gola, stette appoggiata al parapetto del ponte, come rannicchiata, senza arrischiarsi di stare sulle proprie gambe che ora non la reggevano. Aveva gli occhi pieni di lacrime e non vedeva più nulla. 
«Còpeme, disgraziato, assassino» disse quasi tra sé e cominciò a piangere con piccoli sussulti nella schiena. 
Piano piano la paura passò, le gambe (fece due o tre tentativi) la sostennero e altrettanto piano riprese la strada di casa. Un po’ di paura l’aveva ancora perché stava percorrendo la stessa via dove erano fuggiti i ragazzi. Forse l’aspettavano da qualche parte più avanti. Ma ormai anche lei sentiva che la sua ora non era giunta, che poteva tornare a casa abbastanza tranquilla, camminando però piano.

Da I sillabari, Goffredo Parise

domenica 17 dicembre 2017

Vita di Galileo

ho trovato un altro buon motivo per stare al mondo.
Vita di Galileo, di Brecht, letta, spiegata, interpretata da Strehler, con Umberto Ceriani, Renato De Carmine, Giulia Lazzarini e Gianfranco Mauri. Registrazione effettuata il 13/14 ottobre 1995 presso il Piccolo teatro studio di Milano Trent'anni dopo la storica regia di Vita di Galileo, che debuttò al Piccolo Teatro il 22 aprile 1963 (con Tino Buazzelli nel ruolo del titolo) accompagnata da grandi controversie sull'opportunità di mettere in scena un testo che sembrava mettere in discussione il ruolo della Chiesa, Giorgio Strehler torna in prima persona a leggere il testo di Bertolt Brecht. È una registrazione fiume della durata complessiva di 4 ore e 32 minuti.
una domanda che mi faccio: i miei l'avranno vista?
più invecchio e più mi domando cosa facevano i miei genitori.
e se stabilisco che si, l'hanno vista, si ci sono stati, si ci sono venuti, si l'hanno fatto, mi viene da piangere.
è chiaro che la morte si avvicina anche per me.
ora, di questa registrazione io ho seguito la seconda parte, quasi tre ore di spettacolo, è un confortante messaggio per l'umanità: la bellezza esiste, la memoria ha un valore assoluto, il legame ci tiene in vita, il teatro è un'esperienza straordinaria, la conoscenza ci salverà tutti.
sentire Strehler che recita e legge e spiega mi ha ipnotizzato. ho seguito la presentazione con il testo  di Brecht in mano, la sala del Chiostro Nina Vinchi lo consentiva, era luminosa, e rumorosa, con pochissimi avventori a gustarsi il capolavoro. ma io c'ero.
ah si, io c'ero.
la figura di Galileo, che abiura, per paura, lo fa uomo. di scienza e di umana debolezza.
forse, al cambiamento epocale che sarebbe seguito al suo spodestamento della terra nel sistema solare, non era pronto nemmeno lui. e Brecht ce lo dice, non siamo mai del tutto buoni e mai del tutto cattivi, mai del tutto geniali e mai del tutto meschini. 

...
ANDREA Volevate guadagnar tempo per scrivere il libro che solo voi potevate scrivere. Se foste salito al rogo, se foste morto in un'aureola di fuoco, avrebbero vinto gli altri. 
GALILEO Hanno vinto gli altri. E un'opera scientifica che possa essere scritta da un uomo solo, non esiste. 
ANDREA Ma allora, perché avete abiurato? 
GALILEO Ho abiurato perché il dolore fisico mi faceva paura. 
ANDREA No! 
GALILEO Mi hanno mostrato gli strumenti. 
ANDREA Dunque non l'avete meditato? 
GALILEO Niente affatto. 

Pausa. 

ANDREA (forte) La scienza non ha che un imperativo: contribuire alla scienza. 
GALILEO E questo, l'ho assolto. Benvenuto allora nella mia sentina, caro fratello di scienza e cugino di tradimento! Vuoi comprare pesce? Ho pesce! E non è il mio pesce che puzza, sono io. Io svendo, e tu acquisti. O irresistibile potere di questa merce consacrata, il libro! Gli basta guardarlo perché gli venga l'acquolina in bocca e ricacci giù tutti gl'improperi. La grande Babilonia, la scarlatta belva assassina, spalanca le cosce, ed ecco, tutto è cambiato. Santificata sia la nostra congrega di trafficanti, di riverginatori e di tremebondi davanti alla morte! 
ANDREA La paura della morte è umana! E le debolezze umane non interessano la scienza. GALILEO No !... Caro Andrea, anche nella mia attuale con dizione mi sento di orientarti un poco su tutto ciò che interessa questa professione di scienziato, cui ti sei legato per l'esistenza. Breve pausa. GALILEO (con le mani professoralmente congiunte sull'adipe) Nel tempo che ho libero - e ne ho, di tempo libero - mi è avvenuto di rimeditare il mio caso e di domandarmi come sarà giudicato da quel mondo della scienza al quale non credo più di appartenere. Anche un venditore di lana, per quanto abile sia ad acquistarla a buon prezzo per poi rivenderla cara, deve preoccuparsi che il commercio della lana possa svolgersi liberamente. Non credo che la pratica della scienza possa andar disgiunta dal coraggio. Essa tratta il sapere, che è un prodotto del dubbio; e col procacciare sapere a tutti su ogni cosa, tende a destare il dubbio in tutti. Ora, la gran parte della popolazione è tenuta dai suoi sovrani, dai suoi proprietari di terra, dai suoi preti, in una nebbia madreperlacea di superstizioni e di antiche sentenze, che occulta gli intrighi di costoro. Antica come le rocce è la condizione dei più, e dall'alto dei pulpiti e delle cattedre si suole dipingerla come altrettanto imperitura. Ma la nostra nuova arte del dubbio appassionò il gran pubblico, che corse a strapparci di mano il telescopio per pun-tarlo sui suoi aguzzini. Cotesti uomini egoisti e prepo-tenti, avidi predatori a proprio vantaggio dei frutti della scienza, si avvidero subito che un freddo occhio scien-tifico si era posato su una miseria millenaria quanto artificiale, una miseria che chiaramente poteva essere eliminata con l'eliminare loro stessi; e allora sommersero noi sotto un profluvio di minacce e di corruzioni, tale da travolgere gli spiriti deboli. Ma possiamo noi ripu-diare la massa e conservarci ugualmente uomini di scienza? I moti dei corpi celesti ci sono divenuti più chiari; ma i moti dei potenti restano pur sempre imperscrutabili ai popoli. E se la battaglia per la misurabilità dei cieli è stata vinta dal dubbio, la battaglia della massaia romana per il latte sarà sempre perduta dalla credulità. Con tutt'e due queste battaglie, Andrea, ha a che fare la scienza. Finché l'umanità continuerà a brancolare nella sua nebbia millenaria di superstizioni e di venerande sentenze, finché sarà troppo ignorante per sviluppare le tue proprie energie, non sarà nemmeno capace di sviluppare le energie della natura che le vengono svelate. Che scopo si prefigge il vostro lavoro? Io credo che la scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare la fatica dell'esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all'intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l'uomo. E quando, coll'andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo 64 allontanamento dall'umanità. Tra voi e l'umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale... Nella mia vita di scienziato ho avuto una fortuna senza pari: quella di vedere l'astronomia dilagare nelle pubbliche piazze. In circostanze così straordinarie, la fermezza di un uomo poteva produrre grandissimi rivolgimenti. Se io avessi resistito, i naturalisti avrebbero potuto sviluppare qualcosa di simile a ciò che per i medici è il giuramento d'Ippocrate: il voto solenne di far uso della scienza ad esclusivo vantaggio dell'umanità. così stando le cose, il massimo in cui si può sperare è una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo. Mi sono anche convinto, Andrea, di non aver mai corso dei rischi gravi. Per alcuni anni ebbi la forza di una pubblica autorità; e misi la mia sapienza a disposizione dei potenti perché la usassero, o non la usassero, o ne abusassero, a seconda dei loro fini. (Virginia è entrata con un vassoio: resta immobile ad ascoltare). Ho tradito la mia professione; e quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io, la sua presenza non può essere tollerata nei ranghi della scienza. 
VIRGINIA Babbo, hai il tuo posto nei ranghi della fede. (Si fa avanti e posa il vassoio sulla tavola). GALILEO Giusto. Ora debbo cenare. (Andrea gli tende la mano: Galileo la vede ma non la prende) Ormai anche tu insegni. Come puoi permetterti di stringere una mano come la mia? (Va verso la tavola) Oggi un viaggiatore di passaggio mi ha mandato due oche. Apprezzo sempre la buona mensa. ANDREA Dunque, non pensate più che sia cominciata una nuova era? 
GALILEO Al contrario. Abbiti riguardo. Quando attraversi la Germania, riponi la verità sotto il mantello. 
ANDREA (incapace di partire) Quanto al vostro giudizio sull'autore di cui abbiamo discorso, non so che rispondervi. Ma non posso credere che quella vostra crudele analisi sia l'ultima parola. 
GALILEO Grazie, signore. (Comincia a mangiare). 
VIRGINIA (accompagnando Andrea alla porta) Le visite degli amici del passato non ci fanno piacere. Lo mettono in agitazione. Andrea esce. Virginia torna nella stanza. 
GALILEO (mangiando) Non hai pensato chi può aver mandato le oche? 
VIRGINIA Andrea no. 
GALILEO No, forse. Com'è la notte? 
VIRGINIA (alla finestra) Chiara.

venerdì 15 dicembre 2017

a proposito di incipit, Diceria dell'Untore: le materne mucose delle lenzuola

O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe strapiomba nel vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l’estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi…da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l’impazienza a svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità, sempre più rattratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient’altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell’imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme.

Gaesualdo Bufalino
Diceria dell'untore (incipit)

non potrò mai ringraziare abbastanza, e non saprei come, Luigi Lo Cascio per una serata, al Franco Parenti, indimenticabile, irripetibile, sensazionale, garbatissima e al contempo stravolgente, sulla poesia siciliana.
Lo Cascio è un personaggio amabile, capace e umile, talentuoso e timido, attraente e impacciato.
è una delizia.
e le poesie che ha letto mi hanno devastata.
quelle in siciliano sono state una melodia di bellezza e di sonorità dolcissime.
Bufalino scrive come un genio, ecco finalmente un incipit.
Angela Bonanno mi fa tremare di tenerezza.
Angelio Maria Ripellino mi stordisce con le sue parole... Verdi trecce di capelli piovosi si spandono Su questa lunga domenica vegetaliforme, su questo celtico intreccio di rovesci e spruzzaglie.
e altri ne verrano dalla mia luga pagina di appunti (presa al buio...).

Molly Bloom - esercizio n.3

Scrivete un incipit
(dopo la bella. bellissima lezione, la prima degna di nota, di Alessandro Piperno)
ho deciso di citare me stessa e di giocare sul lavoro a scuola. come in un rimando di specchi.
e anche l'incipit è speculare, anche la fine potrebbe essere un inizio..
speriamo vada bene.

“Ve la giocate tutta qui”.
 Veramente non ci credeva, non avrebbe dato tutta quella importanza.
“Qui si esprime il DNA della vostra vocazione letteraria”.
Il DNA? Tutto qui in poche righe? Anni di studi medici e nozioni di genetica sul DNA convertiti nel potere di attrazione delle parole.
“Nell’incipit si concentra tutta l’ispirazione del libro”.
Ancora? ma, pensava: e il resto del libro?
Così ripetevano a lezione, nell’anfiteatro che lo ospitava in quell’ennesima fatica di apprendimento che si era imposto per imparare a scrivere.
Un “Longtemps” non ce l’aveva. Nemmeno uno simile. Figuriamoci un “Call me Ishmael”.
Tutto quel che aveva apparteneva a un’idea di mondo, un’idea faticosamente raggiunta dopo anni non tanto di pratica medica, quanto piuttosto di pensatore di pensieri, di ricercatore di senso. Cercava eventi emotivi, ne avrebbe voluti uno al giorno, non cercava che momenti come quelli, memorabili e incisivi, sentiva questo bisogno, ossessivo, di vivere quotidianamente un atto di senso.
Come quella sera al concerto, suonavano le Variazioni Goldberg e Bach aveva aperto, con la prima delle 32 arie, la porta di entrata per l’universo. Dopo un lungo peregrinare nel divino spazio musicale, a contatto con le sfere celestiali, perfette e matematiche, di crome­­­­­­ e semicrome, la porta, con l’ultima aria, si era richiusa e l’universo dietro di essa, con il suo mistero. La musica era finita  ma non la sua risonanza, il pianista era fermo sul pianoforte, immobile come tutto il resto della sala. Lunghi secondi di sospensione indimenticabili, in quello spazio vuoto di silenzio muto e condiviso, tra centinaia di persone, individui separati ma uniti, c'era tutto il valore della vita e del mondo intero. Si dovrebbe vivere in eterno, lì, in quel preciso momento, pensava.
Allora avrebbe potuto iniziare il suo libro proprio così.
Risuonavano ancora le Variazioni Goldberg. Bach le aveva composte per lui, quella sera. 

giovedì 14 dicembre 2017

Milano e la Mala


la mostra è veramente bella, ma proprio bella.
ma ciò che è indimenticabile è quella voce.
quella dell'audioguida.
mi sono emozionata, divertita, come a un evento, come al cinema, come a teatro. 
è stato uno spasso e ringrazio Pablo Trincia, delle Iene, per avermi accompagnato con quel tono serio e sospeso, narrativo e accattivante, per le sale di Palazzo Morando a scoprire la vita malavitosa di Milano dal dopoguerra alla fine degli anni '80.
è storia della mia città, è stato utile e necessario, è stato davvero molto interessante, è stato soprattutto spiritoso e ricreativo. alla fine di ogni sezione interrompevo l'audioguida pensando: ma è incredibile come racconta questo qui. certo il testo ha fatto la sua parte, ma la suspance era palpabile e il divertimento assicurato. narratore eccelso, gli do dieci e lode.
i nomi della bande del dopoguerra erano davvero sorprendenti, banda Dovunque, banda della Donna Nuda, della Gomma a Terra, dei Rapinatori Volanti. sogno o son desta? Diabolik o realtà storica? 
i commissari erano figure mitiche, come Zamparelli o Nardone, e sono fotografati come nei telefilm, alla guida di auto degli anni 60. le rapine sono passate alla leggenda, Via Osoppo, gioielleria Colombo di via Montenapoleone, via Zandonai. si parte da Nando il Terrone, passando per Joe Adonis, fino a Francis Turatello, vero imprenditore del crimine, e, ovviamente, al Bel Renè, Renato Vallanzasca, e il tutto cantato dalla Vanoni, da Gaber, dai Gufi, da Jannacci, frequentando il Derby Club. si comincia con le rapine, si passa dalle bische e dalla prostituzione, per arrivare ai rapimenti illustri degli anni 70, e, infine, alla degradazione dello spaccio di droga con la figura più deteriore, il truce Angelo Epaminonda, detto il Tebano.
sparatorie, inseguimenti, assassinii e regolamenti di conti, Milano e la mala, tutto vero allora, tutto vero oggi, si tratta di una fonte sorprendente e inesauribile di storie, davvero, due ore di puro storico intrattenimento.























domenica 10 dicembre 2017

Monaco Mongaku. Giorno poco fortunato.

il Monaco Mongaku. Giorno poco fortunato.
questo il titolo di questo quadro di un samurai in preghiera, affiorante dal mare, che dal centro della testa emana spruzzi d'acqua come proiettili, una fortissima energia vitale.


il signore che ha dipinto questo quadro, il Sig. Utagawa Kuniyoshi, è un simpatico genio visionario, esponente della pittura e della silografia giapponese in stile 'ukiyo-e. Ne abbiamo visti altri, l'anno scorso, a Palazzo Reale, i signori Hokusai, Hiroshige e Utamaro, tutti esimi esponenti della rappresentazione pittorica del mondo fluttuante.
siamo in Giappone, prima metà del 1800. siamo in un bel posto, a me piace, e Kuniyoshi è stata una splendida conferma.
l'idea, all'inizio della mostra, e forse anche prima di entrarci, era che si trattasse di una riedizione, furba, dell'esposizione fortunatissima, di Palazzo Reale.
in verità, superate le prime sale sulle donne e i paesaggi, si entra nel mondo incredibile e straordinario della mitologia giapponese, eroi, draghi, coccodrilli e balene, mostri e scheletri, si susseguono maestosi e divertenti, imponenti e comici per la gioia di chi guarda.
siamo in un mondo pop, un'anticipazione sorprendente per ironia e immaginazione di un'arte grottesca e fumettistica, guardando i suoi ranocchi, pesci e gatti ho pensato moltissimo a Hayao Miyazaki e al suo universo colorato e magico.
Alla Permanente.
Assolutamente.






















venerdì 8 dicembre 2017

Oscuramente forte è la vita

Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.

La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.

Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.

Salvatore Quasimodo

giovedì 7 dicembre 2017

variazioni Goldberg

per me è stato un evento, un evento emotivo.
ne vorrei avere uno al giorno così, infatti non cerco che momenti come quelli, memorabili, incisivi, sento questo bisogno, direi ossessivo, di vivere quotidianamente un atto di senso. forse ho paura di morire e devo vivere moltissimo. ne va della mia vita.
le variazioni Goldberg al Conservatorio, pianista Angela Hewitt, ospite della Società del Quartetto, son state suonate per me, martedì sera.
il conservatorio era pieno, straripante, ma Bach le ha composte per me e Angela me le ha consegnate, martedì sera.
l'aria di apertura mi ha aperto una porta.
io credo la porta di entrata nell'universo.
Bach fa così, con la sua melodia mi ipnotizza e, con un trucco magico, mi trasporta nella sua divinità musica e mi mette in contatto con un ordine celestiale, perfetto, matematico e scientifico (ripetibile e dimostrabile), io sento di essere in uno spazio Kubrickiano. navigo in una dimensione altra, faccio un lunghissimo giro in zone sperdute dello spazio universo e del mio spazio intimo (che meravigliosamente coincidono), poi di nuovo risuona quell'aria iniziale, mi invita ad uscire, e io devo uscire. il viaggio è finito.
la porta si chiude, l'evento, l'atto di senso si conclude.
e io rimango appesa, smarrita, ammutolita.
Angela conclude la sua stregoneria e ci mette almeno 30 secondi, forse di più, forse di meno, prima di concedere al suo stesso corpo di interrompere il suo sodalizio con il pianoforte e l'universo mondo di Bach.
sono momenti pazzeschi, sono uno stordimento, sono in una terra di nessuno e con me tutto tutto il conservatorio, c'è un silenzio musicale che fa venire i brividi, non c'è più niente, la musica è finita ma non la sua risonanza, sono secondi indimenticabili, in quello spazio vuoto di silenzio muto, tra centinaia di persone, individui separati ma uniti, c'è tutto il valore della vita e del mondo intero, si dovrebbe vivere in eterno lì, in quel preciso momento. 

lunedì 4 dicembre 2017

oscurità, malsanía, sei sempre vita, e frullina e leggiadra e civetta

Vita, non abbandonarmi. Comunque tu sia, cactus, coltello,
daga, cappio, ferro in fuoco, oscurità, malsanía,
sei sempre vita, e frullina e leggiadra e civetta:
anche se nonostante, continuo ad amarti.
Comunque tu sia, laida e scrignuta e streghesca e malvagia,
sei sempre vita, e preziosa nel mio lapidario.
Verde riviera, non abbandonarmi:
anche se involto d’atroce malinconia,
non voglio smarrirti, zitella dal fiato pesante,
guercia bigotta, garrula becchina ,
tu rogna e affrancatura, tu amore, mia vita,
tu limpida vita, tu vita inimica, ma vita.

Angelo Maria Ripellino

mamma annachimi

mamma annachimi 
fammi na carizza
dimmi ca mi passa
matri chi sugnu cchiù
picchí
a cu cci-ù pozzu cuntari
qualcunu s’astruppìa
arritirimi
intra di tìa
iù e tu
tu
senza cchiù
u munnu ntornu
arritiramini ca ccà a stasira
qualcunu s’astruppìa
qualcunu s’astruppìa
qualcunu s’astruppìa
iù no
nenti cchiù mi fa nenti
però chiangii
penzu mi pari
a stanotte i me figghi m’intisunu
chiangiri
eru na vota so matri

da Nuatri e altre poesie di Angela Bonanno

(mamma cullami / fammi una carezza / dimmi che mi passa / madre cosa sono / perché / a chi lo posso raccontare / qualcuno si fa male / raccoglimi / dentro di te / io e tu / tu / senza più il mondo intorno / ritiriamoci che qua stasera / qualcuno si fa male / qualcuno si fa male / qualcuno si fa male / io no / niente più mi fa niente / però ho pianto / credo mi sembra / stanotte i miei figli mi hanno sentita / piangere / ero una volta sua madre)

Odio - altro capolavoro di Goffredo Parise

Un giorno uno studente passò davanti alla porta di un grande albergo di montagna e vide uscire una donna un po’ anziana, anzi la udì, perché la sua attenzione fu attratta da un suono animale, un canto di ranocchio. Girò lo sguardo e vide infatti una donna piccola, rotonda, fasciata da una pelliccia di visone bianco foderata di visone scuro. Anche gli stivaletti che aveva ai piedi erano lavorati con del visone bianco e scuro a spina di pesce.
La guardò in faccia: una faccia cotta da lunghe esposizioni al sole, marrone, unta e luccicante, a forma di escremento di mucca, come a cerchi concentrici; al tempo stesso pareva il muso schiacciato di un rospo, con due palle scure sporgenti ai lati, sormontate da una specie di cordone di sopracciglia fatte con la matita nera, e una larghissima bocca pendula agli angoli, senza labbra e tuttavia carica di rossetto. Aprì la bocca che pareva senza denti ed emise quel suono di rospo cantante, proprio come un rospo gonfiando la gola e le vene del collo.
Lo studente che era molto vicino non capì il significato di quel suono, però doveva essere un ordine a un cameriere che subito si affrettò verso una sdraio, la aprì e fece un cenno servile alla donna: questa sedette con le gambe larghe, estrasse diecimila lire nuove di zecca e come già pronte da una borsa di coccodrillo biancastro, con una mano scura tutta membrana e unghie e le porse al cameriere.
Questa visione e il suono che ne usciva dal taglio umido e rosso della bocca con felicità e soddisfazione colpirono con violenza lo studente che si sentì impallidire e poi arrossire sopraffatto da un fortissimo sentimento di odio. Egli aveva provato odio molte volte ma forse non era odio se paragonato a quanto provava in quel momento: in quel momento egli avrebbe afferrato la donna dalla sdraio, trascinata sulla strada, colpita, calpestata e uccisa con gli scarponi da sci.
Aspettava degli amici che già lo chiamavano da lunga automobile, con un grandissimo sforzo distolse gli occhi e l'udito dalla donna e si avviò verso di loro. Di natura allegra, fece il viaggio con gli amici senza dire una parola, tanto che una ragazza di nome Marina, la Marilyn della facoltà di fisica, gli disse "OH Pino (lo studente aveva lo strano nome di Fiordispino). ti sei svegliato male?".
"Non mi sento bene", disse lo studente con voce debole come se stesse per svenire. Era pallidissimo e ancora preda di quel sentimento che non era ancora riuscito a spiegare dentro di sé tanto grande era l'emozione. La strada si inerpicava verso oi campi di sci a strette curve e dopo due o tre ore di queste curve lo studente che non aveva mai sofferto la macchina chiese precipitosamente al guidatore di fermare, balzò fuori e vomitò sulla neve.
Si vergognò, specialmente nei confronti delle ragazze, Marina invece si avvicinò subito a lui che stava bocconi sulla neve ai bordi della strada e con una mano la raccoglieva e si strofinava la faccia. Disse ai ragazzi in macchina: "Andate avanti voi, semmai faccio l'autostop, non mi sento bene stamattina, scusatemi tutti".
Ci furono proteste di solidarietà, con in testa Marina con la sua tuta rossa che non voleva muoversi. Il guidatore, che proprio quell'inverno doveva laurearsi in medicina, accostò la macchina ai bordi della strada, e fece il suo dovere di quasi medico: scese e diede un'occhiata all'amico, bianco come la neve.
"Ci vorrebbe un cognac, qualcosa del genere", disse il quasi medico, e subito un altro ragazzo, grasso e con i capelli ricciuti, tirò fuori dalla tasca della giacca a vento una minuscola bottiglia di whisky che porse all'amico. Lo studente bevve un lungo sorso e subito si sentì meglio, riprese anche colore e dopo qualche passo e qualche esercizio dartirono per la vetta e sciarono fino alle due del pomeriggio. Parlarono moltissimo sciando, si davano consigli e raccomandazioni, i più scadenti ai più bravi: "attento alla valanga", dissero allo studente che era uscito di posta verso la neve fresca per fare una delle sue solite esibizioni "da camoscio". Ma lo studente non si sentiva in forma e cadde provocando una piccolissima valanga da cui però si rialzò e riprese a scendere pesando più che poteva sulla neve "rotta". Ma non era in forma, al rifugio quasi non mangiò, tornarono alle quattro, poco prima che il grande freddo del crepuscolo scendesse sulle montagne dalla grande punta rosa.
In camera, finalmente solo, Pino doveva studiare ma non potè farlo perchè davanti alle formule, anzi, egli pensò, "davanti alla cultura delle formule" si posò subito la larga faccia a forma di escremento di mucca della donna e la sua voce di rospo. Di nuovo quel sentimento lo prese, quasi gonfiandogli i muscoli che sarebbero stati pronti a scattare in modo autonomo dalla mente, contro la donna, per picchiarla, calpestarla e ucciderla.
Lo studente si sfogò sul cuscino del letto e dopo una buona scarica di pugni si sentì più calmo e si mise a pensare. Chi poteva essere quella donna? una riccona certamente da come era conciata con quel doppio, triplo visone e quella borsa e le dieci mila lire date al cameriere solo per aver aperto la sedia a sdraio. Forse una fruttivendola all'ingrosso, una da mercati generali, no, molto di più. Forse una commerciante di bestiame, forse aveva addirittura una banca, ma certamente la sua origine era popolare, una self made woman. Se non una baldracca che aveva sposato un riccone. Ma non doveva essere così, chiaramente i soldi se li era guadagnati lei personalmente con affari, o meglio con qualche fabbrica semi clandestina. Certamente non aveva marito o se lo aveva, il marito non contava nulla, era un poveraccio magro, piccolo e servizievole.
Ma perchè quel sentimento, quell'odio. Ora lo studente capiva che quel sentimento era soltanto odio e poiché era colto lo analizzò ed escluse subito che fosse odio di classe, sempre indiretto: qui si trattava di odio diretto, immediato, sotto certi aspetti animale, insomma lo definì tra sé odio di razza, di specie. I suoi personali interessi di biologia, di comportamento animale non lo aiutarono. Persistette nella definizione di odio di razza, di specie, concludendo tra sé, e rasserenandosi ad ogni istante di più, che gli uomini appartenevano solo convenzionalmente, anche se scientificamente, alla stessa razza, alla stessa specie, ma che in realtà erano di razze diverse, di una moltitudine di specie diverse che si polverizzavano fino all’individuo.
Lo studente dormì male, si svegliava continuamente di soprassalto, ma non si ricordava se erano sogni o incubi che lo svegliavano, e quali. Al mattino si alzò presto andò a prendere dei giornali, sedette al caffè, lesse, ma sempre contro voglia e tutto sommato dimenticando di quanto leggeva, una parola dopo l'altra. Vagò per il paese, durante la notte era caduta molta neve, in uno stato di grande inquietudine. Non voleva quasi dirlo a se stesso ma temeva di rivedere quella donna, di incontrarla da qualche parte, al tempo stesso lo voleva. Era quasi l'ora dell'appuntamento. Lo studente aveva appoggiato bastoncini e sci contro un distributore di benzina chiuso e fu in quel momento che sentì il richiamo, il canto di rana della donna. Era uscita, stavolta, con un'altra pelliccia, di lupo o di lince molto gonfia e lunga fino ai piedi. Sempre però con uguale colbacco e una borsa di coccodrillo scura. Parlava e rideva mostrando il buco vuoto e nero della larga bocca, dentro cui si intravedeva la lingua rossa e luccicante. "Forse ha un difetto nella bocca", pensò lo studente con calma. Ma immediatamente l'odio lo fece avvampare e gli gonfiò i muscoli, proprio nel momento in cui la donna passava accanto a lui.
Lo studente vide le palpebre della donna, verdi di bistro, calarsi in attimo sui bulbi degli occhi, proprio come le membrane dei rospi e però volendo esprimere tra sé qualcosa. Un momento di concentrazione, un conto, dei conti come per qualche grosso guadagno da ottenere, o non ottenuto. Lo studente le diede un calcetto con uno strano riso, un piccolo calcio con la punta degli scarponi. Le palpebre verdi della donna si aprirono di colpo, gli occhi sporgenti lo guardarono con paura, le zampette si afferrarono a tutta la borsa stringendola a sé. Lo studente diede un altro calcio, molto più forte, a questo punto la donna mandò alto quel canto di rana che però era lento, a strappi, quasi a chiamare gente, ma la gente non poteva capire  quel verso e lo studente le diede un pugno molto forte prima sul colbacco, che affondò fino agli occhi, e poi nel mezzo della faccia da cui zampillò subito il sangue. La donna annaspò fece come un piccolo balletto cieco intorno a sé stessa, scivolò sul ghiaccio e cadde. Sulla terrazza la gente guardava, incuriosita più che impaurita, c'era anche un vigile e un cameriere in giacca bianca, ma chissà perché nessuno intervenne. Tutti guardavano ma non si muovevano. I colpi dello studente erano tremendi e il sangue gocciolava nella neve e ad essi rispondeva quel canto lento di rana, qualche sgambettio e niente di più.
Ad un certo punto lo studente tentò di sollevarla da terra per il risvolto della pelliccia, che subito si scucì, e portò il volto unto e scuro vicino al suo, per il colpo più forte, quello con cui avrebbe voluto ucciderla, in piena faccia. Avvertì anche l'odore della crema per il sole ma in quel momento però la donna parve quasi sorridere, allargando la già larga bocca vuota e rossa di lingua in un sorriso di intesa, di accordo, insomma di affare.
Fu un attimo, l’attimo in cui lo studente, sollevato il pugno sopra la propria testa stava per calarlo sulla faccia di lei con la maggior forza possibile. Ma quel sorriso, quella proposta d’affare, tolsero ogni forza al pugno e vinsero.
Lo studente lasciò andare la donna che scivolò per terra ripetendo il suo verso e sempre guardando con quel sorriso, si girò di scatto e si avviò verso la macchina degli amici che era già lì ad aspettarlo. Caricò gli sci e partirono. Nessuno dell'albergo e delle sdraio si mosse, nemmeno il vigile, e la donna, dapprima a quattro zampe, poi barcollando, si rialzò in piedi, si riassettò, e lentamente, con un fazzoletto al naso, riprese la sua passeggiata.

Da I sillabari, Goffredo Parise