bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 29 febbraio 2016

La luce dell’alba cominciava a filtrare fra le foglie giganti degli alberi, diradando rapidamente le tenebre e svegliando gli abitanti della foresta

il corsaro nero, che divertimento.
un'eroe come si deve, galantuomo tutto d'un pezzo, coraggioso, fedele alla parola data, inflessibile, generoso, capace di sacrificio e anche di amore.
le sue gesta e quella dei suoi amici filibustieri sono onorevolissime. corsari non significa barbari, anzi, la disciplina e l'onore sono aspetti imprescindibili dell'appartenenza a questo gruppo di combattenti per la libertà. contro gli odiatissimi spagnoli, contro quel marrano assasino di Van Guld.
va da sè che il Corsaro, bellissimo e temerario, si innamorerà della figlia di Van Guld, bellissima e coraggiosa a sua volta. va da sè che in un romanzo di avventure queste complicazioni siano come il cacio sui maccheroni. va da sè anche che lo si scopra nell'ultima pagina del romanzo e che la sventurata, senza dire una parola, si lasci collocare, senza nessuna resistenza, sulla scialuppa  che la condurrà al largo, verso la morte, perchè il nostro corsaro, nonostante tutto il suo amore, è fedele al suo giuramento, sterminare Van Guld e tutta la sua famiglia.
attonito e sgomento la vedrà allontanarsi nella nebbia dall'alto della sua Folgore, corroso dal dolore  ma fermo nella sua decisione, pure piangerà.
Tutto l’equipaggio si era precipitato a tribordo e la seguiva cogli sguardi; ma nessuno parlava. Tutti avevano compreso che qualsiasi tentativo per smuovere il vendicatore sarebbe stato inutile.
Intanto la scialuppa s’allontanava sempre. La si vedeva spiccare come un grosso punto nero sulle onde che la fosforescenza ed i lampi rendevano scintillanti. Ora si alzava sulle creste, ora spariva negli abissi, poi ritornava a mostrarsi come se un essere misterioso la proteggesse.
Per alcuni minuti ancora la si poté scorgere, poi scomparve sul tenebroso orizzonte, che dense nubi, nere come se fossero sature d’inchiostro, avvolgevano.
Quando i filibustieri volsero gli sguardi atterriti verso il ponte di comando, videro il Corsaro piegarsi lentamente su se stesso, poi lasciarsi cadere su di un cumulo di cordami e nascondere il volto fra le mani. Fra i gemiti del vento ed il fragore delle onde si udivano, ad intervalli, dei sordi singhiozzi.
Carmaux si era avvicinato a Wan Stiller e, indicandogli il ponte di comando, gli disse con voce triste:
- Guarda lassú: il Corsaro Nero piange!...
è così che finisce il romanzo ed è così che io sono rimasta appesa all'ultima parola, senza conclusione della spinosa e dolorosa vicenda, con il cuore in gola, ed è poi così che sono andata a leggermi il seguito...la Regina dei Caraibi...
e mi sono pacificata.
tutto bene grazie al cielo.
il romanzo è nel suo genere strepitoso, divertente e appassionante.
quel che non mi aspettavo, nel vortice delle fantastiche avventure narrate, è la sconfinata conoscenza di Salgari su flora e fauna caraibiche. i dettagli sui fiori, sulle piante e sugli animali nelle più minute e incredibili derivazioni sono sbalorditivi e sconvolgenti. la parte del libro dedicata alla fuga attraverso la foresta vergine è un trattato di botanica e zoologia.
La luce dell’alba cominciava a filtrare fra le foglie giganti degli alberi, diradando rapidamente le tenebre e svegliando gli abitanti della foresta. I tucani dal becco enorme, grosso quanto il loro intero corpo e cosí fragile che costringe quei poveri volatili a gettare il cibo in alto aspettando che cada per ingollarlo, cominciavano a svolazzare sulle piú alte cime degli alberi, mandando le loro grida sgradevoli che somigliano al cigolare di una ruota male unta; gli onorati, nascosti nel piú fitto delle piante, lanciavano a piena gola le loro note baritonali do... mi... sol... do..., i cassichi bisbigliavano dondolandosi sui loro strani nidi in forma di borse, sospesi ai flessibili rami dei mangli o all’estremità delle foglie immense dei maot mentre i graziosi uccelli mosca volavano di fiore in fiore, come gioielli alati, facendo scintillare ai primi raggi del sole le loro piume verdi, turchine o nere a riflessi d’oro e di rame. Qualche coppia di scimmie, uscita dal nascondiglio, cominciava ad apparire, stiracchiandosi le membra e sbadigliando col muso rivolto al sole. Erano per lo piú dei barrigudo, quadrumani alti sessanta od ottanta centimetri, con una coda lunga piú dell’intero corpo, con pelame morbido, nero cupo sul dorso e grigiastro sul ventre ed una specie di criniera sulle spalle. Alcuni si dondolavano appesi per la coda, mandando le loro grida che sembravano volessero dire eske, eske, altri invece, vedendo passare il piccolo drappello, s’affrettavano a salutarlo con boccacce, scagliando frutta e foglie, essendo maligni e impudenti. In mezzo alle foglie delle palme si scorgeva anche qualche banda di minuscoli quadrumani, di mico, i piú graziosi di tutti, essendo cosí piccini da poter star comodamente nella tasca di una giacca. Salivano e scendevano con vivacità i rami, cercando gli insetti che costituiscono il loro cibo, appena però scorgevano gli uomini si mettevano premurosamente in salvo, sulle fronde piú alte, e di lassú stavano a guardarli coi loro occhi intelligenti ed espressivi. Di passo in passo che i filibustieri s’inoltravano, gli alberi e le macchie si diradavano, come se non trovassero di loro gradimento quel terreno saturo d’acqua e di natura probabilmente argillosa. Le splendide palme erano già scomparse e non si vedevano che gruppi di imbauda, specie di piccoli salici, che muoiono durante la stagione piovosa, per ricomparire nella stagione secca; delle iriartree pinciute, strani alberi che hanno il tronco assai rigonfio nella parte inferiore, sostenuto, per un’altezza di due o tre metri, da sette od otto robuste radici e che a venticinque metri d’altezza portano delle grandi foglie dentellate, ricadenti all’ingiro come un enorme ombrello. Ben presto però anche quegli ultimi alberi scomparvero per dar luogo ad ammassi di calupo, piante dalle cui frutta tagliate a pezzi e lasciate un po’ a fermentare si ricava una bevanda rinfrescante, ed i giganteschi bambú alti quindici e perfino venti metri e cosí grossi da non potersi abbracciare.
il linguaggio di Salgari è epico, eroico, non lascia trasparire paure, nè incertezza, rivela un mondo assoluto senza sbavature, senza sfumature. potrebbe correre il rischio della retorica, ma siamo sulla Folgore, siamo tra i filibustieri della Tortue, tra gli uragani delle Antille alla caccia del governatore di Maracaibo...non scherziamo, queste sono cose serie.
Un uomo era sceso allora dal ponte di comando e si dirigeva verso di loro, con una mano appoggiata al calcio d’una pistola che pendevagli dalla cintola.
Era vestito completamente di nero e con una eleganza che non era abituale fra i filibustieri del grande Golfo del Messico, uomini che si accontentavano di un paio di calzoni e d’una camicia, e che curavano piú le loro armi che gli indumenti.
Portava una ricca casacca di seta nera, adorna di pizzi di eguale colore, coi risvolti di pelle egualmente nera; calzoni pure di seta nera, stretti da una larga fascia frangiata; alti stivali alla scudiera e sul capo un grande cappello di feltro, adorno d’una lunga piuma nera che gli scendeva fino alle spalle.
Anche l’aspetto di quell’uomo aveva, come il vestito, qualche cosa di funebre, con quel volto pallido, quasi marmoreo, che spiccava stranamente fra le nere trine del colletto e le larghe tese del cappello, adorno d’una barba corta, nera, tagliata alla nazzarena e un pò arricciata.
Aveva però i lineamenti bellissimi: un naso regolare, due labbra piccole e rosse come il corallo, una fronte ampia solcata da una leggera ruga che dava a quel volto un non so che di malinconico, due occhi poi neri come carbonchi, d’un taglio perfetto, dalle ciglia lunghe, vivide e animate da un lampo tale che in certi momenti doveva sgomentare anche i piú intrepidi filibustieri di tutto il golfo.
La sua statura alta, slanciata, il suo portamento elegante, le sue mani aristocratiche, lo faceva conoscere, anche a prima vista, per un uomo d’alta condizione sociale e soprattutto per un uomo abituato al comando.
I due uomini del canotto, vedendolo avvicinarsi, si erano guardati in viso con una certa inquietudine, mormorando:
- Il Corsaro Nero!
- Chi siete voi e da dove venite? - chiese il Corsaro, fermandosi dinanzi a loro e tenendo sempre la destra sul calcio della pistola.
- Noi siamo due filibustieri della Tortue, due Fratelli della Costa, - rispose Carmaux.
- E venite?
- Da Maracaybo.
- Siete fuggiti dalle mani degli spagnuoli?
- Sí, comandante.
- A qual legno appartenevate?
- A quello del Corsaro Rosso. -
Il Corsaro Nero udendo quelle parole trasalí, poi stette un istante silenzioso, guardando i due filibustieri con due occhi che pareva mandassero fiamme.
- Al legno di mio fratello, - disse poi, con un tremito nella voce.
Afferrò bruscamente Carmaux per un braccio e lo condusse verso poppa, traendolo quasi a forza.
Giunto sotto il ponte di comando, alzò il capo verso un uomo che stava ritto lassú, come se attendesse qualche ordine, e disse:
- Incrocierete sempre al largo, signor Morgan; gli uomini rimangano sotto le armi e gli artiglieri con le micce accese; mi avvertirete di tutto ciò che può succedere.
- Sí, comandante, - rispose l’altro. - Nessuna nave o scialuppa si avvicinerà, senza che ne siate avvertito.
Il Corsaro Nero scese nel quadro, tenendo sempre Carmaux per il braccio, entrò in una piccola cabina ammobiliata con molta eleganza ed illuminata da una lampada dorata, quantunque a bordo delle navi filibustiere fosse proibito, dopo le nove di sera, di tenere acceso qualsiasi lume, quindi indicando una sedia disse brevemente:
- Ora parlerai.
- Sono ai vostri ordini, comandante. -
Invece d’interrogarlo, il Corsaro si era messo a guardarlo fisso, tenendo le braccia incrociate sul petto. Era diventato piú pallido del solito, quasi livido, mentre il petto gli si sollevava sotto frequenti sospiri.
Due volte aveva aperto le labbra come per parlare, e poi le aveva richiuse come se avesse paura di fare una domanda, la cui risposta doveva forse essere terribile.
Finalmente, facendo uno sforzo, chiese con voce sorda:
- Me l’hanno ucciso, è vero?
- Chi?
- Mio fratello, colui che chiamavano il Corsaro Rosso.
- Sí, comandante, - rispose Carmaux, con un sospiro. - Lo hanno ucciso come vi hanno spento l’altro fratello, il Corsaro Verde. -
Un grido rauco che aveva qualche cosa di selvaggio, ma nello stesso tempo straziante, uscí dalle labbra del comandante.
Carmaux lo vide impallidire orribilmente e portarsi una mano sul cuore, e poi lasciarsi cadere su di una sedia, nascondendosi il viso colla larga tesa del cappello.
Il Corsaro rimase in quella posa alcuni minuti, durante i quali il marinaio del canotto lo udí singhiozzare, poi balzò in piedi come se si fosse vergognato di quell’atto di debolezza. La tremenda emozione che lo aveva preso era completamente scomparsa; il viso era tranquillo, la fronte serena, il colorito non piú marmoreo di prima, ma lo sguardo era animato da un lampo cosí tetro che metteva paura.
Fece due volte il giro della cabina come se avesse voluto tranquillarsi interamente prima di continuare il dialogo, poi tornò a sedersi, dicendo:
- Io temevo di giungere troppo tardi, ma mi resta la vendetta. L’hanno fucilato?
- Appiccato, signore.
- Sei certo di questo?
- L’ho veduto coi miei occhi pendere dalla forca eretta sulla Plaza de Granada.
- Quando l’hanno ucciso?
- Quest’oggi, dopo il mezzodí.
- È morto?...
- Da prode, signore. Il Corsaro Rosso non poteva morire diversamente, anzi...
- Continua.
- Quando il laccio stringeva, ebbe ancora la forza d’animo di sputare in faccia al governatore.
- A quel cane di Wan Guld?
- Sí, al duca fiammingo.
- Ancora lui! Sempre lui!... Ha giurato adunque un odio feroce contro di me? Un fratello ucciso a tradimento e due appiccati da lui!
- Erano i due piú audaci corsari del golfo, signore, è quindi naturale che li odiasse.
- Ma mi rimane la vendetta!... - gridò il filibustiere con voce terribile. - No, non morrò se prima non avrò sterminato quel Wan Guld e tutta la sua famiglia e dato alle fiamme la città ch’egli governa. Maracaybo, tu mi sei stata fatale; ma io pure sarò fatale a te!... Dovessi fare appello a tutti i filibustieri della Tortue ed a tutti i bucanieri di San Domingo e di Cuba, non lascerò pietra su pietra di te! Ora parla, amico: narrami ogni cosa. Come vi hanno presi?.
- Non ci hanno presi colla forza delle armi bensí sorpresi a tradimento quando eravamo inermi, comandante.
Come voi sapevate, vostro fratello si era diretto su Maracaybo per vendicare la morte del Corsaro Verde, avendo giurato, al pari di voi, di appiccare il duca fiammingo.Eravamo in ottanta, tutti risoluti e decisi ad ogni evento, anche ad affrontare una squadra, ma avevamo fatto i conti senza il cattivo tempo.All’imboccatura del Golfo di Maracaybo, un uragano tremendo ci sorprende, ci caccia sui bassi fondi e le onde furiose frantumano la nostra nave. Ventisei soli, dopo infinite fatiche, riescono a raggiungere la costa: eravamo tutti in condizioni cosí deplorevoli da non opporre la minima resistenza e sprovvisti di qualsiasi arma.Vostro fratello ci incoraggia e ci guida lentamente attraverso le paludi, per tema che gli spagnuoli ci avessero scorti, e che avessero incominciato ad inseguirci.Credevamo di poter trovare un rifugio sicuro nelle folte foreste, quando cademmo in una imboscata. Trecento spagnuoli, guidati da Wan Guld in persona, ci piombano addosso, ci chiudono in un cerchio di ferro, uccidono quelli che oppongono resistenza e ci conducono prigionieri a Maracaybo.
- E mio fratello era del numero?
- Sí, comandante. Quantunque fosse armato d’un pugnale, si era difeso come un leone, preferendo morire sul campo piuttosto che sulla forca, ma il fiammingo l’aveva riconosciuto ed invece di farlo uccidere con un colpo di fucile o di spada, l’aveva fatto risparmiare. Trascinati a Maracaybo, dopo di essere stati maltrattati da tutti i soldati ed ingiuriati dalla popolazione, fummo condannati alla forca. Ieri mattina però, io ed il mio amico Wan Stiller, piú fortunati dei nostri compagni, siamo riusciti a fuggire strangolando la nostra sentinella. Dalla capanna di un indiano presso il quale ci siamo rifugiati, abbiamo assistito alla morte di vostro fratello e dei suoi coraggiosi filibustieri, poi alla sera aiutati da un negro ci siamo imbarcati su di un canotto, decisi di attraversare il golfo del Messico e giungere alla Tortue. Ecco tutto, comandante.
- E mio fratello è morto!... - disse il Corsaro con una calma terribile.
- L’ho veduto come vedo ora voi.
- E sarà ancora appeso alla forca infame?
- Vi rimarrà tre giorni.
- E poi verrà gettato in qualche fogna.
- Certo comandante.-
Il Corsaro si era bruscamente alzato e si era avvicinato al filibustiere.
- Hai paura tu?... - gli chiese con strano accento.
- Nemmeno di Belzebú, comandante.
- Dunque tu non temi la morte?
- No.
- Mi seguiresti?
- Dove?
- A Maracaybo.
- Quando?
- Questa notte.
- Si va ad assalire la città?
- No, non siamo in numero sufficiente ora, ma piú tardi Wan Guld riceverà mie nuove. Ci andremo noi due ed il tuo compagno.
- Soli? - chiese Carmaux, con stupore.
- Noi soli.
- Ma che volete fare?
- Prendere la salma di mio fratello.
- Badate comandante! Correte il pericolo di farvi prendere.
- Tu sai chi è il Corsaro Nero?
- Lampi e folgori! È il filibustiere piú audace della Tortue.
- Va’ adunque ad aspettarmi sul ponte e fa preparare una scialuppa.
- È inutile, capitano, abbiamo il nostro canotto, una vera barca da corsa.
- Va’!
buona lettura a tutti.

domenica 28 febbraio 2016

i sospiri del mio cuore

non del mio.
ma della piccola Shizuku.
che film meraviglioso!!
Studio Ghibli, film di di Yoshifumi Kondo, allievo prediletto di Miyazaki Hayao.
il film è delizioso, vivace e fresco, riempie di gioia e di stupore.
non so quale sia l'ingrediente magico di questi autori, Miyazaki e i suoi discepoli, certo le narrazioni dello studio Ghibli, i personaggi, le ambientazioni, i dialoghi, i disegni, sono ineguagliabili.
anche in questa storia sulle inquietudini e sui sogni di questa amabile ragazza c'è quel lato magico, quell'aspetto legato a una natura amica e potente che rende il film unico.
l'aspetto più sorprendente rimangono i dialoghi, immediati, realistici, e al contempo ricchi di profondità e verità. 
i sospiri sono quelli del cuore, Shizuku vorrebbe conoscere un lettore tanto assiduo degli stessi libri che lei sceglie in biblioteca, e quelli della crescita, Shizuku è ancora incerta sul quel che desidera nella vita, alla ricerca di un'identità, tematica tutta adolescenziale qui mescolata alla bellezza del sogno artistico (che naturalmente si colloca in Italia come in tutti i film dello studio Ghibli) e al trasporto legato alla fantasia (inaugurato da un gatto sornione come in Alice nel Paese delle Meraviglie che condurrà Shizuku alla conoscenza di un negozio di cianfrusaglie ammantato di mistero e di promesse meravigliose per il futuro).
le parole, gli oggetti, le descrizioni, i sorrisi e le battute, le albe e i tramonti, i gesti e le dimenticanzesono così vivi e vivaci che essere lì, con la piccola Shizuku, è stato un piacere e una rivelazione.
 

giovedì 25 febbraio 2016

un’infanzia che soffre è come un’anima insepolta, che geme in eterno

dice Irène Némirovsky.
lo rende bene Sonia Bergamasco ne Il ballo, tratto dal romanzo dell'autrice.
l'ho visto al Franco Parenti.
della Bergamasco penso che è la moglie di Gifuni. si, penso questo, è strano??, e mi chiedo come si parlano due così. cosa fanno a casa con le loro bambine? litigano?, il tono di voce com'è? chi recita meglio, se lo chiedono?
cose mie, penso queste cose.
lo penso mentre la vedo e sento recitare, bene, in questa breve ma riuscita piece teatrale.
si muove molto, fa tante voci diverse, e in verità non sono certa che questo le riesca sempre bene, ma penso che reciti, e recita in effetti, ma recita bene. certo quelli che recitano meglio sono quelli che non recitano, come Elio Germano. Gifuni è un genio, non so se recita o no, qualcosa dentro di lui si trasforma, in un altro, e lo possiede. 
la Bergamasco è lieve, aggraziata, elegante, questo mi piace. 
capisco che è dentro al testo. ce l'ha.
testo che mi folgora, a un certo punto.
Ha sempre la testa tra le nuvole, questa bambina - commentò a mezza voce -. Un ballo, non ti riempie di orgoglio pensare che i tuoi genitori danno un ballo? Non sei molto sveglia, temo, povera figlia mia - concluse con un sospiro, andandosene.
dapprima appare evidente che quella cattiva è la madre, frivola, superficiale, crudele. feroce.
poi però anche la piccola figlia, Antoinette, così orribilmente colpita e umiliata, sembra sapere bene come fare a vendicarsi.
Se mi avesse toccato, l'avrei graffiata, morsa, e poi... Si può sempre fuggire... e per sempre... La finestra - pensò con agitazione febbrile [...] - Sporchi egoisti! Sono io che voglio vivere, io, io... Sono giovane, io... Mi derubano, si prendono la mia parte di felicità sulla terra...
e, dopo, è lei quella crudele e feroce.
un bel cambio di passo, un effetto mica da poco, si riflettono, madre e figlia.
la scena è piena di specchi che piano piano si svelano tutti.
un rispecchiamento, è chiaro. un disvelamento, è evidente.














un testo che parla del valore della testimonianza, quel che una figlia può imparare dall'esempio della madre, la crudeltà è regno di entrambe, eccole unite, legate, inseparate nel segno della malvagità.
la perpetuazione dell'odio, nell'inconsapevolezza dello scambio dei ruoli.
Ah, mia povera figlia, mia povera piccola Antoinette. Tu sei felice, non sai ancora come il mondo è ingiusto, cattivo e ipocrita... questa gente che mi faceva grandi sorrisi, che mi invitava, ora mi disprezza, ride alle mie spalle perché non faccio parte del suo mondo... brutti cammelli... ma tu non puoi capire, povera figlia mia! e tuo padre! ecco, non ho che te!... La strinse tra le braccia. Il piccolo viso schiacciato contro le perle della sua collana, non la vide sorridere. Sei una buona figlia Antoinette... mentre una stava per spiccare il volo, l'altra sprofondava nell'ombra. Ma non lo sapevano. Eppure Antoinette ripeteva con dolcezza: - Povera mamma...

lunedì 22 febbraio 2016

sangue del mio sangue

il film di Bellocchio non è convincente.
se mi è piaciuto il capitolo su Bobbio antica, con l'esplorazione di quel femminino inarrivabile, sul mistero della donna, sull'inafferrabilità del desiderio femminile che crea dissesto e follia, mi è del tutto incomprensibile, fino alla noia, il capitolo sulla Bobbio moderna.
questo innesto nella storia è stonato, interrompe un flusso narrativo altrimenti interessante, aggiunge temi senza sintonia con il primo assunto. la narrazione del moderno femminino è priva di fascino e di energia. eppure, nella prima parte, la scena della cena tra Federico Mai, uomo d'arme, e le due sorelle, quella specie di sdoppiamento della figura femminile insieme a quel muoversi e parlare in sintonia, quel sussurrare e riproporre il dilemma della femminilità quale tema inafferrabile al mondo, non concettualizzabile, è magistrale.
quel che mi preme è soprattutto la tematica delle religione che invoca, consapevole?, inconsapevole?, la risoluzione allo spaesamento dettato da una suora, Benedetta, che esprime amore e sessualità, che produce morte e tradimenti, nella demonizzazione, nel nome di satana. si susseguono le torture, le prove di innocenza o colpevolezza, si invoca il rogo delle streghe, si marchia la carne con il fuoco, si mura viva per 30 anni la femminilità, e, tutto questo odio insensato, nel nome di dio.
ci stupiamo dell'Isis? Francesco, il papa, dice che usare il nome di dio per invocare odio e violenza è una bestemmia, eppure il passato della chiesa è pieno di queste mostruosità, l'Isis non si è inventato nulla.
nel nome di dio si compiono da sempre atrocità infami e feroci.
e il nome di dio può avere molte declinazioni, tutti in nome di un dio, di un bene, di un assoluto, di un dogma, di una convinzione, di una certezza, di un fanatismo, di una sacralità, tutti compiamo, in nome di quel nome, crudeltà innominabili.

venerdì 19 febbraio 2016

Consiglio alla vendetta e Accusa segreta

Venezia, 1848.



vendicarsi o no? Maria è in lotta tra orgoglio e vendetta, dignità e delazione, fiducia e sospetto, amore e furore e un tormento disegnato sul volto in lacrime e dallo sguardo volto altrove, cerca di distogliere l'attenzione, di non sentire quei sugggerimenti feroci di vendetta che vengono dall'amica Rachele, amica che già stringe la lettera anonima da lasciare nella bocca del leone.
Rachele sembra risoluta, la maschera sul volto, nessuna emozione, nessun ripensamento, Maria, invece, soffre, che fare? tiene lontana quella tentazione di vendetta. Via dal mio cuore sì vil pensiero!, il braccio di Maria sembra voler fermare quella intenzione tenendo lontano da sè l'oggetto della delazione: l'accusa, falsa, di tradimento della repubblica veneta del suo amante, che l'ha tradita.



ancora dolente, ancora indecisa, o forse già  avviata verso questa risoluzione, ora Maria è sola con il tormento della decisione, quella dell'accusa segreta. sconvolta, il velo in disordine, il vestito mal messo che svela il seno, lo sguardo stravolto, la mano tiene indietro, lontano dallo sguardo quella lettera di fuoco, la tiene con due dita, scotta, freme, non vorrebbe nemmeno tenerla in mano.

scrive Andrea Maffei, poeta contemporaneo:

«Spunta il mattino, deserta è l’ora
Nobili e plebe nel sonno ancora.
Sol due patrizie passan la via;
l’una è larvata, l’altra è Maria.
Ella dal piangere quasi affogata
La bruna maschera s’era levata. 
MARIA: Ove mi traggi? Parla, o Rachele.
RACHELE: A vendicarti dell’infedele.
MARIA: A vendicarmi? Non valgo a tanto.
RACHELE: No, fin che vivi scortata in pianto.
Pensa al leone! Quel marmor aspetta
A bocca aperta la tua vendetta.
MARIA: La mia?
RACHELE: L’infame che te tradisce
Contro Vinegia congiure ordisce.
Qui son le prove dei suoi delitti;
L’accusa è questa: se tu la gitti
Entro la gola di quel leone,
Essa al cospetto dei Tre lo pone.
MARIA: Dei Tre? Mi sento drizzar le chiome
Solo al bisbiglio di questo nome.
RACHELE: La scure o il laccio saran mercede
Di chi due volte tradì la fede.
MARIA: Via dal mio cuore sì vil pensiero!
Saria l’inganno del suo più nero.
RACHELE: Che! gli perdoni?
MARIA: Dai tre potria
Sperar perdono, non da Maria.
RACHELE: Ma del tuo vano femineo sdegno
Colla sua druda ride l’indegno.
MARIA (accenna la carta) La tua sola vendetta è questa.
MARIA: (irresoluta) Ira mi sprona, pieta m’arresta…
RACHELE: Vuoi chi t’accese d’amor sì forte
D’un’altra in braccio?
MARIA: No! Della morte. 

Spunta il mattino, deserta è l’ora
Nobili e plebe nel sonno ancora.
Sol due patrizie passan la via;
L’una è larvata, l’altra è Maria
Ella dal piangere quasi affogata
La bruna maschera s’era levata.
Le strappa di mano la carta e corre a gettarla nella bocca del leone.»

Consiglio alla vendetta e Accusa segreta di Francesco Hayez.
a Milano, Gallerie d'Italia, una mostra che non mi aspettavo.
ero scettica, ho trovato del bello.
questo è straordinario.

giovedì 18 febbraio 2016

artico

in linea con The Revenant, e in seguito al Richiamo della foresta e Zanna Bianca, ecco Vincent Munier con Artico, immagini da un mondo bianco.
tutto un programma, il mio.
sono soddisfatta.

poche foto alla Galleria Contrasto, un posto ficcato in un buco che manco si vede, ma bellissime.
bellissime.
alcune un po' ritoccate eh...ma l'effetto è strepitoso.
bellissime.
biancore candore fascino vita luce accecamento.
e il wild, il Wild di Jack London.

Una cupa foresta di abeti si stendeva sulle due rive del fiume ghiacciato. Recentemente il vento aveva strappato agli alberi il loro bianco mantello di brina; e gli alberi, neri e sinistri, sembrava si appoggiassero l'uno all'altro, nella luce morente. Un silenzio di tomba regnava sul paesaggio: e il paesaggio stesso era desolato, senza vita, senza movimento, così squallido e gelido da sembrare permeato di un qualcosa di più triste della stessa tristezza. Vi regnava quasi un accento di riso, un ghigno ben più terribile di ogni tristezza, un riso tetro come il sorriso della sfinge, un riso freddo come il gelo, in cui si sentiva aleggiare la truce minaccia dell'ineluttabilità. Era la saggezza imperiosa dell'eternità che irrideva alla futilità della vita e agli sforzi dell'umanità. Era il "Wild", il selvaggio "Wild" della Terra del Nord, dal cuore di ghiaccio. Ma in quella regione, sfidando il gelo, c'era la vita. Lungo il fiume ghiacciato scendeva a fatica una muta di cani lupi. Il loro pelo irsuto era coperto di brina. Ad ogni respiro, il vapore che usciva come un getto dalle loro bocche gelava subito e si posava, sotto forma di cristalli di ghiaccio, sulle loro pellicce.
(Zanna Bianca, Jack London)

mi fanno venire i brividi.
BELLISSIME.

domenica 14 febbraio 2016

we can be heroes

ho visto Mommy.
ho visto Noi siamo infinito.
ho visto Timbuktu.
tre bei film.

ho visto Unbroken.
di Angelina Jolie. 
film mediocre, una regia pessima.
non mi piacciono la ricchezza e la fama che tentano di tutto per affermarsi, per trasformarsi in bene, per motivarsi al di là di quello che sono. sono solo fama, soldi, potere, nessun gioco di prestigio, per favore, siamo seri. la Jolie è un'attrice mediocre ed è una pessima regista. ho visto nel film delle ingenuità che non  mi hanno fatto tenerezza, mi hanno dato fastidio condite di una vena sadomaso di vecchia data, ora spettacolarizzata nel più intalentuoso dei modi. un compiacimento dozzinale, volgare. leggo che la signora Jolie, che si svena in giro con opere umanitarie, ed evidentemente con film di presunta denuncia, ha la casa piena di armi, sostenitrice convinta della National Rifle Association, evidentemente ci si intenerisce con il velo sui capelli e la faccia contrita davanti ai bambini africani malnutriti o ai siriani massacrati ma intanto ci si legittima di poter ammazzare chiunque si avvicini al perimetro di casa con cattive intenzioni. che dire poi se quelle armi fanno in casa USA stragi simili a quelle per cui si si mobilita davanti ai media con la faccia addolorata? si tratta solo di trovare la causa giusta da dare in pasto ai carnivori famelici, di ipnotizzare il pubblico con la posa adatta, nel contesto giusto, it's all right baby, isn't it? che vuoi farci, gli americani sono fatti così. tanto tanto liberali, tutto è possibile, tutto è garantito, it's ok.
la stessa operazione non funziona con i film, se non sei buona si vede. e si vede.

Mommy, di Xavier Dolan, è un bel film, coglie bene, anzi benissimo quel legame che se diventa indissolubile crea tanta irrimediabile sofferenza tra madre e figlio. anche nel film nessuno sembra capire che quello è il problema, non l'ADHD, non l'autocontrollo, non il disturbo di personalità, non la comunità che contiene, piuttosto un vincolo d'amore che sfiora l'incesto, che è incesto, che non prevede, e non accetta, nessuna Legge che li divida, madre e figlio, e li condanna a una indissolubilità senza limite. un corpo si fonde nell'altro, non c'è separazione possibile. lo schermo è quadrato, l'immagine è ritagliata in una gabbia, la gabbia è quella dell'amore divorante.

Noi siamo infinito, di Stephen Chbosky,  è pieno di vita e di speranza. è pieno delle note e parole di We can be Heroes. e l'ho visto pochi giorni dopo la scomparsa di Bowie, un certo effetto mi è scivolato lungo la schiena. di eroi si tratta, adolescenti che si fanno eroi per superare il loro faticosissimo quotidiano, ci dimentichiamo troppo spesso di quanto dolore comporta la crescita. poetico, asciutto, realista. la spinta verso infinito ideale si complica causa la radice reale che ci tiene legati alle nostre origini, ma la meta è quella, da adolescenti la meta è quella, l'infinito. poi, dopo, nella peggiore delle ipotesi, arrivare a fine giornata.

di Timbuktu, di Abderrahmane Sissako, temevo l'asprezza delle immagini, la violenza dello jihadismo, ma il film, invece, sa parlare bene, dentro alle cose, dentro al discorso, senza enfatizzare l'apocalisse.
i paesaggi africani dello sfondo inondano lo sguardo di meraviglia, così che il contrasto con la durezza di una legge senza senso diventa ancora più drammatico: bellezza violata, violentata. una famiglia viene spezzata dalla rabbia di un momento e tutto si srotola davanti agli occhi senza poter fermare il dolore della perdita. l'amore fa da sfondo, la comunità è il contesto e la lingua araba parlata dagli invasori è muta, non comunica, rimane senza traduzione possibile, è come la partita a calcio giocata senza pallone, scena memorabile. una testimonianza tutt'altro che sanguinaria ma di grandissima eleganza narrativa.

questo è cinema.

giovedì 11 febbraio 2016

Kodò














va bene, basta parole.
passiamo ai fatti.
in questo caso ai tamburi.
al battito del cuore.
perché io ho pensato al cuore, che batte.
al solito mi sono persa nel guardare i corpi, quel che il corpo sa fare.
è un miracolo ogni volta che accade, maestria, talento, padronanza, velocità, potere sull'assoluto.
in questo caso il corpo evoca se stesso, nella notte dei tempi.
quel tumulto è vita, ma è anche agitazione, è affanno, è tachicardia, è ansia.
uno spettacolone mai visto, una grande potenza passa dalle orecchie, dagli occhi ma arriva lì, diretto al centro della vita. a volte è anche leggero, quel movimento, simula il parlare delle ragazze, invoca draghi e misteri.
il corpo sfida la vita, la natura maestosa, forse potrebbe vincere la morte.
a sentirlo, quel battito, si potrebbe pensarla così.

domenica 7 febbraio 2016

non rinchiuderti, arte, nelle tue stanze ma resta amica dei ragazzi di strada.

non che io ne sappia qualcosa, infatti delego ad  altri spiegare il tutto sulla Street Art, sulla Stencil Art e sull'esercito di “ghostly Street Art characters”, mi limito a dire che il mondo è grande, Milano anche, ora c'è pure la Wunderkammern, che inaugura la propria apertura con la mostra Blek Le Rat “Propaganda”.
io l'ho vista, “Propaganda”, in Via Ausonio, due sale, forse tre se comprendo il soppalco, sa di nuovo la Wunderkammern, ha una vista su un cortile mozzafiato, e le opere di questo signore sono interessanti.
e interessante è anche il testo introduttivo di Jacopo Perfetti. non è un mio amico, mai sentito prima, ma come dicevo il mondo è grande e io non ne vedrò che una parte infima, anche meno, ma ho letto due righe sulla comparsa dei ratti neri sui muri di Parigi, sull'onda delle speculazioni ardite, poi mortifere, dei mercati USA. in contrasto alla società dopata senza regolamentazioni, questo signore francese inizia a mettere ratti sui muri e poi a fare stencil, apre una finestra sul reale della nostra vita al di là delle edulcorazioni delle propagande, false, dei mercati strafatti di cocaina.
Non rinchiuderti, arte, nelle tue stanze ma resta amica dei ragazzi di strada.
dice Blek le Rat parafrasando una poesia di Vladimir Majakovskij dopo la rivoluzione d'Ottobre nel 1917.

credo il meglio sia per strada, non in una mostra, credo che l'effetto sia diverso, ma da qualche parte devo pur cominciare.
le rivolte da qualche parte devono pur cominciare.
per strada è meglio che altrove.

Arte, arte, e ancora arte. La vita è troppo preziosa per essere sprecata, non deve attendere ma andare in sorpasso. Avidi e mai aridi, bisognosi di nutrimento per quella magnifica rete neuronale, ancora imbattuta dalla rete virtuale. Per gli insaziabili di cultura, è in programma un appuntamento imperdibile presso la “neonata” sede milanese di Wunderkammern, che inaugura la propria apertura con la mostra Blek Le Rat – “Propaganda”, a cura di Giuseppe Ottavianelli, con un testo critico di Jacopo Perfetti, in collaborazione con Institut Français Italia. 
Il via è previsto per mercoledì 20 gennaio alle h. 18:30, in via Ausonio 1, e si parte con un nome di tutto rispetto, Blek Le Rat, pseudonimo dell’artista francese Xavier Prou, ispirato al personaggio di Blek Macigno, tratto dal fumetto tutto italiano «Il grande Blek». SkullXavier inizia a dipingere con un amico nel 1981, usando il nome collettivo di “de Blek”, e solo in seguito proseguirà la sua vita artistica da solo con il nome appunto di Blek Le Rat, con il ratto (Rat, anagramma di Art) a diventare immediatamente il suo simbolo. Fautore di una vera e propria rivoluzione parigina della Street Art targata anni Novanta, che con lui diventa un fenomeno globale, è il precursore della Stencil Art grazie all’introduzione degli stencil a grandezza naturale. Un vero e proprio esercito di “ghostly Street Art characters”, che da silente decorazione si trasforma in una vittoriosa conquista degli spazi urbani. 
L’idea degli stencil parte nel 1992, quando per aggirare la legge, in seguito ad una condanna del tribunale a pagare una multa per danneggiamento di beni altrui, decise di non dipingere più direttamente sui muri: «Perché Parigi è piena di merde di cane e i loro padroni impuniti, mentre io devo addirittura rischiare il carcere?». Le sue opere hanno tuttora una grandissima influenza sugli esponenti della street art mondiale. Lo stesso Banksy ha affermato: «Every time I think I’ve painted something slightly original, I find out that Blek Le Rat has done it as well, only twenty years earlier». Un’originalità antesignana, che anticipa i tempi di ben vent’anni. 
Blek Le Rat spiega l’origine della sua attività artistica, quando in un viaggio a New York City nel 1971 vede per la prima volta i graffiti, un’esplosione virale di lettere e colori che lo incuriosirono a tal punto dal fargli chiedere al suo amico americano Larry Wolhandler: «Che cosa significa tutto questo? Perché questa gente sta facendo questo?». Una passione che da quel giorno non lo abbandonò mai più: «Non c’è niente di più eccitante che lavorare con le mani congelate nel mezzo di una notte d’inverno, quando il cuore batte forte per la paura». 
Leggendo le parole di Blek Le Rat si può capire ciò che anima questa potente forma di espressione artistica: «Il movimento del graffitismo non ha altra intenzione che quella di parlare con le immagini. Parole per la comunità, parole d’amore, parole di odio, di vita e morte. È solo un tipo di terapia bella e penetrante, un tentativo di riempire il vuoto di questo mondo terribile, per coprire lo spazio pubblico con immagini che la gente che va al lavoro può godere. Ma le autorità non erano in sintonia con la nostra causa e dichiararono guerra ai graffiti. Hanno inventato un sacco di leggi e facevano la guerra fino a quando ogni piccola espressione artistica, con stencil e graffiti, fu privata della sua anima. I giovani artisti sono stati minacciati di punizioni e multe totalmente sproporzionate rispetto all’atto. Come se i graffiti fossero stati più pericolosi delle droghe. Ma il desiderio immenso di dipingere e di esprimersi incoraggia gli artisti a sostenersi a vicenda. Facendolo in tutto il mondo, hanno fatto di questa arte urbana il più grande movimento artistico del 20° secolo; basta guardare la diffusione delle loro immagini e l’autenticità che irradiano. Non c’è luogo al mondo senza tracce murali artistiche. Anche a Pechino, sotto il regime più forte, c’è un uomo che lascia il suo segno proprio in questo momento. Tuttavia, l’arte urbana è ancora vista come uno spargere macchie sul volto urbano. Personalmente, penso che i colori dei nostri spray aiutino il paesaggio urbano a fiorire con intenzioni poetiche».
(http://www.2duerighe.com/arte/61761-larte-urbana-di-blek-le-rat-incontenibile-voglia-di-comunicare.html)

giovedì 4 febbraio 2016

sarò mamma

non avrei mai creduto possibile che una come Giorgia Meloni mi facesse tenerezza.
ma mai.
mai e poi mai.
e poi dice: sarò mamma, ma non sono sposata, al Family Day (che siano benedetti) facendo un autogol clamoroso, dice frasi confuse sulle coppie di fatto, forse, ho pensato, ha dimenticato molte cose su come vanno le cose...
e ne sono certa invece, la maternità (benedetta) la rende umana, improvvisamente.
leggo sul giornale, dice: per la prima volta non so cosa dire.
e vivaddio, penso io.
un miracolo.
di lei posso dire che le cose che dice...non mi piacciono, mettiamola giù così. senza troppe questioni, quel che dice non mi va, e lei direbbe altrettanto di me. siamo diverse, i nostri elaborati mentali e le nostre umane considerazioni non coincidono.
ok.
punto.
potrei dire che l'ho sempre trovata irreprensibile, seria, ma di lei si sa poco, basta mettersi un attimo di più sulla piazza, rendersi più spendibili, che le magagne saltano subito all'occhio, questione di illuminazione, accecante. 
ma che dica che non sa che cosa dire pone su di lei, momentaneamente, un'aura di sincerissima empatia. certo, l'attesa la rende umana, incapace di far fronte, prossima all'alterità femminile, senza parole, sguarnita, come è giusto che sia, aspettando un bambino. quell'aria da combattente, quell'asprezza che metterebbe tutti alle porte, quel dire risoluto su come si deve fare con i poveracci striscianti bagnati (ma, si sa, armati di jihadismo fino ai denti), quel saper tutto su come mettere ognuno al suo posto...fanno posto al "per una volta non so cosa dire" dopo le offese meschine a proposito della sua prossima maternità.
leggo ancora l'intervista e dice cose disarmanti, parla del suo compagno, del maschio che vorrebbe, del non vorrei proprio fare una campagna elettorale con la pancia di otto mesi...non mi sembra il caso...
l'abbraccerei, finalmente umana, finalmente capace di ottenere empatia, solidarietà, finalmente posate le parole dell'odio per armarsi della non parola, quella del dubbio, dello smarrimento, della fragilità, e delle parole morbide e tonde della donna che spera,
in un futuro, 
quello che ha in sè.
miracolo.