bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 30 settembre 2013

Satie e le stelle, l'armonia delle sfere

dopo averle viste nel cielo me le sono godute al planetario.
certo non è la stessa cosa, ma è stato suggestivo lo stesso.
stelle in musica: un bel momento, breve ma intenso.
un momento riflessivo, pensieroso. lunghi minuti passati al buio in compagnia delle note ripetitive di Satie guardando il passare dei giorni sulla cupola illuminata del planetario...c'era tempo per pensare e pensare bene.
il planetario è stato costruito nel 1930 e le sedie, che ruotano su se stesse per seguire i movimenti sulla volta, sono del 1930. l'orizzonte che si individua alla base della volta è quello di Milano, del 1930, mancano alcuni particolari, come la torre Velasca, ma si vede bene, ovviamente, il Duomo.
la macchina che proietta le immagini di stelle e pianeti è più recente, del 1968, è un sistema ottico ed elettrico e mostra quel che a Milano non si può vedere nemmeno nella migliore delle ipotesi.
di più ho visto sulla spiaggia di Favignana, ma quel che si potrebbe vedere, e l'ho visto nel buio totale della sala, è possibile goderselo nel deserto, in un luogo che non conosca nessuna luce artificiale, in un luogo in cui notte vuol dire buio assoluto.
quel che sta sopra di noi è inimmaginabile.


Lo strumento "planetario"

Il planetario è un proiettore che riproduce l'aspetto e del cielo stellato e i fenomeni astronomici. Si presenta come un traliccio cilindrico mobile con una grossa sfera a ciascuna estremità. Una potente lampada all'interno di ogni sfera illumina una serie di lastre circolari di vetro che generano le immagini delle stelle di un determinato settore del cielo.Lo strumento può ruotare attorno a tre assi per simulare il moto diurno, la precessione degli equinozi e il movimento in latitudine.
Sala del Planetario con il proiettore Zeiss IV
La sala con il proiettore planetario Zeiss IV prima dell'installazione del sistema multimediale negli anni '90. Si noti all'orizzonte il profilo degli edifici di Milano, con la chiesa di San Carlo e il Duomo a destra del supporto del planetario. L'immagine del pianeta Saturno (fotomontaggio) individua l'area di proiezione delle diapositive.
La parte centrale del traliccio alloggia i proiettori fissi degli oggetti diffusi (Via Lattea e nubi di Magellano) e quelli mobili dei corpi del Sistema Solare visibili a occhio nudo. Altri proiettori mostrano i principali cerchi e riferimenti astronomici come il meridiano locale e una porzione del reticolo di coordinate celesti. Ulteriori proiettori presso la postazione di comando riproducono una pioggia di stelle cadenti, una rappresentazione in movimento del Sistema Solare e una immagine schematica del globo terrestre.

immersa nella musica di Satie, al buio, ho guardato, per un tempo finito, il fluire del tempo sulla volta celeste. sono le stelle a dare il ritmo alle stagioni terrestri , con i loro movimenti ciclici, ripetitivi e lenti scandiscono il fluire del tempo. le stelle ritornano, sempre uguali, ma tuttavia non c’è una stagione uguale all’altra. conoscere le stelle ci può aiutare a conoscere meglio noi stessi, la nostra realtà ultima, universale, fatta di scienza, di musica e di arte.(Fabio Peri, direttore scientifico dell’istituto)
Quandò ideò Vexations, nel 1893, Satie voleva liberarsi dal giogo della musica austro-tedesca che aveva dominato l’Ottocento. la partitura di Vexations si esaurisce in 4 righi di musica, ma in cima si trova la seguente indicazione: «Per suonare questo motivo 840 volte, bisognerebbe prepararsi in anticipo, nel più assoluto silenzio, con serie e scrupolose immobilità»: il che voleva dire appunto annullare la direzionalità del tempo nel ritorno costante e immutato di una medesima entità, e che ciò poteva instaurare, nel controllo imposto dalla ripetizione incessante, un rapporto con una dimensione trascendente.
l'effetto non è stato così potente, ma certamente ha indotto riflessione, fissità, uno stare fermi, muti, inermi che non appartiene al mondo terrestre, forse a quello delle stelle.



da: MITO SettembreMusica
L'armonia delle sfere
Conferenza astronomica di Fabio Peri
Erik Satie Vexations
Pianoforte Orazio Sciortino

venerdì 27 settembre 2013

dicasi "proiezione"

Giorgio Napolitano è “arrogante”, “non imparziale” e “minaccioso”. Tutti aggettivi scelti dalla pasionaria del Pdl, Daniela Santanché per il Capo dello Stato che in una lunga nota ufficiale ha difeso la tenuta del governo da possibili rischi definendo inquietanti le minacce di dimissioni di massa dei parlamentari Pdl.

allora, letto questo, la foto dice molto sul tono pacato ed equilibrato e interlocutorio della signora -è una donna?- considererei la necessità per la stessa di una valutazione psichiatrica.
Napolitano, sant'uomo, da buon terapeuta qual è, non risponde alle provocazioni proiettive della paziente bordeline -ma non lo ha fatto nemmeno con gli altri pazienti bipolari megalomanici o gravemente paranoici, potendoci effettivamente considerare fortunati per la buona rappresentanza di tutte le diagnosi psichiatriche nel parlamento italiano-.
propongo ufficialmente per il sant'uomo una laurea ad honorem in psichiatria.

giovedì 26 settembre 2013

los MITOs del tango

non ho guardato che queste, almeno all'inizio, alla serata Los MITOS del tango y mas agli East End Studios di Milano, evento finale della rassegna musicale meneghina e torinese.
la serata inizia con un presentatore da abbattere, una "comicità" volgare e deprimente, fastidiosa. finalmente ha smesso e se ne è andato, vivaddio, quando qualcuno, quindi non ero sola a pensarla così, gli ha gridato: BASTA.
non è stato bello ma assolutamente necessario.
poi la gente, numerosissima, assiepata in piedi e per terra oltre che sui pochi tavolini disponibili, dopo le esibizioni dei ballerini delle scuole, ha iniziato a occupare la milonga e a ballare. 
si vedono cose accettabili e altre inguardabili, diciamolo, ma ciò che non si può proprio fare a meno di guardare, ossessivamente e bramosamente, sono i piedi delle ballerine, e le scarpe.
i sandali, tacco 10 o 12, sono di una bellezza incredibile, elegantissimi, svettanti. è una vera gioia vedere le donne ballare sui tacchi. quelle poche che si sono avventurate con le infradito erano una pena. una tortura.
quelle che poi sanno ballare, poche, usano i piedi in modo davvero sensuale.

Hyperion ensemble 
Juan José Mosalini (senior), bandoneon 
Miguel Angel Zotto e Daiana Guspero, ballerini 
Gabriel Ponce e Analía Morales, ballerini 
Claudio Garcés, voce 
Pablo Scarpelli,  presentatore 
Punto y Branca, musicalizador






è chiaro che questa impressione si è poi enfatizzata fino all'orgasmo vedendo ballare la Guspero o la Morales, due genialità in movimento. due corpi completamente diversi, una morbida e sensualissima, l'altra sottile magra e forte, che esprimono una potenza espressiva ineguagliabile.
io guardo le donne, gli uomini non mi interessano, pur essendo loro a far muovere il corpo dell'altra. le invidio fino alla vergogna, così belle, libere, padrone del loro corpo. così intense, così desiderabili. 
la Guspero esibisce vestiti favolosi, pare disegnati da lei stessa, che mettono in risalto questo suo corpo che ha dell'incredibile, tra morbidezza, seno prorompente, schiena arcuatissima, gambe forti e piedi miracolosi. mi piace molto ma molto meno il suo compagno, anche di vita, Miguel Angel Zotto, che mi dicono essere il massimo della bravura, così piccolo e brutto.
non posso dire lo stesso del compagno della Morales, Gabriel Ponce, bel ragazzo alto e slanciato,  sguardo serio ma non troppo, certamente una coppia meglio assortita. due modi diversi di ballare il tango, il primo classico l'altro energetico, due fascini irresistibili.
ma, lo devo dire, la serata è stata più del ballo, la serata è stata musica. la musica del tango mi piace oltre modo, e quella sera mi ha stregata, il gruppo mi è sembrato portentoso, l'anziano bandoneon, Juan José Mosalini, un vero mostro di bravura. sentivo ogni strumento, ogni elemento, mi sono divertita da pazzi. è stato un vero godimento, un inno alla bellezza della vita e dell'energia.

                       



le scarpe, ho deciso, anche se non ballo il tango, me le compro!

lunedì 23 settembre 2013

rise and fall of apartheid

l'ho vista a luglio, ne scrivo solo ora, a mostra ormai terminata. 
l'ho vista un venerdì al PAC, e ci sono rimasta almeno un'ora e mezza, anche più, una quantità sconfinata di fotografie e commenti. l'ho consigliata a chi, quest'anno, è stato o andrà in Sud Africa: inaspettatamente ben tre persone mi hanno comunicato questa meta per le vacanze estive o prossime invernali. è diventata di moda? è una meta così appetibile? credo che nessuno di questi sia andato a vederla. e credo che le ricchezze di questo paese siano sempre più disomogeneamente distribuite, siamo sempre più vicini alle voragini dei paesi sudamericani. 
detto questo, fuori tema, vi riporto la presentazione della mostra: 

Pietra miliare nel suo genere e frutto di oltre sei anni di ricerche, il progetto raccoglie il lavoro di quasi 70 fotografi, artisti e registi, dimostrando il potere dell’immagine - dal saggio fotografico al reportage, dall’analisi sociale al fotogiornalismo e all'arte - di registrare e analizzare l'eredità dell'apartheid e i suoi effetti sulla vita quotidiana in Sud Africa.
Complessa, intensa, evocativa e drammatica, la mostra analizza oltre 60 anni di produzione illustrata e fotografica ormai parte della memoria storica e della moderna identità sudafricana. Fotografie, opere d'arte, film, video, documenti, poster e periodici: un ricco mosaico di materiali, molti dei quali raramente esposti insieme, documenta uno dei periodi storici più importanti del ventesimo secolo, le sue conseguenze tuttora durature sulla società sudafricana e l'importanza del ruolo di Nelson Mandela. 
L’Apartheid, parola olandese composta da “separato” (apart) e “quartiere” (heid), è stata la piattaforma politica del nazionalismo afrikaner prima e dopo la seconda guerra mondiale. Un sistema creato appositamente per promuovere la segregazione razziale e mantenere il potere nelle mani dei bianchi. Nel 1948, dopo la vittoria a sorpresa dell’Afrikaner National Party, l'apartheid è stata introdotta come politica ufficiale dello stato e si è imposta attraverso un'ampia serie di programmi legislativi. Col tempo il sistema dell'apartheid è diventato sempre più spietato e violento nei confronti degli africani e delle altre comunità non bianche. Non ha solo trasformato il moderno significato politico di cittadinanza, ma ha anche inventato una società completamente nuova sia a livello pratico che a livello giuridico: una riorganizzazione delle strutture civili, economiche e politiche che ha coinvolto anche gli aspetti più mondani dell'esistenza, dalla casa al tempo libero, dai trasporti all’istruzione, dal turismo alla religione e ai commerci. L'apartheid ha trasformato le istituzioni mantenendole in vita con l'unico scopo di negare e privare dei propri diritti civili di base africani, meticci e asiatici. È in questo contesto che nasce la fotografia del Sud Africa così come la conosciamo oggi. 
La mostra parte dall’idea che la salita al potere del Partito Nazionale Afrikaner e la conseguente introduzione dell'apartheid come suo fondamento legale abbiano modificato la percezione del paese da una realtà puramente coloniale, basata sulla segregazione razziale, a una realtà vivacemente dibattuta, basata su ideali di uguaglianza, democrazia e diritti civili. La fotografia ha colto quasi immediatamente questo cambiamento e ha trasformato il proprio linguaggio da mezzo puramente antropologico a strumento sociale. Questa è la ragione per cui nessuno ha saputo cogliere la situazione del Sud Africa e della lotta all'apartheid meglio, in modo più critico e incisivo, con una profonda complessità illustrativa e una penetrante introspezione psicologica, di quanto abbiano fatto i fotografi sudafricani. Lo scopo della mostra è quello di far conoscere i protagonisti di questo straordinario cambiamento.
All’impegno investigativo hanno contribuito, tra gli altri, Eli Weinberg – è l’autore del bel ritratto di Nelson Mandela –, Peter Magubane – particolare è lo scatto (qui sotto) della sparatoria a Sharpeville (1960) –, Jurgen Schadeberg – sua è l’immagine che ritrae 20 leader davanti al Tribunale dei Giudici di Johannesburg (1952) –, Paul Weinberg e gli artisti contemporanei Adrian Piper, Jo Ractliffe, Hans Haacke. Quest’indagine culturale, sociale e antropologica è stata realizzata anche con il contributo di Drum Magazine, dell’Afrapix Collective e del Bang Bang Club.










la bellezza della mostra era nella sua capacità narrativa. a partire dalle case coloniche stile anglosassone dei bianchi ricchi fino alle bidonville ai margini del senso di umanità, dagli arresti alle proteste pacifiche davanti ai tribunali, dalle panchine che segnano il confine della razza ma non dell'affetto, dai morti caduti nelle dimostrazioni ai ritratti dei grandi protagonisti della storia. 
mi piace il potere delle immagini, la traccia indelebile nella storia.
l'irrefutabile testimonianza della disumanità, della stupidità, della violenza e della prepotenza.
quando ancora la fotografia non aveva quel gusto, quel godimento mortifero perverso di mostrare l'intestino che fuoriesce dall'addome squarciato, quando semplicemente sapeva cogliere il momento drammatico o tragico con uno sguardo spietato senza provare piacere ad affondare il braccio dentro il torace sventrato.
basta un morto lasciato a terra nell'indifferenza del potere bianco assassino, basta, basta eccome per dire oltre le parole.
Peter Magubane – sparatoria a Sharpeville (1960)

giovedì 19 settembre 2013

ogni strumento è come un germoglio che spunta sulla corteccia di un albero secolare (Igor Stravinsky)

ad oggi il più bello è stato quello di Giovanni Falzone al Cimitero Monumentale di Milano.






06.09 Cimitero Monumentale
Requiem around Requiem
Giovanni Falzone Contemporary Orchestra
Giovanni Falzone, tromba, arrangiamenti e direzione

un'idea gagliarda, lo devo proprio dire.
un concerto jazz, rivisitazione ardita del Requiem di Verdi, tenuto davanti all'entrata del Monumentale.
dopo una breve coda ci hanno fatto accedere al palco facendo un giro, non necessario logisticamente ma assolutamente necessario artistiticamente parlando, passando dal famedio dello stesso. 
intanto il monumentale è un monumento della città di Milano temo fortemente tralasciato...chi va a visitare un cimitero? 
nessuno e nemmeno io. ma sono anni che me lo dico e dopo questo breve obbligatorio passaggio mi sono convinta definitivamente della necessità culturale di visitare questo insolito monumento e tutta la sua carica di mistero. ne avevo già viste tracce, affascinanti, in un film che mi aveva lasciato orme fotograficamente indelebili su Milano, ovvero Io sono l'amore di Luca Guadagnino (http://nuovateoria.blogspot.it/2012/03/io-sono-lamore.html). già li avevo visto ombre e luci, ovviamente sapientemente inquadrate da un regista, di un ambiente abitato da creature inanimate ma cariche di evocazioni.
e quelle creature, dopo averne viste alcune da vicino, statue solenni o ripiegate, angeliche o serafiche, a custodia delle tombe di Verdi e Manzoni, mi hanno osservata mentre ascoltavo il concerto. mi sono pioaciute da matti le tonalità jazz mentre il baritono e la soprano intonavano il dies irae. 
non so niente di musica e dico niente. le mie valutazioni non contano, di conseguenza, se per l'apprezzamento sensoriale immediato.
posso dire che la musica jazz comincia a piacermi, sempre più, ed è stato un bell'incontro, quello di venerdì l'altro, grazie a questa ennesima maratona milanese, il MITO 2013, rassegna musicale della durata di quasi tre settimane che coinvolge, in contemporanea e spesso con gli stessi interpreti, le città di Milano e Torino. 
ed ecco il MITO.
il programma è densissimo, musica classica, antica, barocca, contemporanea, jazz, suonata in luoghi variegatissimi e, a volte inaspettati come, appunto, il cimitero Monumentale di Milano. si prestano al programma chiese, teatri grandi e piccoli, il planetario, il duomo, piazze, musei, hangar bicocca, palazzi, triennale: un'occupazione territoriale completa. un'invasione cui è difficilissimo sottrarsi. avrei visto tutto e invece ho sentito poco, molto meno di quanto avrei potuto e dovuto, ma a volte sono bloccata, paralizzata, impossibilitata. ieri in Duomo c'era un grande concerto, finisco tardi in studio, passo da casa, sistemo, cucino, accontento, è tardi, vado lo stesso ... e invece ciao. una disfatta pesantissima per me, rinunciare a qualcosa che mi attrae per motivi di ordine etico superiore che mi fregano, 9 volte su 10. questa sera sono a una festa di cui mi frega zero, al freddo all'aperto (70 persone obbligate al freddo del primo autunno milanese-si arriva ormai e 15-16 gradi dopo le 21- io mi domando come sia possibile organizzare una festa mettendo a disagio un numero così alto di cristiani), con obbligo di tacchi bassi che non ho, non possiedo scarpe se non con il tacco fatta eccezione per scarpe da ginnastica e qualche infradito. bene, al posto di questa fregatura ci sarebbe del jazz doc MITO all'OUTOFF, dietro casa mia, oppure un'inaspettata conferenza organizzata dall'Ordine dei Medici di Milano(!) su corpo e filosofia tenuta da Umberto Galimberti, filosofo psicoanalista. è un suicidio psichico-intellettuale il mio, un vero suicidio, anche per ipotermia (dovrò andarci scalza...).
mi ribello, a questo e altro, ma nessuno capisce le mie ragioni.
mi sono gustata Mozart al Conservatorio giovedì scorso e mi sono procurata una fregatura domenica, alla Basilica di San Marco in Brera, curiosa di un concerto per organo che era, ahimé, una specie di intrattenimento musicale che sapeva di infanzia e fumetti, musica per organo di un francescano, Padre Davide da Bergamo, un ascolto a tratti ridicolo per ingenuità e banalità sonora. 




13.09 Conservatorio 
Orchestra da Camera di Mantova
pianoforte
Maria João Pires

domani sono attratta da un evento musicale al planetario...ce la farò?, e sabato ho i biglietti per l'evento che chiude la rassegna: los MITOs del tango y mas, una grande milonga argentina, all'insegna del rosso scarlatto e di movenze appassionate. e che diomelamandibuona.

Il mio mestiere è quello di scri­vere e io lo so bene e da molto tempo

Leggendo Natalia Ginzburg nutro dei dubbi.
Non sto leggendo un'opera importante, ma Piccole virtù, una raccolta di racconti, piccoli saggi, per lo più autobiografici.
ha una scrittura schietta e un animo onesto. sembra anzi godere nel mostrarsi per come è, a volte nel minimizzarsi, nel farsi piccola e umile.certamente non si camuffa e la sua parola assume un valore autentico, genuino, apprezzabile. non è una grande scrittura, la sua, ma piana, semplice, diretta, a volte ripetitiva, senza sfumature.
il problema è che avverto, a volte, di non essere d'accordo con lei. alcune sue affermazioni non sono condivisibili, alcune visioni mi risultano ristrette, non corroborate dalla conoscenza per cui alla fine mi sembra che, in effetti, la sola visione familiare, cui era molto legata, quella proveniente dall'esperienza diretta, dall'analisi dei sentimenti, possa avere il fondamento della verosimiglianza. alcune affermazioni sulla guerra o sulla psicoanalisi, sulla correlazione tra colpa e panico, mi sembrano azzardate o non corrette. uno scrittore deve sapere cosa scrive, deve attenersi ai fatti se è di realtà che parla. l'invenzione vale nel romanzo, non nella saggistica.
tra i racconti ce n'è uno sul mestiere della scrittura.
ripenso alla lezione di Virginia Woolf e mi piace constatare le differenze, e anche le somiglianze, nell'affrontare il discorso sulla letteratura al femminile.
la visione della Woolf è certamente più ariosa, il suo è un discorso universale, globale, un metadiscorso. è un ragionare su qualcosa.la Ginzburg si attiene alla sua sola esperienza, parla del suo scrivere e della sua personale, individuale evoluzione, dei suoi limiti e delle sue potenzialità.
è chiaro che la prima ha doti di pensiero e di coinvolgimento intellettivo ed emotivo che la seconda non possiede. nel discorso della Ginzburg tutto diventa più piccolo, più provinciale, più circoscritto. il discorso di Virginia è un invito, è un'incitazione, un'esaltazione della potenzialità di scrittura al femminile, è un abbraccio ecumenico.
in entrambe però si leggono passaggi sull'importanza di non imitare il mondo maschile, di fare della scrittura femminile una propria e unica scrittura. anche la Ginzburg afferma la necessità di un'indipendenza economica e di pensiero, di un mestiere che non paga poi molto ma che appaga moltissimo.
l'aspetto più interessante della riflessione della Ginzburg è la fatica dello scrittore, l'impegno e l'energia che richiede. scrivere non può essere un passatempo, scrivere è uno sforzo intellettivo e spirituale che richiede concentrazione, conoscenza, riflessione e molta capacità di dedizione. per scrivere bisogna abbandonare la propria personale visione, bisogna essere scevri da rancore e rabbia, i personaggi non vanno alimentati e inquinati dalle personale questioni di vita, altrimenti la scrittura ne sarà irrimediabilmente compromessa, risulterà orientata e disturbata, non credibile. e così disse anche Virginia nella sua stanza tutta per sè, che, non me ne voglia la Ginzburg, rimane inarrivabile e immensa. 


Il mio mestiere è quello di scri­vere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere frain­tesa: sul valore di quel che posso scri­vere non so nulla. So che scri­vere è il mio mestiere. Quando mi metto a scri­vere, mi sento straor­di­na­ria­mente a mio agio e mi muovo in un ele­mento che mi par di cono­scere straor­di­na­ria­mente bene: ado­pero degli stru­menti che mi sono noti e fami­liari e li sento ben fermi nelle mie mani
...
La prima cosa seria che ho scritto è stato un rac­conto. Un rac­conto breve, di cin­que o sei pagine: m’è venuto fuori come per mira­colo, in una sera, e quando poi sono andata a dor­mire ero stanca, stor­dita e stu­pe­fatta. Avevo l’impressione che fosse una cosa seria, la prima che avessi mai fatto: le poe­sie e i romanzi con le ragazze e le car­rozze mi pare­vano a un tratto molto lon­tani, in un’epoca scom­parsa per sem­pre, crea­ture inge­nue e ridi­cole di un’altra età. In que­sto nuovo rac­conto c’erano dei per­so­naggi. Isa­bella e l’uomo con la barba ros­sa­stra non erano per­so­naggi: io non sapevo niente di loro all’infuori delle frasi e delle parole di cui m’ero ser­vita nei loro riguardi, ed erano affi­dati al caso e all’estro della mia volontà. Le parole e le frasi di cui m’ero ser­vita per loro le avevo pescate su a caso: era come se avessi avuto un sacco e avessi tirato su a caso ora una barba e ora una cuoca negra o un’altra cosa che si poteva usare. Que­sta volta invece non era stato un gioco. Que­sta volta avevo inven­tato delle per­sone con dei nomi che non mi sarebbe stato pos­si­bile cam­biare: niente di loro avrei potuto cam­biare e sapevo una quan­tità di par­ti­co­lari sul loro conto, sapevo com’era stata la loro vita fino al giorno del mio rac­conto anche se nel rac­conto non ne avevo par­lato per­ché non era stato neces­sa­rio. 
...
E ne ho scritti dav­vero un certo numero, a inter­valli di uno o due mesi, qual­cuno abba­stanza bello e qual­cuno no. Ho sco­perto allora che ci si stanca quando si scrive una cosa sul serio. È un cat­tivo segno se non ci si stanca. Uno non può spe­rare di scri­vere qual­cosa di serio così alla leg­gera, come con una mano sola, svo­laz­zando via fre­sco fre­sco. Non si può cavar­sela così con poco. Uno, quando scrive una cosa che sia seria, ci casca den­tro, ci affoga den­tro pro­prio fino agli occhi; e se ha dei sen­ti­menti molto forti che lo inquie­tano in cuore, se è molto felice o molto infe­lice per una qua­lun­que ragione diciamo ter­re­stre, che non c’entra per niente con la cosa che sta scri­vendo, allora, se quanto scrive è valido e degno di vita, ogni altro sen­ti­mento s’addormenta in lui. Lui non può spe­rare di ser­barsi intatta e fre­sca la sua cara feli­cità, o la sua cara infe­li­cità, tutto s’allontana e sva­ni­sce ed è solo con la sua pagina, nes­suna feli­cità e nes­suna infe­li­cità può sus­si­stere in lui che non sia stret­ta­mente legata a que­sta sua pagina, non pos­siede altro e non appar­tiene ad altri e se non gli suc­cede così, allora è segno che la sua pagina non vale nulla.
...
In quei brevi rac­conti che scri­vevo allora, c’erano dei per­so­naggi che in fondo io disprez­zavo. Sic­come avevo sco­perto che è bello che un per­so­nag­gio sia mise­re­vole e comico, a forza di comi­cità e com­mi­se­ra­zione ne facevo degli esseri così spre­ge­voli e privi di glo­ria che io stessa non potevo amarli. Quei miei per­so­naggi ave­vano sem­pre dei tic o delle manie o una defor­mità fisica o un vizio un po’ grot­te­sco, ave­vano un brac­cio rotto e appeso al collo in una benda nera o ave­vano degli orza­ioli  o erano bal­bu­zienti o si grat­ta­vano il sedere par­lando o zop­pi­ca­vano un poco. Mi era sem­pre neces­sa­rio carat­te­riz­zarli in qual­che modo. Era per me un mezzo di sfug­gire al timore che risul­tas­sero incerti, di cogliere la loro uma­nità della quale incon­scia­mente dubi­tavo. Per­ché allora non capivo – ma al tempo dello spec­chio sul car­retto comin­ciavo con­fu­sa­mente a capirlo – che non si trat­tava più di per­so­naggi ma di burat­tini, abba­stanza ben dipinti e simili agli uomini veri ma burat­tini. Nell’inventarli subito li carat­te­riz­zavo, li segnavo d’un par­ti­co­lare grot­te­sco, e c’era in que­sto qual­cosa di un po’ mal­va­gio, c’era in me allora come un risen­ti­mento mali­gno nei con­fronti della realtà. Non era un risen­ti­mento fon­dato su qual­cosa di vivo, per­ché ero allora una ragazza felice, ma nasceva come rea­zione all’ingenuità, si trat­tava di quel par­ti­co­lare risen­ti­mento che è la difesa della per­sona inge­nua, sem­pre por­tata a cre­dere d’essere presa in giro, del con­ta­dino che si trova da poco in città e vede ladri ovun­que. Sul prin­ci­pio ne andavo fiera, per­ché mi pareva un grande trionfo dell’ironia sull’ingenuità e su que­gli abban­doni pate­tici dell’adolescenza che si vede­vano tanto nelle mie poe­sie. L’ironia e la  mal­va­gità mi pare­vano armi molto impor­tanti nelle mie mani; mi pareva che mi ser­vis­sero a scri­vere come un uomo, per­ché allora desi­de­ravo ter­ri­bil­mente di scri­vere come un uomo, avevo orrore che si capisse che ero una donna dalle cose che scri­vevo. Facevo quasi sem­pre per­so­naggi uomini, per­ché fos­sero il più pos­si­bile lon­tani e distac­cati da me.
...
La nostra per­so­nale feli­cità o infe­li­cità, la nostra con­di­zione ter­re­stre, ha una grande impor­tanza nei con­fronti di quello che scri­viamo. Ho detto prima che uno nel momento che scrive è mira­co­lo­sa­mente spinto a igno­rare le cir­co­stanze pre­senti della sua pro­pria vita. Certo è così. Ma l’essere felici o infe­lici ci porta a scri­vere in un modo o in un altro. Quando siamo felici la nostra fan­ta­sia ha più forza; quando siamo infe­lici, agi­sce allora più viva­ce­mente la nostra memo­ria. La sof­fe­renza rende la fan­ta­sia debole e pigra; essa si muove, ma svo­glia­ta­mente e con lan­guore, con i deboli moti dei malati, con la stan­chezza e la cau­tela delle mem­bra dolenti e feb­bri­ci­tanti; ci è dif­fi­cile disto­gliere lo sguardo dalla nostra vita e dalla nostra anima, dalla sete e dall’inquietudine che ci per­vade. Nelle cose che scri­viamo affio­rano allora di con­ti­nuo ricordi del nostro pas­sato, la nostra pro­pria voce risuona di con­ti­nuo e non riu­sciamo ad imporle silen­zio. Fra noi e i per­so­naggi che allora inven­tiamo, che la nostra fan­ta­sia illan­gui­dita rie­sce tut­ta­via a inven­tare, nasce un rap­porto par­ti­co­lare, tenero e come materno, un rap­porto caldo e umido di lagrime, di un’intimità car­nale e sof­fo­cante. Abbiamo radici pro­fonde e dolenti in ogni essere e in ogni cosa del mondo, del mondo fat­tosi pieno di echi e di sus­sulti e di ombre, a cui ci lega una devota e appas­sio­nata pietà. Il nostro rischio è allora di nau­fra­gare in un buio lago d’acqua morta e sta­gnante, e tra­sci­narvi con noi le crea­ture del nostro pen­siero, lasciarle perire con noi nel gorgo tie­pido e buio, tra topi morti e fiori putre­fatti. C’è un peri­colo nel dolore così come c’è un peri­colo nella feli­cità, riguardo alle cose che scri­viamo. Per­ché la bel­lezza poe­tica è un insieme di cru­deltà, di super­bia, d’ironia, di tene­rezza car­nale, di fan­ta­sia e di memo­ria, di chia­rezza e d’oscurità e se non riu­sciamo a otte­nere tutto que­sto insieme, il nostro risul­tato è povero, pre­ca­rio e scar­sa­mente vitale.
...
Così è il mio mestiere. Denaro, vedete, non ne frutta molto, e anzi sem­pre biso­gna fare con­tem­po­ra­nea­mente anche un altro mestiere per vivere. Pure a volte ne frutta un poco: e avere del denaro per virtù sua è una cosa molto dolce, come rice­vere denaro e doni dalle mani dell’essere amato. Così è il mio mestiere. Non so molto, dico, sul valore dei risul­tati che m’ha dato e che potrà darmi: o meglio, dei risul­tati già otte­nuti cono­sco il valore rela­tivo, non certo asso­luto. Quando scrivo qual­cosa, di solito penso che è molto impor­tante e che io sono un gran­dis­simo scrit­tore. Credo suc­ceda a tutti. Ma c’è un angolo della mia anima dove so molto bene e sem­pre quello che sono, cioè un pic­colo, pic­colo scrit­tore. Giuro che lo so. Ma non me ne importa molto. Sol­tanto, non voglio pen­sare dei nomi: ho visto che se mi chiedo: “un pic­colo scrit­tore come chi?” mi rat­tri­sta pen­sare dei nomi di altri pic­coli scrit­tori. Pre­fe­ri­sco cre­dere che nes­suno è mai stato come me, per quanto pic­colo, per quanto pulce o zan­zara di scrit­tore io sia. Quello che invece è impor­tante, è avere la con­vin­zione che sia pro­prio un mestiere, una pro­fes­sione, una cosa che si farà per tutta la vita. Ma, come mestiere, non è uno scherzo. Ci sono innu­me­re­voli peri­coli oltre a quelli che ho detto. Siamo con­ti­nua­mente minac­ciati da gravi peri­coli pro­prio nell’atto di sten­dere la nostra pagina. C’è il peri­colo di met­tersi a un tratto a civet­tare e a can­tare. Io ho sem­pre una voglia matta di met­termi a can­tare, devo stare molto attenta a non farlo. E c’è il peri­colo di truf­fare con parole che non esi­stono dav­vero in noi, che abbiamo pescato su a caso fuori di noi e che met­tiamo insieme con destrezza per­ché siamo diven­tati piut­to­sto furbi. C’è il peri­colo di fare i furbi e truf­fare. È un mestiere abba­stanza dif­fi­cile, lo vedete, ma il più bello che ci sia al mondo. I giorni e i casi della nostra vita, i giorni e i casi della vita degli altri a cui assi­stiamo, let­ture e imma­gini e pen­sieri e discorsi, lo saziano e cre­sce in noi. È un mestiere che si nutre anche di cose orri­bili, man­gia il meglio e il peg­gio della nostra vita, i nostri sen­ti­menti cat­tivi come i sen­ti­menti buoni flui­scono nel suo san­gue. Si nutre e cre­sce in noi.
*
Il rac­conto è tratto da “Nata­lia Ginz­burg, Le pic­cole virtù”, Einaudi, 2010.

lunedì 16 settembre 2013

di tutti i colori il più forte il più indelebile è il colore del vuoto

Vittorio Sereni.
ovvero sapere cosa sono 
la lucidità, la consapevolezza del male.

Sarà la noia
dei giorni lunghi e torridi
ma oggi la piccola
Laura è fastidiosa proprio.
Smettila – dico – se no...
con repressa ferocia
torcendole piano il braccino.

Non mi fai male non mi fai
male, mi sfida in cantilena
guardandomi da sotto in su
petulante ma già
in punta di lagrime,
non piango nemmeno vedi.

Vedo. Ma è l’angelo
nero dello sterminio
quello che adesso vedo
lucente nelle sue bardature
di morte
e a lui rivolto in estasi
il bambinetto ebreo
invitandolo al gioco
del massacro.


e il nulla, la consapevolezza del vuoto.

Autostrada della Cisa
Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).

Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio già spento, e addio.

Sappi- disse ieri lasciandomi qualcuno-
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.

Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochititlàn.
Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.

Ancora non lo sai
-sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire –
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?

(entrambe da: Stella variabile)



e saperlo dire, sapere come dirlo.
la poesia.

giovedì 12 settembre 2013

altro compleanno

ALTRO COMPLEANNO

A fine luglio quando
Da sotto le pergole di un bar di San Siro
Tra cancellate e fornici si intravede
Un qualche spicchio dello stadio assolato
Quando trasecola il gran catino vuoto
A specchio del tempo sperperato e pare
Che proprio lì venga a morire un anno
E non si sa che altro un altro anno prepari
Passiamola questa soglia una volta di più
Sol che regga a quei marosi di città il tuo cuore
E un’ardesia propaghi il colore dell’estate.

Vittorio Sereni
(Luino, 27 luglio 1913 – Milano, 10 febbraio 1983)

ripenso al mio compleanno di luglio e mi si stringe il cuore di una fitta di dolore che non avrà mai rimedio.
un rifiuto, un ripudio che si propaga nell'aria, persiste e infierisce, anche ora che il colore dell'estate va morendo.
è questa la fine dell'anno, la fine dell'estate, è ora che tutto ricomincia, è ora che la passiamo questa soglia.
che poesia questa di Sereni, che poesia immensa.
e l'ho passata, la soglia,  mio malgrado, in quel 12, ma non avrei voluto per non averne ricordo.
il mio cuore non regge. la memoria è un'impronta, la memoria è una condanna, uno sperpero di fiducia e speranza. 

il peso della farfalla

Sua madre era stata abbattuta dal cacciatore. Nelle sue narici di cucciolo si conficcò l’odore dell’uomo e della polvere da sparo. Orfano insieme alla sorella, senza un branco vicino, imparò da solo. Crebbe di una taglia in più rispetto ai maschi della sua specie. Sua sorella fu presa dall’aquila un giorno d’inverno e di nuvole. Lei si accorse che stava sospesa su di loro, isolati su un pascolo a sud, dove resisteva un po’ di erba ingiallita. La sorella si accorgeva dell’aquila pure senza la sua ombra in terra, a cielo chiuso. Per uno di loro due non c’era scampo. Sua sorella si lanciò di corsa a favore dell’aquila, e fu presa. Rimasto solo, crebbe senza freno e compagnia. Quando fu pronto andò all’incontro con il primo branco, sfidò il maschio dominante e vinse. Divenne re in un giorno e in duello. I camosci non vanno a fondo nello scontro, stabiliscono il vincitore ai primi colpi. Non cozzano come gli stambecchi e le capre. Abbassano la testa al suolo e cercano di infilare le corna, appena curve, nel sottopancia dell’altro. Se la resa non è immediata, agganciano il ventre e lo squarciano tirando indietro il collo. Di rado arrivano a questo finale. Con lui fu diverso, era cresciuto senza regole e le impose. Il giorno del duello c’era sopra di loro il magnifico cielo di novembre e in terra zolle di neve fresca, ancora minoranza. Le femmine vanno in estro prima dell’inverno e mettono al mondo i figli in piena primavera. A novembre si sfidano i camosci. Entrò nel campo del branco all’improvviso, sbucando dall’alto giù da un salto di roccia. Le femmine fuggirono coi piccoli dell’anno, restò il maschio che scalciò sull’erba con gli zoccoli anteriori. In alto si ammucchiarono ali nere di cornacchie e gracchi. Sospese sulle correnti ascensionali guardarono il duello aperto a libro sotto di loro. Il giovane maschio solitario avanzò, batté zoccolo a terra e soffiò secco. Lo scontro fu violento e breve. Le corna dello sfidante si aprirono una breccia nella difesa e il corno sinistro agganciò il ventre dell’avversario. Lo squarciò con un chiasso di strappo e in alto strepitò il frastuono di ali. Gli uccelli proclamavano il vinto a loro destinato. Il camoscio sventrato fuggì perdendo viscere, inseguito. Le ali si tolsero dal cielo e scesero in terra a divorarle. La fuga del vinto si spezzò di netto, s’impuntò e cadde sopra il fianco. Sul corno insanguinato del vincitore si posarono le farfalle bianche. Una di loro ci restò per sempre, per generazioni di farfalle, petalo a sbattere nel vento sopra il re dei camosci nelle stagioni da aprile a novembre. […]

così inizia Il peso della farfalla di Erri De Luca. 
l'ho preso in mano senza sapere cosa aspettarmi e l'inizio mi ha lasciata perplessa. 
un libro sui camosci? cose ne sa l'uomo del camoscio e della sua battaglia per la vita? 
sa quel che osserva, e poi romanza, scrive attribuendo quel che il pensiero dell'uomo mette nel non pensiero di un animale. 
è un'operazione difficile, secondo me, troppo facile deragliare e fare confusione tra puro istinto, che non ci appartiene, e metapensiero e progetto, che è il nostro codice distintivo. 
temo sempre di trovarmi di fronte alla venerazione della purezza del mondo animale e della condanna infernale e furibonda di questo animale umano così reietto e inferiore alla forza della natura.
io non ho grandi rapporti con la natura, la ammetto senza troppa vergogna, non la frequento.
sono cittadina. sono urbana. sono destinata al cemento. sono intellettuale e culturale. sono analitica e ammiro infinitamente la capacità di simbolizzazione dell'uomo.
la natura la guardo da lontano, la percepisco in vacanza, coltivo le mie piante casalinghe, ma che relazione potrebbe mai essere questa? 
sono mutilata, me ne rendo conto, sono in perdita rispetto a questa potenza che, dicono, ci comanda, ma la relativizzo, ne faccio a meno, forse la nego e la metto da parte come una persona che non conosco e che non mi interessa frequentare.
quindi un libro come questo, che si insinua invece nelle pieghe selvagge della montagna, che parla dei camosci e delle leggi del branco, che esalta la figura di questo animale re della natura, di questo dominatore solitario e temuto, di questo esploratore unico e irripetibile per forza fisica e capacità leaderistica, mi lascia, almeno inizialmente, perplessa.
succede poi però che il libro si allarga alla figura umana, al vecchio cacciatore che con il vecchio camoscio condivide praticamente tutto, forza temperamento e solitudine. ed ecco che allora quel che immaginavo puntualmente si verifica, ovvero che il camoscio assume atteggiamenti e pensieri umani, si umanizza nella sua vecchiaia -di cui mi domando se ne percepisca veramente l'arrivo e la fatale conclusione- e nel suo lento e inesorabile ritiro dal mondo, nella sua lotta contro la figura umana, violenta e assassina, rea di averne ucciso la madre -così dice Erri De Luca nel libro.
L’uomo aveva assistito a duelli di camosci di altri branchi. Ammirava la loro lealtà, mai due contro uno(…) Gli uomini hanno inventato i minuziosi codici ma appena c’è occasione si azzannano senza legge. 
e l'uomo, avido di natura, di scalate in libertà, di caccia e di orme sulla neve, muto e solitario, incapace di relazione con il suo simile, in particolare con le donne, si avvicina sempre più al puro istinto, alla percezione immediata della cose, senza progetto, senza immaginazione, legato al tempo presente, al suo accadere, esattamente come un animale fa.
La sua vita a spasso di stagioni era andata col mondo. Se l'era guadagnata molte volte, ma non era roba sua. Era da restituire, sgualcita dopo averla usata, da buttare. Gli serviva credere che c'era un capomastro e che il mondo era il suo manufatto? Non serviva per parlargli, per crederlo in ascolto, però era un pensiero che teneva compagnia. Un padrone di tutto se c'era, non avrebbe permesso il guasto della sua roba, non l'avrebbe lasciata alla malora in mano alla specie degli uomini. Un padrone se c'era s'era ubriacato e aveva perso la via di casa. Meglio se non c’era l’uomo prosperava in sua assenza. Aveva imparato il bene e il male servendosi da solo. Era impossibile un padrone di tutto, però quell’impossibile teneva compagnia. Gli piaceva dire di fronte al cielo che calava in terra per la sera, un grazie al capomastro.
il libro è un breve racconto, a tratti poetico.
A occhi larghi e respiro fumante fissava le costellazioni, in cui gli uomini stravedono figure di animali, l’aquila, l’orsa, lo scorpione, il toro. Lui ci vedeva i frantumi staccati dai fulmini e i fiocchi di neve sopra il pelo nero di sua madre, il giorno che era fuggito da lei, lontano dal suo corpo abbattuto. D’estate le stelle cadevano a briciole, ardevano in volo spegnendosi sui prati. Allora andava da quelle cadute vicino, a leccarle. Il re assaggiava il sale delle stelle.
le vite dei due personaggi volgono alla fine e si concludono in un duello finale che ne suggella definitivamente il legame, la storia, la relazione, il rapporto di due vite passate a rispettarsi, a rincorrersi, a desiderare il possesso e la supremazia sull'altro. ma sarà la morte, il lieve peso di una farfalla, il confine sottile tra una dimensione e l'altra, la leggera carezza dell'imponderabile, a legarli per sempre.
Andò a posarsi lì una farfalla bianca. La scacciò con una mossa lieve, per toglierla senza toccarla. Il suo volo spezzettato, ad angoli, era l’opposto della palla di piombo caricata nel buio della canna lucente, con la sua linea dritta al bersaglio grosso. Una farfalla sopra un fucile lo prende in giro. La sua mira è derisa dal volo spezzettato che dovunque cade, porta con sé il centro raggiunto. Dove si posa la farfalla, è il centro. L’uomo la scostò con una mossa lenta e un soffio di vita.  

lunedì 9 settembre 2013

propizia l’aria fra quelle mura/alte agli incanti: la sicilia il suo barocco

imponente maestosa preziosa, la Sicilia e il suo barocco:
Siracusa, Noto, Ragusa e Modica, patrimonio dell'Unesco.


Scirocco
E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fa sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili - poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi, nastri…
 
Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.
da "Canti Barocchi" di Lucio Piccolo



La Torre 
Propizia l’aria fra quelle mura
alte agli incanti: dalle finestre
adito, il giorno, a colli, pianura,
spazi prativi, erte ginestre;
torre la chiamava, e la scala
e l’ombra che si piega sul gradino
innanzi a chi sale…
E dall’interno al suo sguardo la rosa
bianca che poggia su la ringhiera…
La stanza appesa all’arbitrio
dei colori, alle udienze dell’aure…
ove al segno del libro risponde 
l’astro. 
Lucio Piccolo






Oratorio di Valverde
Ferma il volo Aurora opulenta
di frutto, di fiore,
balzata da rive vicine
diffondi ancora tremore
 di conchiglie, di luci marine,
e valli dove passasti alla danza
pastorale fra le ginestre
t’empirono le canestre
di folta, di verde abbondanza
- a larghe onde di campane tessuta
 venivi, dai fili di memorie, dai risvegli infantili.
(…) 
 da "Canti Barocchi" di Lucio Piccolo





"Per Lucio Piccolo di Calanovella, poeta siciliano appartato e coltissimo, purtroppo noto soprattutto per essere il cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, affidarsi al simbolo è una condizione ineludibile. Tanto che i suoi “Canti barocchi”, autentico caso letterario sollevato da Eugenio Montale nel 1956, sono il più tardo e riuscito esempio di poesia simbolista italiana." (G.Accolla)

domenica 8 settembre 2013

il primo uomo

questo il titolo dell'ultimo, incompiuto, romanzo di Camus, rinvenuto nella carcassa della macchina dell'autore dopo l'incidente che ne ha causato la morte, nel 1960.
il libro è claudicante, ha una continuità zoppicante, cerca qualcosa che non trova, accenna a una definizione che non si compie.
probabilmente, proprio in virtù di quel che cerca, è un bel libro per questo motivo, perchè è incompiuto, postumo, inconcluso. è un'analisi incompleta, una ricerca paterna che si ferma alla poetica descrizione della propria infanzia, alla venerazione per una figura materna amatissima, all'incontro fortunato, direi salvifico, con una figura maschile, quella dell'insegnante, capace di segnare un'impronta paterna altrimenti assente.
è un'autobiografia, un racconto che ruota prevalentemente nei ricordi dell'infanzia africana ad Algeri, descritta come luogo magico, carico di stupore e di potenziale felicità.
Camus cerca il padre, morto quando lui aveva un anno, in Francia, martire soldato della Prima Guerra Mondiale per una patria che nemmeno conosceva. ignoto quindi in tutti i sensi, nella sua vita, nella sua morte, nei racconti materni. Camus non ne trova traccia, da nessuna parte. cerca una tomba che non parla, un ricordo materno che è totalmente muto, un'origine e un codice che rimangono misteriosi. chi sono senza un padre? che uomo sono se non so che uomo era mio padre? chi è il primo uomo, l'uomo primigenio, l'uomo che da il passo, il segno, il codice del giusto e dell'ingiusto, del possibile e del non possibile, del desiderio?
il primo uomo. è una definizione così bella, un connubio così perfetto, una coppia di senso così riuscita che riesce a commuovermi.
è questo che si cerca e che non si trova, il significato della nostra vita, il senso dell'essere venuto al mondo, segnato dalla volontà, dal seme, dalla testimonianza del padre: nostro padre o il padre in termini assoluti, storici, cosmici, simbolici. il primo padre, il primo uomo.
Camus scrive bene.ho letto pagine gonfie di bellezza e poesia. già dalla prima pagina:
Sopra il calessino che viaggiava su una strada acciottolata, nubi grosse e dense correvano nel crepuscolo verso oriente. Tre giorni prima, si era­no gonfiate sull'Atlantico, avevano atteso il vento dell'ovest, e si erano messe in moto, lente all'ini­zio e via via più veloci, avevano sorvolato le ac­que fosforescenti dell'autunno, procedendo dirit­te verso il continente, e si erano sfilacciate sulle creste marocchine, per poi riformarsi a banchi su­gli altipiani d'Algeri, e adesso, avvicinandosi alla frontiera con la Tunisia, cercavano di raggiungere il mar Tirreno, dove si sarebbero disperse. Dopo una corsa di migliaia di chilometri su questa spe­cie di isola sterminata, difesa a nord e a sud dal mare in movimento grazie ai flutti paralizzati delle sabbie, correndo su questo paesaggio senza nome poco più in fretta di quanto avessero fatto per millenni imperi e popoli, esaurivano lo slancio, e alcune già si scioglievano, e grosse e rade gocce di pioggia cominciavano a risuonare sul mantice di tela che riparava i quattro viaggiatori. 
la sua è una disperata ricerca di senso, di significato, per sè e per il mondo. lo cerca alla tomba del padre, che visita per la prima volta a 40 anni, sepolto nel cimitero di guerra di Saint-Brieuc sulla Manica. 
Adesso a 40 anni, regno su tante cose e tuttavia sono certo di essere inferiore ai più umili e comunque nulla in confronto a mia madre.
all’impatto con la tomba di  quello sconosciuto i suoi sentimenti risultano raggelati ma in seguito un rimpianto, una nostalgia spezzano la paralisi e si aprono alla verità: Ora gli sembrava che quel segreto che aveva sempre cercato con avidità di conoscere attraverso i libri e le persone, fosse intimamente legato a questo morto, a questo padre ragazzo, a ciò che era stato e era diventato: e di aver cercato lontano ciò che gli era vicino nel tempo e nel sangue.
lo cerca speranzoso nei silenzi della madre, figura semplice, povera, triste ma dignitosa e pura: O madre, o tenera bambina adorata, più grande del mio tempo, più grande della storia che ti assoggettava a sé, più vera di tutto ciò che ho amato in questo mondo, o madre perdona a tuo figlio di essere fuggito dalla notte della tua verità. 
lo cerca fino a diventare grande, un uomo a sua volta "Tu, un uomo.", attraversando esperienze, povertà, sole accecante, una nonna severa e ignorante, una madre tenera, un ricordo vuoto senza sostanza.
La sera, il padrone convocava ogni impiegato nella sua tana per consegnargli il salario. "Prendi, piccolo," disse a Jacques, porgendogli la busta. E, mentre il ragazzo tendeva una mano esitante, l'altro gli sorrise. "Stai andando molto bene, sai? Puoi dirlo ai tuoi." Ma già Jacques gli stava dicendo che non sarebbe più tornato. Il padrone lo guardò sbalordito, con il braccio ancora teso verso di lui. "Perché?" Bisognava mentire, e la bugia non gli veniva. Rimase muto, e con un'aria così sconfortata che il padrone capì. "Torni al liceo?" "Sì," disse Jacques e, nonostante la paura e lo sconforto, un sollievo improvviso gli riempì gli occhi di lacrime. Il padrone si alzò furibondo. "E tu lo sapevi quando sei venuto qui. E lo sapeva anche tua nonna." Jacques non poté che annuire. Gli scoppi di voce riempivano ora la stanza; erano stati disonesti, e lui, il padrone, non sopportava la disonestà. Non sapeva forse che era suo diritto non pagarlo, e poi sarebbe stato proprio stupido, no, non lo avrebbe pagato, e venisse pure sua nonna, ci avrebbe pensato lui a riceverla: se gli avessero detto la verità, lo avrebbe forse assunto lo stesso, ma questa bugia, ah!, "Non può più andare al liceo, siamo troppo poveri", e lui si era lasciato fregare. "È per questo," disse all'improvviso Jacques, sconvolto. "Come per questo?" "Perché siamo poveri", poi tacque e fu l'altro che, dopo averlo guardato, aggiunse lentamente: "... Che avete fatto questo, che mi avete raccontato quella storia?" Jacques, coi denti stretti, si guardava le punte dei piedi. Ci fu una pausa, interminabile. Poi il padrone prese la busta dal tavolo e gliela porse. "Prendi il tuo denaro. E vattene" disse brutalmente. "No," disse Jacques. Il padrone gli ficcò la busta in tasca. Per la strada Jacques correva, piangendo adesso, con le mani aggrappate al colletto della giacca per non toccare i soldi che gli bruciavano in tasca.
Mentire per avere il diritto di non fare le vacanze, lavorare lontano dal cielo estivo e dal che tanto amava, e mentire ancora per diritto di riprendere il proprio lavoro al liceo: era un'ingiustizia che gli stringeva il cuore. Il peggio, infatti, non consisteva in quelle bugie che alla fine non si era sentito di dire, sempre pronto com'era alla menzogna del piacere e incapace di rassegnarsi alla menzogna della necessità, ma in quelle gioie perdute, in quei riposi della stagione e della luce che gli erano stati sottratti, facendo dell'anno una mera successione di  levate frettolose e di giornate tetre e affannate. Aveva dovuto rinunciare a quanto c'era di regale sua vita di povero, alle ricchezze insostituibili di cui godeva con tanta abbondanza e golosità per guadagnare un po' di denaro che non sarebbe bastato a comprare un milionesimo di tesori. Capiva tuttavia che era stato necessario farlo e, persino nel momento della massima ribellione, qualcosa in lui era fiero d'averlo fatto. Poiché l'unico compenso a queste estati sacrificate alla miseria della menzogna l'aveva a giorno della sua prima paga quando, enrando in sala da pranzo, dove già si trovavano la nonna che sbucciava patate per poi gettarle in un catino d'acqua, lo zio Ernest che, seduto, spulciava il paziente Brillant tenendolo fra le gambe, e la madre che, appena rientrata, scioglieva su un angolo della credenza un piccolo fagotto di biancheria sporca che le avevano dato da lavare, Jacques si era fatto avanti e aveva posato sul tavolo, senza dir nulla, il biglietto da 100 franchi e le monete che aveva tenuto in mano per tutto il tragitto. E la nonna, anche lei in silenzio, aveva spinto verso di lui una moneta da 20 franchi, raccogliendo il resto. Poi, con una mano, aveva toccato un fianco di Catherine Connery per attirare la sua attenzione e le aveva mostrato il denaro. "È tuo figlio." "Sì," aveva detto lei, e i suoi occhi tristi avevano accarezzato per un attimo il ragazzo. Lo zio scuoteva il capo, tenendo fermo Brillant che credeva concluso il suo supplizio. "Bravo, bravo," diceva. "Tu, un uomo." Sì, era un uomo, pagava una parte del suo debito, e il pensiero di avere un po' alleviato la miseria di quella casa lo riempiva di quella fierezza quasi feroce che provano gli uomini quando cominciano a sentirsi liberi e non sottomessi a nulla. In effetti, quindo si riaprirono le scuole, colui che entrò nel cortile della seconda non era più il ragazzo disorientato che, quattro anni prima, aveva lasciato Belcourt di primo mattino, barcollando sulle scarpe chiodate, col cuore stretto nel pensare al mondo sconosciuto che lo aspettava, e lo sguardo che posava sui compagni aveva perso un po' della sua innocenza. Molte cose, d'altronde, cominciarono a staccarlo da quel ragazzo che era stato. E se un giorno, dopo avere sino ad allora accettato pazientemente di farsi picchiare dalla nonna, come se fosse uno degli obblighi inevitabili di una vita di ragazzo, le strappò di mano il nerbo di bue, improvvisamente folle di violenza e di rabbia e talmente deciso a colpire quella testa bianca i cui occhi chiari e freddi lo facevano andare fuori di sé che la nonna capì e indietreggiò e corse a chiudersi in camera propria, gemendo, certo, per la disgrazia di aver allevato ragazzi snaturati ma già convinta che non avrebbe mai più picchiato Jacques, e mai più in effetti lo picchiò, ciò accadde perché di fatto il ragazzo era morto in questo adolescente magro e muscoloso, coi capelli arruffati e lo sguardo collerico, che aveva lavorato tutta l'estate per portare a casa una paga, era stato nominato portiere titolare della squadra del liceo e, tre giorni prima, sentendosi venir meno, aveva assaporato per la prima volta la bocca di una ragazza.

Camus è stato capace di vedere palpitare nell’esistenza offesa e gravata di sofferenza di una donna, sua madre, il mistero di una luce, una resistenza salda e irremovibile che penetra tutto. Camus è stato capace di intravedere il segno di una speranza che mai rinnegò e mai raggiunse, il segno di un padre mai conosciuto ma disperatamente cercato dentro di sè, di una domanda senza risposta ma non per questo meno importante e meno carica di forza vitale. 

Era da questa oscurità che era in lui che nasceva quell'ardore famelico, quella follia di vivere che lo aveva sempre abitato e che ancora oggi lo manteneva intatto, rendendo soltanto più amara — in mezzo alla famiglia ritrovata e alle immagini dell'infanzia — l'improvvisa e terribile sensazione che il tempo della giovinezza stesse fuggendo, come quella donna che aveva amato, oh sì, l'aveva amata con un grande amore di tutto il cuore e anche del corpo, sì, con lei il desiderio era assoluto, e il mondo quando defluiva da lei con un grande arido muto nell'attimo del godimento ritrovava il suo ordine ardente, e l'aveva amata per la sua bellezza e per quella follia di vivere, generosa e disperata, che era anche la sua e che le faceva rifiutare il trascorrere del tempo.
...E anche lui, più di lei forse, essendo nato su una terra senza avi e senza memoria, dove l'annientamento di coloro che l'avevano preceduto era stato ancor più totale e la vecchiaia non trovava quelle consolazioni della malinconia che riceve nei paesi di civiltà, lui come una lama solitaria e vibrante, destinata a spezzarsi all'improvviso e per sempre, una pura passione di vivere contrapposta a una morte totale, sentiva oggi sfuggirgli la vita, la giovinezza, le persone, senza poter in alcun modo salvarle, abbandonandosi soltanto alla cieca speranza che questa forza oscura che per tanti anni lo aveva elevato al disopra dei giorni, nutrito oltre misura, preparato per le situazioni più dure, gli avrebbe anche fornito, e con la stessa generosità instancabile con cui gli aveva dato ragioni per vivere, ragioni per invecchiare e morire senza ribellione. 


martedì 3 settembre 2013

Lettera a una professoressa

il testo di questo articolo tratto da La lettura, e probabilmente il testo di don Milani per intero (Lettera a una professoressa
,libro scritto dagli allievi della scuola insieme a don Milani,inviato quale priore di Barbiana. la scuola di Barbiana è un'esperienza educativa avviata da don Lorenzo Milani negli anni cinquanta che sconcertò e stimolò il dibattito pedagogico degli anni ‘60), dovrebbe essere consegnato a tutti i docenti, dalle elementari in su, giusto per ricordare il significato della parola insegnamento, l'ordine morale altissimo cui appartiene, l'enorme responsabilità formativa che gli compete, l'elevatissimo valore di creazione del desiderio nei discenti che comporta. l'insegnamento ha una fondamentale portanza nella vita di una persona la cui fortuna sarà segnata dall'aver trovato, nella sua esperienza, una o più volte, un maestro, un testimone di un'eredità, un portatore del "nome del padre" che consegna e insegna il desiderio.
ho appena finito di leggere Il primo uomo di Camus e anche lì, forte e imperativa, svetta la figura del maestro, dell'uomo, del portatore di crescita, di colui che lascia l'impronta. 
invece gli insegnanti sono spesso, non sempre ma spesso, dei poveretti duri e irrigiditi nel ruolo senza senso di trasportatori informi e inermi di notizie, di scaricatori di frustrazioni sugli alunni, incapaci di dare, di donare, di cedere cose buone, di formare, di invogliare  sempre più spesso gli insegnanti sono persone ignoranti di sè, e questo è gravissimo, e degli altri, ancora più grave considerando che gli "altri" sono giovani bisognosi di indicazioni valide e di spunti illuminanti per vivere e crescere, e non di punizioni afinalistiche, frustrazioni, durezze, insensatezze, vittime di manifestazioni di potere vuoto e malconcio, specchio di povertà interiore.
Beppe Servergnini, che intesse l'articolo, l'ho sentito presentare il suo libro Italiani di domani. Otto porte sul futuro a Ortisei, è una persona simpatica, attenta, veloce di testa, comunicativa. ha scelto per principio la semplicità e sinteticità comunicativa, saper rinunciare all'orpello intellettuale a favore dell'intelligibilità universale è segno di grande intelligenza.
è evidente che il tema dell'insegnamento e dei giovani gli sta a cuore, ne ho già letto di suo pugno proprio su La lettura, ne ha riparlato in occasione della conferenza che ho ascoltato in Alto Adige, ne ripercorre le fila qui...è giusto sviluppare un tema e proporlo sotto angolature diverse, si corre forse solo il rischio di risultare ripetitivi, ma ne vale la pena.
riporto il testo di questo "colloquio"  immaginario, ben fatto e ben costruito, mi è piaciuto e mi piacerebbe passare il 12 settembre in 3a B o in 2a M e consegnarlo alla classe docente. 
seper fare è fondamentale nella vita. 

La "lettera" dei ragazzi di Barbiana che cambiò le coscienze
EMAIL A UNA PROFESSORESSA
La scuola deve essere come un ospedale: curare i malati e non guastare i sani.
La lezione di Don Milani nell'Italia di oggi

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Molte cose, molti anni e molte riforme sono passati dalla Lettera a una professoressa. Ma c’è sempre un po’ di Barbiana, nella buona scuola all’italiana. Vediamo cosa scrivevano don Lorenzo Milani e i suoi allievi, e cosa possiamo aggiungere, quasi mezzo secolo dopo.
Chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti. (pagina 25)
Lei certamente sa, prof, che la parola «insegnante» deriva da in e signo: voi avete il compito, e l’onore, di lasciare un segno. La selezione è prerogativa dell’università. Alle elementari e alle medie — inferiori e superiori — bisogna scavare dentro i ragazzi e scovare le loro inclinazioni, correggendo le loro debolezze. Voi siete minatori di talento e spacciatori d’entusiasmo. Se oggi sono qui e posso scriverle questamail, è perché ho trovato persone così. Avevo una professoressa d’italiano che, in terza media, mi affidò due ragazzi che rischiavano la bocciatura. «Il tuo voto sarà misurato sul loro voto, il tuo successo sul loro successo», annunciò in classe, incurante del mio sguardo angosciato. Si chiamava Tilde Chizzoli, quella sua collega: ha cambiato la vita a tre persone. Grazie a lei, ho imparato insegnando: anche un po’ dell’umiltà di cui avevo bisogno, venendo da una famiglia privilegiata. Ho passato tanti pomeriggi con quei nuovi amici. Loro mi hanno insegnato a giocare a calcio, a basket, a guidare un motorino 50 cc e a conoscere le ragazze; io gli ho spiegato un po’ d’inglese e Fogazzaro. Ci ho guadagnato, sono convinto.
Ogni volta che capitava un ospite straniero che parlava francese c’era qualche ragazzo che scopriva la gioia di intendere. La sera stessa lo si vedeva prendere in mano i dischi di una terza lingua. (pagina 25)
Pensi a quanto inglese ci gira intorno. I ragazzi italiani ormai lo comprendono, anche se faticano a parlarlo, per eccesso di timidezza o carenza di opportunità. A Urbino e a Modena alcuni insegnanti — scuola superiore — dubitavano di questa mia teoria. Così sono passato dall’italiano all’inglese: i ragazzi, partecipando e rispondendo, hanno dimostrato di capire quanto bastava. E voi, prof?
Il nostro era all’antica. Fra l’altro gli successe che nessuno dei suoi ragazzi riuscì a risolvere il problema. Dei nostri se la cavarono due su quattro. Risultato: ventisei bocciati su ventotto. Lui raccontava in giro che gli era toccata una classe di cretini! (pagina 26)
Dica la verità: voi insegnanti, proprio come noi giornalisti, siete spesso tentati di esclamare «Non capiscono!». Ma se chi sta di là non capisce — allievi o lettori, fa lo stesso — la colpa è sempre di chi sta di qua. Il fallimento di una classe è il fallimento di un insegnante: non ci sono eccezioni a questa regola. L’eccessiva severità maschera l’inadeguatezza. I professori cattivi sono, quasi sempre, cattivi professori.
La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde. (pagina 35)
La scuola superiore italiana, nel 2012, ha perso il 18 per cento degli iscritti: quasi uno su cinque, una percentuale drammatica. I ragazzi di oggi sono fragili, è vero. Le famiglie, spesso, non aiutano, e li spingono verso studi inadeguati. Ma voi siete le donne e gli uomini che devono creare gli italiani di domani. È vero, professoressa: si tratta di un’immensa responsabilità. Roba da far tremare le ginocchia ogni mattina, entrando in aula. Ma la severità, talvolta al limite del sadismo, non è una via d’uscita. Prima di giudicare, bisogna istruire. Prima di selezionare, occorre formare. Altrimenti, come diceva don Milani, «la scuola diventa un ospedale che cura i sani e respinge i malati».
Se ognuno di voi sapesse che ha da portare innanzi a ogni costo tutti i ragazzi e in tutte le materie, aguzzerebbe l’ingegno per farli funzionare. Io vi pagherei a cottimo. Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O meglio multa per ogni ragazzo che non ne impara una. (pagina 82)
Potrebbe essere un’idea, prof. Che dice?
Non dica però di aver offerto il doposcuola quel preside che ha mandato ai genitori una circolare mezza stinta. Il doposcuola va lanciato come si lancia un buon prodotto. Prima di farlo bisogna crederci. (pagina 85)
Il lavoro di un insegnante è difficile: lo è sempre stato. E le ore di lavoro sono aumentate (cinquant’anni fa non c’erano i consigli di classe e d’istituto!). Eppure si deve trovare il modo di utilizzare le scuole al pomeriggio. Lasciarle vuote è uno spreco. Caricare i ragazzi di compiti a casa — com’è ormai la norma, soprattutto nei licei — è un’alternativa crudele. Non volete chiamarlo doposcuola o tempo pieno? Scegliamo un altro nome. Ministero, dirigenti scolastici, insegnanti, personale amministrativo, tecnico e ausiliario: voi trovate un modo, e noi troveremo i soldi. Nel 2000 ho regalato la rete wi-fi alla mia scuola, il liceo classico «Racchetti» di Crema: è rimasta per anni inutilizzata, per questioni didattiche, amministrative e assicurative. Ma se dobbiamo sempre aspettare il bidello con le chiavi, dove vogliamo andare?
La scuola costa poco, un po’ di gesso, una lavagna, qualche libro regalato, quattro ragazzi più grandi a insegnare, un conferenziere ogni tanto a dire cose nuove gratis. (pagina 91)
Il gesso è sempre utile (basta non usarlo per ingessare la didattica). Ma la scuola costa, come la sanità e la previdenza: sono i tre pilastri delle democrazie occidentali. In Germania la Cancelliera Angela Merkel ha picchiato il pugno durante un consiglio dei ministri: «Tagliate tutto, la scuola e la ricerca no! Sono il nostro futuro». Spendiamo troppo, in Italia, per l’istruzione? Spendiamo la stessa somma destinata al pagamento degli interessi sul debito pubblico. E quella è una cambiale del passato.
Nella nostra scuola l’andare all’estero equivale ai vostri esami. Ma è esame e scuola insieme. Si prova la cultura al vaglio della vita. (pagina 101)
«Il primo grande viaggio lascia nei giovani, di qualunque levatura e sensibilità, un dissidio che le abitudini non possono comporre; precisa l’idea degli oceani, dei porti, dei distacchi; crea quasi, nella mente, una nuova forma, una nuova categoria: la categoria della lontananza». Così scriveva Mario Soldati in America primo amore. Oggi, molti decenni dopo, andare all’estero, per un ragazzo, è più facile. Andare all’estero con i compagni di scuola, però, resta speciale. È insieme rassicurante e stimolante, un’avventura protetta. I ragazzi devono imparare il gusto dell’altrove. Bob Dylan si chiedeva «quante strade deve percorrere un uomo, prima che possiamo chiamarlo uomo». La risposta, secondo lui, soffiava nel vento. Soffia anche nelle vostre aule e nelle nostre case, se sappiamo ascoltare. Ai nostri ragazzi dobbiamo dare radici e ali: il resto lo troveranno da soli.
Il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così l’umanità va avanti. (pagina 112)
Voi dovete essere buoni insegnanti anche perché ci sono in giro tanti cattivi maestri. I ragazzi hanno bisogno di punti di riferimento diversi dai genitori: un amico più grande, uno zio eccentrico, un rapper convincente, un compagno di squadra. E un insegnante speciale. Il complimento d’un professore, a una certa età, vale più dell’incoraggiamento di mamma e papà. Certo: ai ragazzi bisogna spiegare che neppure il miglior insegnante può far molto, se trova continue chiusure. Dicono i cinesi: ilmaestro arriva quando il discepolo è pronto.
Un’altra materia che non fate e che io saprei è educazione civica. Qualche professore si difende dicendo che la insegna sottintesa dentro le altre materie. Se fosse vero sarebbe troppo bello. (pagina 123)
Un’idea, prof: non chiamatela «educazione civica», chiamatela educazione digitale. E portate i ragazzi in cattedra con voi: loro spiegheranno la tecnologia, voi le norme. Perché le norme — quelle del buon senso e quelle del diritto penale — valgono anche sul web, che è un luogo della vita.Molestie, minacce, stalking, calunnie, diffamazione: i ragazzi devono capire che certi errori si possono commettere molto presto; e lasciano conseguenze. Internet ha messo nel telefono e nel computer dei vostri studenti uno strumento di comunicazione di massa, un moltiplicatore, un veicolo potente e potenzialmente pericoloso. I nostri giovani connazionali sanno guidarlo. Ma bisogna aiutarli a capire quando fermarsi, e dove non andare.
Consegnandomi un tema con un quattro lei mi disse: «Scrittori si nasce, non si diventa». Ma intanto prende lo stipendio come insegnante d’italiano. (pagina 125)
Tutto s’impara: dove non arriva il talento, arriva la tenacia. Sa che, in prima superiore, ho preso qualche insufficienza in italiano scritto? Usavo vocaboli incomprensibili, una sintassi barocca, concetti astrusi. Devo ringraziare due sue colleghe — Paola Cazzaniga Milani al ginnasio, Giuseppina Torriani al liceo — se ho cambiato registro. A proposito: oggi come me la sono cavata?
Beppe Severgnini