bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

martedì 31 gennaio 2012

io sono un sognatore; ho vissuto così poco la vita reale che attimi come questi non posso non ripeterli nei sogni. vi sognerò per tutta la notte, per tutta la settimana, per tutto l'anno.

 by paintavatorka - deviant art

"Era una notte incantevole, una di quelle notti che ci sono solo se si è giovani, gentile lettore.
Il cielo era stellato, sfavillante, tanto che, dopo averlo contemplato, ci si chiedeva involontariamente se sotto un cielo così potessero vivere uomini irascibili ed irosi."

qui è Fëdor Dostoevskij che parla.
ne le "Notti Bianche".
mi legge Fabrizio Bentivoglio.
(non male come narratore, intenso ed estatico allo stesso tempo, quest'interprete moderno).
questo libro, vi dico, sarà un'incursione nella vostra vita.
veloce ma incisiva.
sarà un'intromissione nei sogni di un sognatore, in un sogno che per un breve attimo sembrerà avere le sembianze della realtà ma drasticamente, drammaticamente, tornerà alla sua dimensione dell'inganno.
il sogno che il nostro eroe ci racconterà alla fine di questo breve estratto che vi propongo, il sogno d'amore, sarà l'anticipazione e l'antitesi della realtà: se il sogno è foriero di felicità, la realtà, al contrario, sarà una delusione senza speranza.
questa nostra realtà senza pietà, senza garanzia, senza regola, è pur sempre, gentile lettore,  un surrogato indesiderabile rispetto alla dimensione senza confini e senza colpa dell'immaginazione.
la consistenza del vissuto è di valore infinitamente inferiore alla trama sottile del volo onirico.
quanta più libertà c'è nel sogno, e quanta solitudine nella realtà.
Devotamente Vostro
Fëdor Dostoevskij

Nella mia giornata, Nasten'ka, esiste un'ora che io amo in modo particolare. E' l'ora in cui finiscono quasi tutti gli affari, gli impegni e i doveri, e tutti quanti si affrettano a casa per pranzare e per riposare, e qui, per strada, pensano ad altri argomenti allegri, come potrebbero passare la serata, la notte, e tutto il tempo libero che ancora loro rimane... A quell'ora anche il nostro eroe, permettetemi, Nasten'ka, di raccontare in terza persona, perché mi vergogno terribilmente a raccontarlo in prima persona, e così a quell'ora il nostro eroe, che non è rimasto inattivo, cammina dietro agli altri. Ma una strana sensazione di contentezza si nota sul suo volto, così pallido da sembrare leggermente avvizzito. Egli guarda immedesimato nel crepuscolo che si spegne lentamente sul freddo cielo di Pietroburgo. Quando io dico guarda, non dico la verità; egli non guarda, contempla senza rendersene conto, come se fosse stanco o occupato al tempo stesso con altri pensieri più interessanti, tanto da poter solo di sfuggita, quasi involontariamente, dedicare un po' di tempo a ciò che gli sta intorno. Egli è contento, perché fino a domani ha lasciato i tediosi "affari", e si sente come uno scolaro al quale è stato concesso di correre via dal banco verso i suoi giochi preferiti e le birichinate. Guardatelo in disparte, Nasten'ka: vi accorgerete subito che la sensazione di gioia ha già influito felicemente sui suoi nervi deboli e morbosamente sulla sua immaginazione eccitata.

Ecco che egli pensa a qualcosa... Credete che pensi al pranzo?

Alla serata di oggi? Che cosa guarda in questo modo? Guarda forse quel signore dall'aspetto rispettabile che in modo così pittoresco ha salutato con un inchino la signora passatagli accanto in una magnifica carrozza trainata da cavalli briosi? No, Nasten'ka, che cosa gli importa di queste inezie? Egli è già ricco, adesso, "della sua particolare" vita, come se si fosse arricchito improvvisamente, e gli ultimi raggi del sole al tramonto non risplendono invano così allegramente per lui e richiamano in quel cuore intiepidito un intero sciame di sensazioni. Ora egli si accorge appena di quella strada che prima colpiva la sua immaginazione con ogni suo più piccolo particolare. Ora la "dea fantasia" (se aveste letto Zukovskij, cara Nasten'ka) ha già tessuto con la sua mano capricciosa la propria trama d'oro e ha disfatto davanti a lui i ricami di una vita insolita e meravigliosa e, chissà, forse lo ha trasportato con quella mano capricciosa al settimo cielo di cristallo, sollevandolo dal massiccio marciapiede di granito, sul quale egli stava camminando.

Provate a fermarlo ora, a chiedergli improvvisamente dove si trovi, quali vie ho percorso. Egli certamente non si ricorderà di nulla, né dove sia andato, né dove si trovi ora e, arrossendo per il dispetto, certamente dirà una bugia qualunque, tanto per salvare la faccia. Ecco perché è trasalito così, e per poco non si è messo a gridare, guardandosi intorno con spavento, quando un'anziana signora molto rispettabile lo ha fermato in mezzo al marciapiede per chiedergli informazioni sulla strada smarrita.

Accigliato per la stizza, egli riprende il cammino, accorgendosi appena che più di un passante ha sorriso e si è voltato a guardarlo e che qualche bambina, dopo avergli ceduto timorosamente il passo, è scoppiata in una fragorosa risata vedendo il suo largo sorriso contemplativo e i movimenti delle sue mani. E intanto la stessa fantasia ha sollevato in un volo giocoso la signora anziana, i passanti curiosi, la ragazza ridente e i contadini che passano la serata nelle loro chiatte ancorate sulla Fontanka (immaginiamo che il nostro eroe a quell'ora sia passato di lì), ha intessuto giocosamente tutto e tutti nel suo canovaccio, come mosche in una ragnatela; arricchito da ciò che ha acquistato, quell'originale è già tornato nella sua tana consolante, si è seduto per pranzare, anzi ha già pranzato ed è ritornato in sé solo quando Matrëna, che lo serve, meditabonda e eternamente triste, ha portato via ogni cosa dalla tavola e gli ha portato la pipa, allora è tornato in sé e ha ricordato con stupore di aver già pranzato, non rendendosi conto del tutto di come lo abbia fatto. La stanza è invasa dal buio; nella sua anima regnano il vuoto e la tristezza; tutto il regno dei sogni intorno a lui è crollato senza lasciare traccia, senza rumori, senza chiasso, è svanito come una visione, ed egli stesso non ricorda che cosa ha sognato. Ma una sensazione oscura a poco a poco strugge e agita sempre più il suo petto, un desiderio nuovo, tentatore, pizzica e irrita la sua fantasia e impercettibilmente attira uno sciame di nuovi fantasmi. Nella piccola stanza regna il silenzio: la solitudine e la pigrizia accarezzano la sua immaginazione; essa si infiamma piano, e piano si mette a bollire, come l'acqua nella caffettiera della vecchia Matrëna che nella cucina accanto prepara placidamente il suo caffè. Ecco che l'immaginazione di lui già prorompe in nuovi bagliori, ecco che il libro, aperto senza scopo e a caso, cade dalle mani del mio sognatore che non è giunto nemmeno alla terza pagina. La sua immaginazione è di nuovo riacutizzata, risvegliata, e improvvisamente un nuovo mondo, una nuova e affascinante vita ardono davanti a lui in tutta la loro scintillante prospettiva. Un nuovo sogno, una felicità nuova, una nuova dose di raffinato e voluttuoso veleno! Oh, che importanza ha per lui la nostra vita reale! Secondo il suo sguardo corrotto, noi due, Nasten'ka, viviamo con tale lentezza, pigrizia, fiacchezza, siamo così insoddisfatti del nostro destino, siamo così annoiati dalla nostra vita! E, infatti, guardate come in realtà i nostri rapporti al primo sguardo possono apparire freddi, tristi, quasi ostili... 'Poveri!', pensa il mio sognatore. E non è strano che pensi così! Guardate questi magici fantasmi che si dispongono in modo tanto ammaliante e capriccioso in un ampio quadro così accattivante, animato, dove in primo piano si trova sempre lui, il nostro sognatore, con la sua preziosa persona. Guardate quante avventure diverse, che infinito sciame di sogni esaltanti. Forse chiederete che cosa egli sogni. Che senso ha chiederlo? Egli sogna tutto...: sogna della missione del poeta, all'inizio non riconosciuto, poi rinomato, sogna l'amicizia con Hoffmann, la notte di San Bartolomeo, Diana Vernon, il ruolo eroico di Ivan Vasil'evitch alla presa di Kazan', Clara Movray, Evia Dens, il concilio di sacerdoti con Hus davanti a loro, la resurrezione dei morti di Robert (ricordate quella musica?, ha l'odore del cimitero), Minna e Brenda, la battaglia presso Berezina, la lettura di un poema nella casa della contessa V.D., Danton, Cleopatra e i suoi amanti, la casetta a Kolomna, il suo angolino e, vicino, una cara creatura che sta ad ascoltarlo in una sera d'inverno con gli occhi e la piccola bocca aperti, come mi ascoltate ora voi, mio piccolo angioletto... No, Nasten'ka, a che cosa servirebbe a lui, a quel voluttuoso pigrone, questa vita che noi due desideriamo tanto? Egli pensa che sia una vita povera, misera, non immaginando che anche per lui forse suonerà una volta quella triste ora, quando per un giorno di quella misera vita avrebbe dato tutti i suoi anni di fantasticherie, e non li avrebbe dati in cambio di gioia e di felicità, e non avrebbe voluto nemmeno scegliere in quell'ora di tristezza, di pentimento e di libero dolore. Intanto quell'ora, quell'ora non è ancora giunta; egli non desidera nulla, essendo superiore ad ogni desiderio e possedendo tutto, perché è sazio, perché lui stesso è artefice della sua vita creandola ad ogni momento, a suo capriccio. E con quanta leggerezza, con quanta naturalezza si crea questo mondo fantastico e fiabesco! Sembra addirittura che la sua visione sia palpabile! In quel momento egli si sente in diritto di credere che tutta quella vita non sia un effetto dell'eccitazione, un miraggio, un inganno dell'immaginazione, ma qualcosa di vero, di reale, di esistente. Ditemi, Nasten'ka, perché in momenti simili gli manca il respiro? Per quale magia, per quale volontà sconosciuta il polso gli si accelera, sgorgano le lacrime dagli occhi del sognatore, bruciano quelle guance pallide e umide, e tutta la sua esistenza si riempie di una gioia irresistibile?

Perché intere notti insonni passano come un lampo in una sconfinata felicità e allegria, e quando con i rosei raggi l'aurora brilla alla finestra e l'alba illumina la stanza con la sua luce fantastica e incerta, come da noi a Pietroburgo, il nostro sognatore affaticato e sfinito si butta sul letto e si addormenta nelle ansie della sua estasi, che avverte nel suo spirito morbosamente sconvolto, e con tale dolore languido-dolce nel cuore? Sì, Nasten'ka, ti inganni, e credi involontariamente dall'esterno che una vera passione agiti la sua anima, credi che vi sia qualcosa di vivo e di tangibile in quei sogni immateriali.
E quale inganno! Ecco, ad esempio, l'amore ha invaso il suo petto, con tutta la sua inesauribile gioia, con tutti i suoi languidi tormenti... Guardatelo, solo, e vi convincerete! Credete forse, guardandolo, cara Nasten'ka, che egli non abbia mai conosciuto colei che ha tanto amato nel suo frenetico sognare? Non l'ha forse veduta solo tra i seducenti fantasmi e l'ha solo sognata, questa passione? Non hanno forse passato, mano nella mano, molti anni della loro vita, da soli, in due, respingendo tutto il mondo e unendo ognuno il proprio mondo, la propria vita con la vita dell'altro? Non è stata forse lei, a quell'ora tarda, al momento della separazione, ad abbandonarsi, singhiozzante e in preda all'angoscia, sul petto di lui, sorda alla tempesta che si scatenava sotto il cielo oscurato, sorda al vento che strappava e portava via lacrime dalle ciglia nere? Tutto ciò era stato forse un sogno, e anche quel giardino, triste, abbandonato e selvaggio, con sentieri ricoperti di muschio, solitario, cupo, dove avevano passeggiato così spesso in due, dove avevano sperato, si erano angosciati, dove si erano amati così a lungo e così teneramente? E quella strana casa degli avi, dove lei era vissuta tanto tempo triste e in solitudine con il vecchio e tetro marito, bilioso, che taceva sempre e che spaventava loro, che erano timidi come bambini e si nascondevano a vicenda il loro amore reciproco con timore e con malinconia? Come soffrivano, come erano spaventati, come innocente e puro era il loro amore e come (e va da sé, Nasten'ka) erano cattivi gli uomini! Oh, Dio mio, ma non l'aveva incontrato forse dopo qualche tempo, lontana dalle rive della sua patria, sotto un cielo straniero, meridionale, caldo, in una città eterna e meravigliosa, nello sfolgorio di un ballo, al suono della musica, in un palazzo (proprio in un palazzo) immerso in un mare di luci, su quel balcone, ricoperto dal mirto e dalle rose? E lei, dopo averlo riconosciuto, si tolse in fretta la sua maschera e sussurrò: "Sono libera", e, tremando, si gettò tra le sue braccia, dopo un grido di esultanza, si abbracciarono e in un attimo dimenticarono la sofferenza, la separazione, tutti i tormenti, la casa triste, il vecchio, il giardino cupo nella patria lontana, la banchina sulla quale, dopo l'ultimo bacio appassionato, lei si strappò con disperata sofferenza dal suo abbraccio pietrificato...

domenica 29 gennaio 2012

che vuol dire un'Itaca

Itaca
Konstantinos Kavafis

 da deviantart 

Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa' voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
Non temere i Lestrìgoni e i Ciclopi
o Posidone incollerito: mai
troverai tali mostri sulla via,
se resta il tuo pensiero alto, e squisita
è l'emozione che ti tocca il cuore
e il corpo. Né Lestrìgoni o Ciclopi
né Posidone asprigno incontrerai,
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.

Fa' voti che ti sia lunga la via.
E siano tanti i mattini d'estate
che ti vedano entrare (e con che gioia
allegra!) in porti sconosciuti prima.
Fa' scalo negli empori dei Fenici
per acquistare bella mercanzia,
madrepore e coralli, ebani e ambre,
voluttuosi aromi d'ogni sorta,
quanti più puoi voluttuosi aromi.
Rècati in molte città dell'Egitto,
a imparare e imparare dai sapienti.

Itaca tieni sempre nella mente.
La tua sorte ti segna quell'approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio
tu finalmente attracchi all'isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.

Itaca t'ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
E se la trovi povera, Itaca non t'ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un'Itaca.
(1911 )


è una bella poesia, semplice e chiara, sapiente ed evocativa.
simbolica. come tutto il mondo in cui siamo immersi, dalla nascita.
mi piace: il viaggio, il passaggio,  l'approdo che apre altre infinite irrisposte domande, la mancanza che alimenta il desiderio sono, ora, la mia passione, il mio studio.

giovedì 26 gennaio 2012

nuovomondo

Crialese, il regista.
tra i suoi film ho visto anche Respiro e Terraferma.
l'impronta e' quella, gente del sud, anima calda, terre arse.
ma in questo c'e' un tocco speciale, artistico e creativo.
agli inizi del XX secolo la famiglia siciliana dei Mancuso lascia un paese povero e bruciato dal sole dell'entroterra alla volta dell'America. Salvatore, i suoi figli e sua madre, dopo aver interrogato un'immagine sacra, vendono i loro averi in cambio di vestiti e scarpe buone e si imbarcano con altri italiani alla volta dell'america.
e' all'imbarco che conoscono Lucy, elegante donna inglese -una diafana Charlotte Gainsbourg- che si distingue in tutto il suo candore aristocratico: viaggia inspiegabilmente con gli italiani ed è il simbolo dell’emancipazione femminile. lei è l'anticipazione del nuovo mondo, è il primo inequivocabile e luminoso segno di un cambiamento.
il nuovo mondo in cui la famiglia sbarca è ben diverso da come si era illusa di trovarlo. gli emigranti devono sottoporsi a una serie di controlli medici grossolani e a prove psicoattitudinali razziste e ignoranti. le donne, per poter entrare definitivamente in america, devono essere sposate, o diventarlo sul momento: ed e' cosi' che Lucy, mentre le altre si ritrovano a conoscere e a dover accettare immediatamente mariti sconosciuti connazionali già residenti in america, compila il modulo per Salvatore facendone il suo sposo.
non è una storia d'amore, Lucy non ama, Salvatore sogna, è la storia di una promessa.
di una promessa di felicità.
non sappiamo se sarà amore, non sappiamo se sarà lavoro, non sappiamo se sarà vita migliore.
sappiamo che siamo in viaggio. siamo sempre in viaggio?
la nave sta per salpare, è vista dall'alto. l'inquadratura è fatta solo di gente, teste di persone, centinaia. eppure si capisce che quelle teste sono su due piani diversi, sopra e sotto. sopra chi parte, sotto chi resta. la nave si stacca dal molo...ed ecco la magia del cinema, le teste di chi si rinnova e quelle di chi si conserva. una separazione dolorosa ma necessaria: ogni cambiamento ha in sè una quota di dolore, di rischio e di dolore.
la nave è partita ed è abitata da uomini e donne. le camerate sono separate ma la facilmente comunicanti e raggiungibili, poco spazio distanzia la branda di uno da quella di un'altra. un giovane si aggira di notte tra le donne che dormono, ne osserva i corpi, rapito. non tocca, guarda estasiato da quelle curve che emergono come onde del mare. si ferma, c'è una qualcosa che merita di più, inabissa la sua testa tra le cosce di una dormiente e, senza toccare, annusa. l'odore del mare, della terra che lo attende.

c'è una sacralità da cui si parte, la terra dell'origine, dei riti magici, delle suggestioni mitiche, delle stregonerie di una terra ignorante, e una sacralità che si ricrea nella solidarietà del gruppo in viaggio. le riprese della nave sono quasi solo interne, il mare si vede qualche volta, ma la vita è dentro, nelle camerate, nel profondo delle stive. il viaggio è la parte più suggestiva del film, è il luogo del viaggio inteso come passaggio, come cambiamento, come avviamento.

alla fine, quando la promessa di matrimonio è ormai stipulata, quando ormai i giochi sono fatti, quando qualcuno deve ritornare in patria per non idoneità al mondo nuovo, per presunta inabilità al cambiamento, il passaggio al nuovo si compie in un lago di latte, latte materno, latte di crescita, latte che nutre.
si nuota nella vita, nel pricipio attivo di una vita promessa.

ora, qual è la promessa? la nostra?
qual è il nuovo mondo? questo? lungo le coste di Lampedusa? 



lunedì 23 gennaio 2012

la morte di Achab, la fine del mio viaggio

ma nemmeno Moby Dick ha vinto.
Moby Dick però ci sopravvive, come la vergogna del signor K. di Kafka, la balena bianca è la dannazione autodistruttiva che in tanti si portano dentro. è la rabbia che consuma e alimenta, è l'odio, in punto cieco di non amore, che a volte da senso a un'intera esistenza.



da Moby Dick: • LA CACCIA. TERZO GIORNO

"... Infine, mentre il legno, con una virata, filava parallelo al fianco chiaro della balena, questa parve stranamente disinteressarsi al suo arrivo, come fanno le balene talvolta, e Achab era ormai dentro alla fumosa nebbia alpina che emessa dallo sfiatatoio si avvolgeva intorno alla sua gobba, grande come il monte Monadnock. Tanto vicino le arrivò, e piegando indietro il corpo e alzando in aria le braccia distese per dare equilibrio, scagliò il rampone feroce e la sua più feroce maledizione dentro l'odiata balena. Mentre acciaio e maledizione affondavano fino al manico, come succhiati in un pantano, Moby Dick si contorse di fianco, rollò spasmodicamente contro la prua, e senza aprirvi falla inclinò così di colpo la lancia, che non fosse stato per l'orlo del capo di banda cui s'era aggrappato, Achab sarebbe finito in acqua un'altra volta. Ma al colpo tre dei rematori, che non avevano previsto l'istante preciso del lancio e perciò erano impreparati ai suoi effetti, furono sbalzati fuori; e però caddero in modo che in un attimo due di essi si riafferrarono al capo di banda, e alzandosi al suo livello sulla cresta di un'onda si ributtarono in barca di peso, mentre il terzo cadeva senza rimedio a poppa, ma sempre a galla e nuotando.
Quasi nello stesso punto, con un poderoso, fulmineo colpo di testa, la balena bianca balzò nel mare ribollente. Ma quando Achab urlò al timoniere di dare altre volte alla lenza e bloccarla, e comandò all'equipaggio di voltarsi sui banchi e alare la barca fino alla preda, appena il cavo traditore subì il doppio sforzo e lo strappo, saltò secco nell'aria.
«Cos'è che mi si spezza dentro? Qualche nervo cede!... no, tutto è di nuovo a posto: remi! remi! Saltatele addosso!»
Udendo il tremendo impeto della lancia che sfondava il mare, la balena si girò per presentare a difesa la vuota fronte, e in quel girare scorse lo scafo nero della nave che s'avvicinava; e forse vedendo in quello la fonte di tutte le sue persecuzioni, credendolo, può darsi, un nemico più grande e più nobile, di colpo partì contro quella prua che avanzava, sbattendo le mascelle tra irruenti rovesci di schiuma.
Achab vacillò; si batté la mano in fronte. «Divento cieco. Mani, stendetevi qui, davanti, che possa ancora trovarmi strada a tastoni. È notte?»
«La balena! La nave!» gridarono i rematori allibiti.
«Ai remi, ai remi! Sprofòndati verso i tuoi abissi, mare, ché prima che sia troppo tardi Achab possa slittare quest'ultima volta, quest'ultima volta contro il suo bersaglio! Ora vedo: la nave! La nave! Scattate, ragazzi! Non volete salvare la mia nave?»
Ma mentre i rematori schiacciavano freneticamente la barca contro i colpi di maglio del mare, le teste prodiere di due assi colpite dalla balena saltarono, e quasi in un attimo il legno immobilizzato si trovò a pelo d'acqua, con l'equipaggio semisommerso e sguazzante, che cercava disperato di turare la falla e aggottare l'acqua che irrompeva.
Intanto, nell'attimo in cui guardò, il martello di Tashtego sull'albero gli restò in mano levato, e la bandiera rossa avvolgendolo come un manto gli svolazzò di dosso come fosse il cuore che lo lasciava; e Starbuck e Stubb, che stavano sotto, al bompresso, videro nello stesso momento il mostro che piombava loro addosso.
«La balena! La balena! Poggia tutto! Poggia! O voi potenze buone dell'aria, tenetemi stretto! Non fate morire Starbuck, se deve morire, in un deliquio da femmina! Poggia tutto, dico!... voi deficienti, quelle fauci! quelle fauci! È questa la fine di tutte le mie preghiere ardenti? Di tutta una vita di fede? O Achab, Achab, guarda cosa hai fatto. Alla via, timoniere, alla via! No, no, poggia di nuovo! Si volta per assalirci! Oh, la sua fronte implacabile si getta su un uomo a cui il dovere dice che non può fuggire. Signore, stammi accanto!»
...
Ormai quasi tutti gli uomini ciondolavano inerti sulla prua della nave: martelli, pezzi di tavole, lance e ramponi stretti macchinalmente in mano, così come erano accorsi dalle loro occupazioni, e tutti gli occhi incantati fissi sulla balena che vibrando stranamente da parte a parte la sua testa predestinata, si gettava davanti, nella corsa, un gran semicerchio rollante di schiuma. Giustizia, pronta vendetta e malvagità eterna erano in tutto il suo aspetto, e a onta di tutto ciò che l'uomo potesse fare, il bianco sperone massiccio della sua fronte colpì di tribordo la prua della nave, squassando uomini e assi. Qualcuno cadde lungo sulla faccia. Come pomi d'albero schiantati, le teste dei ramponieri arriva traballarono su quei colli taurini. Attraverso lo squarcio udirono le acque rovesciarsi come torrenti alp ini in una gola.
«La nave! Il carro funebre!... il secondo carro!» urlò Achab dalla barca.
Tuffandosi sotto la nave che si abbassava, la balena corse fremente lungo la chiglia, ma virando nell'acqua tornò in un attimo a emergere lontana a babordo di prua, e a poche jarde dalla barca di Achab. Per il momento, era immobile.
«Volto la schiena al sole. Olà, Tashtego! fammi sentire il tuo martello. O mie tre guglie indomabili, chiglia intatta, e tu, scafo che solo Dio può forzare, tu ponte saldo e barra superba, e prua puntata sul Polo... nave gloriosa di morte! Dunque devi morire, e senza di me? Anche l'ultima ambizione dei più mediocri capitani mi deve essere tolta? O morte solitaria dopo una vita solitaria! Ora sento che la mia massima grandezza sta nel maggior dolore. Ahimè!
Riversatevi qui dai vostri punti lontani, onde coraggiose di tutta la mia vita, su in cima al mucchio di questo gran maroso di morte! Verso te avanzo, balena che distruggi e non vinci, fino all'ultimo ti combatto, dal cuore dell'inferno ti pugnalo, e in nome dell'odio ti sputo addosso il mio ultimo respiro. Affondi ogni bara e ogni carro in un solo vortice! E visto che non sono per me, che io venga trascinato a pezzi mentre ancora ti caccio, benché sia legato a te, balena maledetta! Così getto la lancia!»
Il rampone fu scagliato; la balena ferita balzò avanti; la lenza corse bruciante nella scanalatura: s'imbrogliò.
Quello si chinò a districarla, ci riuscì, ma il cappio volante lo prese al collo, e senza gridare, come la vittima strangolata dai muti schiavi dei Turchi, Achab saltò dalla barca prima che gli altri vedessero che era sparito. L'attimo dopo, la pesante gassa impiombata in cima al cavo volò via dalla tinozza vuota, abbatté un rematore e frustando il mare sparì nei gorghi.
Un momento, l'equipaggio della lancia rimase impietrito. Poi si voltarono. «La nave, gran Dio, dov'è la nave?»
Presto, attraverso veli d'acqua foschi e confusi, ne videro il fantasma obliquo che svaniva, come tra i vapori della Fata Morgana, solo le vette degli alberi fuori dell'acqua; e inchiodati ai posatoi un tempo così alti, per pazzia, fedeltà o destino, i ramponieri pagani affondavano sempre scrutando sul mare. E ora cerchi concentrici afferrarono anche la lancia solitaria, e tutti quegli uomini, e ogni remo galleggiante, e ogni palo di lancia, e torcendo in giro in un solo vortice ogni cosa viva o senz'anima, trascinarono a fondo anche il più piccolo avanzo del Pequod.
Ma mentre le ultime ondate si rovesciavano fitte sulla testa sommersa dell'indiano all'albero maestro, lasciando ancora visibili pochi pollici della cima e lunghe jarde fluttuanti della bandiera che sventolava quieta, con ironica armonia, sui cumuli d'acqua distruggitori che ormai quasi sfiorava; in quel momento un braccio rossiccio e un martello si alzarono nell'aria, piegati all'indietro nell'atto di inchiodare sempre più salda la bandiera all'albero che sprofondava.
Un falco, che aveva beffardamente seguito il pomo di maestra giù dalla sua naturale dimora tra le stelle, beccando all'insegna e molestando Tashtego, cacciò per caso la larga ala palpitante tra il martello e il legno; e in un baleno avvertendo quel sussulto etereo, il selvaggio affondato lì sotto, nel suo rantolo di morte, tenne inchiodato il martello. E così l'uccello del cielo, con strida d'arcangelo, rizzando in alto il rostro imperiale, e tutto il corpo imprigionato avvolto nella bandiera di Achab, andò a fondo con la sua nave, che come Satana non volle calare all'inferno finché non ebbe trascinata con sé, come elmo, una viva parte del cielo. Ora piccoli uccelli volarono stridendo sul vortice ancora aperto. Un tetro frangente biancastro urtò contro i suoi bordi ripidi. Poi tutto crollò, e il gran sudario d'acqua tornò a mareggiare come aveva fatto cinquemila anni fa."

la verità è che sono in lutto.
nei miei interminabili trasferimenti milanesi, l'ho ascoltato, e a volte ri-ascoltato, per lunghissime ore da una voce narrante di profonda bellezza. mi ha incatenato e abbagliato e, soprattutto, mi ha fatto sognare.
ho sognato e immaginato, mi sono trasferita sul Pequod.
a ogni interruzione, per scendere da quella benedetta auto, ho provato un senso di smarrimento. devo andare? dove? a lavorare? non posso rimanere tra le onde concentriche della balena bianca e in balia dell'animo dannato di Achab? tra i rimpianti struggenti di Starbuck? tra le burla spocchiose di Stubb??
è finito tutto, il mio sogno è interrotto, sono triste. raramente ho provato un trasporto così intenso, raramente ho provato la sensazione di una dimensione "altra".
non sarei mai scesa, sono affondata, sono negli abissi e nel vortice che tutto trascina dietro di sè.
"Poi tutto crollò, e il gran sudario d'acqua tornò a mareggiare come aveva fatto cinquemila anni fa."


addio.

sabato 21 gennaio 2012

una lacrima cadde nel mare: e tutto il Pacifico non conteneva ricchezze eguali a quella misera goccia

mi avvicino alla fine del mio viaggio sul Pequod e questo capitolo è una sinfonia.
c'è poesia, il cielo femmineo e il mare virile. è un amplesso.
c'è tanto di vero, di universale e di personale, nell'incontro di un uomo con un altro, della follia di uno con la paura dell'altro. e nella separazione che anticipa la morte. 

da Moby Dick: LA SINFONIA

Era un giorno limpido, d'un azzurro d'acciaio. Le sfere dell'aria e del mare si distinguevano appena in quel lago ceruleo. Ma l'aria pensosa aveva una trasparenza pura e soave, come un viso di donna, e il mare robusto e virile si gonfiava in ondate lunghe, poderose, flemmatiche, come il torace di Sansone dormente. Qua e là in alto guizzavano le ali nivee di piccoli uccelli immacolati: erano i teneri pensieri dell'aria femminea; ma giù negli abissi dell'azzurro infinito da ogni parte s'avventavano enormi leviatani e pesci-spada e squali: e queste erano le riflessioni violente, tormentose, assassine di quel mare maschio.

Ma il contrasto, così profondo nell'intimo, di fuori appariva solo in ombre e riflessi. Quei due sembravano una cosa sola; e solo il sesso, diciamo, li distingueva.


Arriva, come un re o uno zar maestoso, il sole pareva donare quell'aria gentile a questo forte mare rollante, come la sposa allo sposo. E laggiù alla cintura dell'orizzonte, quel moto soave e tremulo che si scorge qui all'equatore indicava la fede inebriata e palpitante, le paure innamorate con cui la povera sposa donava il suo grembo. Rattrappito e contorto, nocchiuto e solcato di rughe, dolorosamente fermo e inflessibile, gli occhi rossi come carboni che ardono ancora tra le ceneri di un disastro, Achab uscì sicuro nella chiarità del mattino, alzando l'elmo scheggiato delle ciglia verso la fronte della fanciulla leggiadra del cielo. O infanzia immortale e innocenza dell'azzurro! Invisibili creature alate che ci scherzano tutt'intorno!Dolce fanciullezza dell'aria e del cielo, come eravate dimentiche del dolore contorto di quel vecchio! Ma così ho visto le piccole Miriam e Marta, elfi dagli occhi ridenti, saltellare spensierate attorno all'avo decrepito, giocando con la chierica di capelli abbruciacchiati che gli spuntano ai bordi del cratere spento del cervello. Dal portello Achab traversò lentamente la coperta, si chinò sulla fiancata, e guardò come la sua ombra nell'acqua affondava sempre più ai suoi occhi quanto più cercava di penetrarne l'intimo. Ma gli aromi soavi di quell'aria incantata parvero alla fine dissipare, per un attimo, il cancro che aveva nell'anima. Quell'aria lieta, felice, quel cielo amabile, lo accarezzò in fine, lo rasserenò; la terra matrigna, così a lungo minacciosa e crudele, ora gettò braccia amorose attorno a quel collo testardo, e parve singhiozzare di gioia su di lui, come per uno che, traviato e indurito, ella avesse tuttavia il cuore di benedire e salvare. Di sotto al cappello tirato sugli occhi una lacrima cadde nel mare: e tutto il Pacifico non conteneva ricchezze eguali a quella misera goccia.

Starbuck vide il vecchio; lo vide appoggiarsi di peso alla murata; e gli parve di sentire nel proprio cuore onesto lo smisurato singhiozzo che rompeva dal cuore di tutta quella serenità. Attento a non toccarlo e a non farsi notare, venne a metterglisi accanto.

Achab si voltò.

«Starbuck.»

«Sissignore.»
 
«Ah, Starbuck! È così dolce il vento, il cielo così tenero. In un giorno così, proprio così delicato, colpii la mia prima balena: un ramponiere di diciott'anni! Quarant'anni fa, quaranta... quarant'anni! Quarant'anni fa! Quarant'anni di caccia continua! Quarant'anni di privazioni, e pericoli, e tempeste. Quarant'anni su questo mare spietato. Per quarant'anni Achab ha lasciato la terra serena, per quarant'anni ha fatto guerra agli orrori dell'abisso! Proprio così, Starbuck: di questi quarant'anni non ne ho passati tre a terra. Quando penso a questa vita che ho fatto, e che solitudine spaventosa è stata, questa fortezza murata e chiusa di un capitano, che lascia ben poco accesso ai moti di affetto dalla terra verde lì attorno, ah che stanchezza! Che fatica! Schiavitù africana di chi comanda, così solo... Quando penso a tutto questo, e finora l'ho appena sospettato, mai capito così chiaro... quando penso che per quarant'anni non ho mangiato che roba secca, salata, giusto segno dell'arido che mi nutriva l'anima! mentre che il più povero a terra ha avuto ogni giorno frutta fresca, e spezzato il pane fresco del mondo invece delle mie croste ammuffite...lontano, lontano oceani interi da quella ragazza che sposai più che cinquantenne, partendo l'indomani per il Capo Horn, lasciando solo una fossa nel cuscino del nostro letto... moglie? no, vedova piuttosto di un marito vivo! Sicuro, Starbuck, quella povera ragazza, l'ho resa vedova il momento che la sposai; e poi la pazzia, il delirio, il fuoco nel sangue, il fumo nel cervello con cui questo vecchio ha calato mille volte le barche come una furia, con la bava alla bocca, per dare la caccia alla sua preda: più demonio che uomo! Ma sì, ma sì, quarant'anni di pazzia! Che pazzo! Che vecchio pazzo è stato questo vecchio Achab! Perché questo strazio? Perché sfinire, perché paralizzare questo braccio col remo, col rampone, con la lancia? Che ci ha guadagnato Achab? Cos'è che gli resta? Guardami. Ah, Starbuck! Non è duro, che con questo gran peso che porto, debbano avermi strappata di sotto una povera gamba? Ah, tìrati via i tuoi vecchi capelli: mi vanno negli occhi, e pare che pianga. Cernecchi così bianchi non sono mai spuntati che da mucchi di cenere! Ma ti sembro davvero tanto vecchio, tanto, tanto vecchio, Starbuck? Mi sento stracco da morire, torto in due, con la gobba, come se fossi Adamo che va barcollando sotto il mucchio dei secoli, dal tempo del Paradiso. Dio, Dio, Dio! spaccami il cuore e sfondami il cervello! Che farsa! Che farsa! Che farsa amara e crudele questi capelli bianchi. Forse che ho tanto vissuto sereno da dovervi portare e da parere e da sentirmi così insopportabilmente vecchio? Qua! Vienimi vicino, Starbuck. Fammi guardare dentro un occhio umano. È meglio che guardare nell'acqua o nel cielo, meglio che guardare Iddio. Per la terra verde! Per il calduccio del focolare! Ma questo è uno specchio magico, amico mio: vedo mia moglie e mio figlio nei tuoi occhi. No, no, resta a bordo, resta a bordo e non ammainare con me quando il vecchio marchiato darà la caccia a Moby Dick. Non voglio che tu corra quel rischio. No, non con quella casa lontana che ti vedo negli occhi!»

«Oh capitano! Mio capitano! Cuore nobile, vecchio cuore grande dopo tutto! Perché si deve dare la caccia a quel pesce odioso? Torna via con me! Usciamo da queste acque di morte! Torniamo a casa! Anche Starbuck ha una moglie e un figlio, una moglie e un figlio della sua gioventù fraterna e spensierata, come i tuoi, signore, sono moglie e figlio della tua vecchiaia paterna, piena d'amore e di affetto! Andiamocene via! Andiamo via! Lasciami cambiare rotta subito! Come sarà bello, come sarà divertente, capitano, se torniamo a ruzzolare verso la nostra vecchia Nantucket! Signore, credo che anche lì, a Nantucket, ci siano giornate azzurre e dolci come questa!»

«Ci sono; ci sono. Le ho viste... certe giornate d'estate, la mattina. Verso quest'ora... sì, è l'ora del sonnellino, questa... e il bimbo si sveglia tutto vispo, siede in mezzo al letto e sua madre gli parla di me, di questo vecchio cannibale; gli dice che sono lontano in alto mare, ma che torno per farlo ballare di nuovo.»

«Ma è la mia, la mia Mary questa! Ha promesso che avrebbe portato mio figlio ogni mattina sulla collina, per esere il primo a scorgere la vela di suo padre! Sì, sì, basta! È deciso! Puntiamo su Nantucket! Venite, capitano, studiate la rotta e si torna! Guardate, guardate, la faccia del bambino alla finestra, la mano sulla collina!».
 
Ma Achab aveva distolto gli occhi; si scosse come un albero malato, e gettò a terra il suo ultimo frutto incenerito. «Che cos'è mai, quale cosa indicibile, incomprensibile e inumana, quale falso signore e padrone nascosto, quale tiranno crudele e senza scrupoli mi comanda, che contro ogni affetto e desiderio naturale io debba continuare a spingermi, e serrarmi e schiacciarmi di continuo, per esortarmi pazzamente a fare ciò che nel profondo del cuore non ho mai osato neanche pensare? È Achab Achab? Sono io, Signore, che alzo questo braccio, o chi è? Ma se il gran sole non si muove da sé, e non è che un fattorino del cielo, se neanche una stella può ruotare se non per una forza invisibile, come può dunque battere questo piccolo cuore, e questo piccolo cervello pensare, se non è Dio che batte quel battito, pensa quel pensiero e vive quella vita, e non io. Per Dio, amico, siamo fatti girare e girare in questo mondo come quell'argano lì, e il destino è la manovella. E sempre, guarda lì, quel cielo sorridente e questo mare senza fondo! Guarda! Vedi quell'alalunga laggiù? Chi gli ha messo in testa di inseguire e azzannare quel pesce volante? Dove vanno gli assassini, amico? Chi deve giudicare, quando il giudice stesso è portato alla sbarra? Ma il vento è così dolce, e il cielo ha un colore così tenero, e l'aria è profumata come se spirasse da prati lontani; debbono avere tagliato il fieno chi sa dove sotto i pendii delle Ande, Starbuck, e i mietitori dormono tra il fieno tagliato di fresco. Dormono? Ma sì, per quanto ci affatichiamo, tutti alla fine dormiamo sul prato. Dormiamo? Sicuro, e arrugginiamo tra il verde, come le falci dell'anno scorso buttate da canto e dimenticate tra l'erba ancora... Starbuck!»

Ma l'ufficiale se n'era andato, bianco per la disperazione come un morto.

Achab traversò il ponte per dare un'occhiata dall'altra parte; ma trasalì vedendo, nell'acqua, il riflesso di due occhi sbarrati. Fedallah s'appoggiava, immobile, alla stessa ringhiera.

giovedì 19 gennaio 2012

mi sono innamorata di elio germano

"pronto? si ciao sono Rossa, come va?...sono andata a teatro a vedere quel gran figo di elio germano, non perderlo".
lo so, siamo un esercito, sono di una banalirtà imbarazzante.
teatro gremito di femmine.
ma sono parte del volgo, non mi differenzio.

penso perfino che cambierò il titolo del mio blog : "elio germano è mio fratello"
ma, fatto salvo che a mio fratello somiglia sul serio, non vorrei una fratellanza, francamente.
qualcuno diceva : è bello. no. proprio no. tutto ma bello no.
l'ho visto anche nudo in un paio di film, certamente ne "il passato è una terra straniera", peraltro bel film.
ecco, il suo compare in quella pellicola, Michele Riondino, è bello. Elio no, troppo magro, gambe secche.
no, per me un uomo deve avere carne addosso.
no bello no, ma un gran figo si. mi piace, ha talento, vagonate di talento, ci sa fare.
mi dicono che su un volo roma-milano, se ne stava appartato sul suo sedile a leggere l'Unità.
splendidamente demodé. un gran figo. fa per me.

dove l'ho visto? Milano, teatro Franco Parenti, in "Thom Pain", monologo del drammaturgo americano Will Eno, vincitore del Fringe Award all’Edinburgh International Festival del 2005 e, nello stesso anno, finalista del Premio Pulitzer per la sezione teatro.
che divertimento, che gusto, che apparente assurdità.
la bravura dell'interprete e la riuscita dello spettacolo consistono nella costante domanda, per tutta l'ora della rappresentazione: c'è o ci fa? improvvisa o recita? questo è il testo o non sa cosa dire?
testo -testo?- bizzarro, casuale, incongruo, apparentemente improvvisato, pieno zeppo di profondissime verità. sul tempo, sulla paura, sull'uso perverso della memoria e della parola, sulle bugie dell'amore. su me su te su tutti.
"se ti dicessero che ti resta un giorno di vita? ameresti follemente quella che ti resta. ti dicessero invece che ti restano 40 anni?"
“qual è stato il preciso momento in cui è finita la vostra infanzia? Quando avete visto qualcosa di spiacevole e avete provato dolore?”.


Thom Pain, che potrebbe con quel pain nel suo cognome non casualmente ricordare il dolore che ci accompagna e che cerchiamo di accomodare tutta la vita, fa il funambolo e gioca con le parole con apparente non senso, ci guida nell'inganno tra recitazione e improvvisazione, ci fa credere che sia un attore ma è un uomo che parla in mezzo ad altri, ci confonde e ci convince allo stesso tempo: è solo, ma siamo in tanti nella sua condizione.
thom pain è elio germano e, a parte il vestito di due taglie più grandi e la capigliatura improbabile, sono certa che uno fosse l'altro e viceversa.
non mi freghi elio, ti ho sgamato.

“Rimanete stabili. So che non è gran cosa, ma ce lo facciamo bastare. Non è meraviglioso, essere vivi?“

domenica 15 gennaio 2012

redipuglia, il sacrario

una commozione forte.
un passaggio necessario.
non si può andare in Friuli e non passare di qui, come dalla Slovenia e non andare a Caporetto.
le nuove generazioni sembrano non avere storia alla spalle, solo il mondo virtuale davanti.
e allora diventa due volte necessario, per noi ricordare e per loro imparare.
100.000 salme di soldati della grande guerra sepolti qui, più del 60% ignoti.
questa terra ha dato il suo sangue, con fiumi affluenti da tutta l'Italia, e forse oggi nemmeno ce lo meritiamo.

in piedi, in silenzio.




 








giovedì 12 gennaio 2012

pixar: l'arte ispira la tecnologia e la tecnologia ispira l'arte

"l’arte ispira la tecnologia e la tecnologia ispira l’arte
(John Lasseter)

si tratta di questo: al Pac di Milano, va in scena la mostra Pixar – 25 Anni d’Animazione, che arriva direttamente dal MoMA di New York, con i giocattoli animati, preziosi e spiritosi, della Pixar...che divertimento!
ma non solo.
anche molte scoperte inaspettate, anche tanto stupore per l'infinita creatività dell'uomo.
un intrattenimento divertente quanto istruttivo.
noi si vede il film, si ride in rilassatezza con ratatouille, up, toy story, a bug's life, cars, nemo, gli incredibili, wall e, monsters & co, godiamo del prodotto finito e impacchettato ma ignoriamo l'immenso lavoro creativo che lo sostiene.
è una produzione enorme, una laboratorio analogico di disegni, illustrazioni, video, sculture, prove vituali teche, maquette, proiezioni e sketch originali, che esprimono la sensibilità tecnica e visionaria degli artisti della Pixar e che non potevo nemmeno vagamente immaginare.
qui l'arte sboccia, l'immaginazione si sviluppa, la fantasia vola: c'è un mondo, dietro un film di animazione, che è straordinariamente fecondo.


«Molti non sanno che la maggior parte degli artisti che lavorano in Pixar utilizzano i mezzi propri dell’Arte – il disegno, i colori a tempera, i pastelli e le tecniche di scultura – come quelli dei digital media. La maggior parte delle loro opere» – scrive John Lasseter, chief creative officer di Walt Disney and Pixar Animation Studio e fondatore di Pixar – «prendono vita durante lo sviluppo di un progetto, mentre stiamo costruendo una storia o semplicemente mentre guardiamo un film. La ricchezza del patrimonio artistico che viene plasmato per ogni film raramente esce dai nostri studi, ma il prodotto finale – il lungometraggio – che raggiunge ogni parte del mondo, non sarebbe possibile senza questa fase artistica e creativa».


sembra di camminare in un sogno, nell'atto creativo nella mente di qualcuno: è un percorso eccitante, si vedono e scoprono fasi di lavorazione così articolate, così meticolose, così angolate da creare uno squarcio dentro il film. il percorso illustra tutte le fasi del flusso creativo, dalla matita alla scrittura, alla composizione delle inquadrature ai suoni: si può vedere come il lavoro di una bottega d’arte diventa arte digitale, come le opere esposte rivivano grazie a installazioni che utilizzano la tecnologia digitale. ogni sezione vive ed è arricchita da immagini, disegni, sculture, colorscript che raccontano i processi “nascosti” di realizzazione di un’opera frutto dell’ingegno e della mano collettiva di un team.
ho visto disegni a matita, carboncino, carboncino e lacca per capelli (in un disegno lucido in bianco e nero, luci e ombre, veramente strepitoso), a pastello, a pennarello e matita, dipinti digitali, in acrilico, inchiostro, pennarello e correttore liquido, gouache (tipo acquarello), collage. ho visto di tutto.


c’è un’installazione, lo Zootropio, che permette di vedere muoversi in uno spazio tridimensionale i personaggi di Toy Story, regalando un’anticipazione su quello che sarà il futuro del cinema olografico 3D. la ruota gira velocissima e regala l'illusione della fluidità di movimento, i personaggi saltano ballano ridono cadono da cavallo pur essendo fissi su un disco ma con 18 inquadrature in sequenza. flash sequenziali di luce stroboscopica fissanno l'immagine e la magia si compie: a ogni inquadratura corrisponde un movimento in evoluzione.
e ce n'è un'altra, l'Artscape, in cui i disegni esposti nella mostra e appena visti prendono vita e si animano, vengono percorsi dal movimento, comunicano tra di loro, si fanno attraversare da personaggi e da una natura viva che si progressivamente si illumina...è un'emozione incredibile. è come assistere a una nascita: l'arte figurativa diventa arte digitale.





lungo il percorso della mostra leggevo che, anche se immaginari, i mondi Pixar sono comunque vincolati da regole che tracciano il quadro della narrazione. in Toy Story, sebbene i giocattoli siano vivi, cercano di apparire come dei veri giocattoli agli occhi degli esseri umani, non hanno poteri sovrannaturali e sono limitati dalle loro dimensioni reali. l'idea portante è quella di creare un mondo credibile, ma unico.
il personaggio di un film è unostrumento che permette alla storia di svolgersi e consegna allo spettatore qualcosa cui prestare assoluta attenzione. un buon personaggio è pieno di desideri, aspirazioni, pensieri e passioni, "in un grande personaggio ritroviamo noi stessi e, in quell’istante, scivoliamo via dalla nostra poltrona ed entriamo nello schermo. un personaggio deve avere una dimensione tale da permettergli di vivere oltre i confini dell’inquadratura. i personaggi non si creano semplicemente disegnando gli occhi a un’automobile, ma mettendo pensieri e sentimenti nella sua mente o, per meglio dire, sotto il suo cofano."
allora io dico...pixarizziamoci!

lunedì 9 gennaio 2012

quanto piú puoi

Quanto piú puoi

Farla non puoi, la vita,
come vorresti? Almeno questo tenta
quanto piú puoi: non la svilire troppo
nell'assiduo contatto della gente,
nell'assiduo gestire e nelle ciance.

Non la svilire a furia di recarla
cosí sovente in giro, e con l'esporla
alla dissennatezza quotidiana
di commerci e rapporti,
sin che divenga una straniera uggiosa.

Costantino Kavafis

ho preso l'inserto del corriere della sera, su consiglio di un'appassionata di questo autore, e ho letto le poesie di Kavafis, poeta a me del tutto sconosciuto. di origine greca, vissuto tra la fine dell'800 e i primi del  900, in queste poche righe esprime qualcosa in cui credo molto, la condanna della dissipazione e della sovraesposizione,  il valore della sobrietà e della discrezione che aggiungono valore, che danno senso, che creano il tesoro di noi stessi.

giovedì 5 gennaio 2012

miracolo a Le Havre



l'ottimismo inaffondabile di Aki Kaurismaki potrebbe risultare fiabesco o ingenuo, così a una prima valutazione, ma è, invece, un atto di ribellione necessario ed eroico, di questi clamorosi miserevoli tempi.
il protagonista si chiama Marcel Marx e, naturalmente, non è un caso. una spolverata di socialismo non sarebbe male, un po di marx in giro per il mondo, di antica solidarietà umana, di obsoleto reciproco sostegno, di umili ma rispettabili mestieri, di semplici ma intramontabili amicizie, di silenziosi ma miracolosi amori.
il film però non è la fine del mondo...e mi riferisco a certe accoglienze trionfali che sanno di capolavoro e mi sembrano francamente eccessive. il film è piacevole e salutare, ci sprona a credere nei miracoli una mattina di primavera con i ciliegi in fiore, nelle guarigioni inaspettate di mogli adoratissime e in viaggi oltremanica di giovani ragazzi extracomunitari alla ricerca di un padre, ci invita a cercare nell'alleanza la soluzione ai problemi, ci suggerisce di mantenerci saldi nei nostri valori umani e cristiani, e lo fa con soavità e leggerezza, con tocco ironico e asciutto.
avete mai film un film di Kaurismaki? si riconosce alla prima scena, ma che dico, alla prima inquadratura. e se avevate qualche dubbio, al primo volto, attonito ma sereno, e alla prima parola pronunciata, caustica e disicantata, vi sarete ritrovati nel suo mondo di ottimismo e amarezza.
ecco, i suoi film non sono capolavori ma ci accolgono come a casa, sono la certezza di una visione buona ma non ingenua, confortante ma non retorica.

martedì 3 gennaio 2012

laguna di giorno, la sua luce

Marano, laguna, riserva naturale, fauna acquatica palustre.
acqua e umidità.
aria e nebbia.
luce.
traversa. ambigua. palpabile.
luce grigia.