bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 29 aprile 2013

odyssey


io mi sono trovata molto bene, e dire che son tre ore secche di spettacolo.
e dire anche che è in greco. tuttotutto lo spettacolo: tre ore secche in greco.
sovratitoli in italiano (si dice così?). sopra, non sotto come al cinema.

ebbene, tre ore secche di spettacolo in greco: una vera bellezza.
Odyssey di BobWilson, Piccolo Teatro di Milano. 
geniale, in tutto. 
dalle scene
ai costumi.
dalla lingua originale
alle musiche.
spettacolo netto, pulito, essenziale con immagini convincenti, suoni penetranti, evocazioni emozionanti.
è la storia, si sa, di Odisseo,Οδυσσευς (Odysseus), Ulisse per noi soliti umani, delle sue peripezie, tra il dissenso di Poseidone e la protezione di Atena, tra isole arcipelaghi mare tempeste e naufragi, donne bellissime e innamorate, maghe e ninfe oppure giovani donne scanzonate. la lingua scorre veloce, si insinua tra le pieghe della mente, accarezza le immagini, sostiene l'immaginario, sostanzia e fortifica le scene.
certo, la rappresentazione è snella e leggera, il viaggio veloce ed essenziale. le luci e i cambi di scena sono estremamente efficaci e di effetto. luce blu, luce rossa, aspetti dissacranti, il cane Argo sembra un punk, Scilla sembra uscito da un cartone animato, i compagni di viaggio si muovono come burattini, dominati dagli dei e non dal libero arbitrio, le compagne di Nausicaa starnazzano come oche, Tiresia evoca  immagini cinematografiche, i cambi di scena sono "aperti", non camuffati, operati sul campo sotto gli occhi di tutti. come a dire: questa è una rappresentazione, è uno dei racconti possibili, è una messa in scena per il teatro, visiva e sonora, fatta e confezionata per gli occhi, per essere vista e sentita. chissà, forse Omero potrebbe dissentire, magari il desolatopopolo greco anche, ma l'impatto scenico è molto allettante, piacevole, gustoso.
non mancano scene di grandissima intensità, prima tra tutte il canto delle sirene, un canto viscerale, nativo, neonatale. e poi tutte le scene abitate dalle grandi protagonisti femminili, soprattutto Calipso e Circe, quest'ultima adagiata su un letto di foglie di edera che sembra nato dalla terra, radicato come una pianta. e come il canto  delle sirene, anche questo è un richiamo irresistibile del desiderio, che incatena il ramingo Ulisse, lo allontana dal suo ricongiungimento finale. e come ben sappiamo il desiderio è l'esperienza dell'alterità, è l'eclisse dell'io, il suo scardinamento. il desiderio è la voragine, la vertigine che trascende l'io...e quelle sirene lo sanno, ooohhh come lo sanno...


anche l'impianto narrativo è particolare, parte dalla fine, dall'abbandono dell'isola di Calipso fino al naufragio sull'isola dei Feaci. Ulisse narra la sua storia alla regina Arete che, a sua volta, la narrerà, in flash back, alla figlia Nausicaa, curiosa e attratta da quest'uomo maturo e avventuroso, trovato nudo sulla spiaggia, abbandonato quasi morto tra i cespugli.

è un racconto semplice, come quello che si fa a un fanciullo, ma non per questo impoverito, anzi arricchito dalla bellezza delle scene, dai giochi di luce, dalla pienezza rassicurate del blu, dalla linearità stilizzata delle forme, dalla levità dello sguardo.
tre ore secche, ma carnose e opulente. di grazia. 

lunedì 22 aprile 2013

il sonno della Sicilia, l'insularità d'animo

leggevo domenica sul Corriere della Sera un articolo, nella sezione Cultura, che parlava...del Gattopardo.
articolo del Mereghetti, qui siamo a Milano e si dice così, che presentava l'edizione di un saggio di Anile e Giannice -non so chi siano costoro- sulla presunta posizione di "destra" del Gattopardo e la sua progressiva svolta a "sinistra" grazie alla messa in scena di Visconti nel suo famosissimo film.
ora, a me non è chiaro di cosa si stia parlando, leggo che Montale lodò il libro pubblicato postumo e che invece Sciascia, da siciliano e comunista, si incaricò di accusare il libro di «raffazzonato qualunquismo» e di «astrazione geografico-climatica» e il suo protagonista di «congenita e sublime indifferenza» verso il popolo.
La considerazione di don Fabrizio Salina sul «sonno siciliano», quel sottolineare la speranza che «tutto cambi perché nulla cambi», viene vista come il segno di una visione antistorica, contraria a ogni idea di progresso. Cito dal Mereghetti, il 21 aprile 2013.
mi fermo qui perchè l'articolo è illeggibile e privo di interesse, almeno per la lettura che, di questo romanzo, ne ho fatto io.
il Gattopardo è il libro della e sulla perdita, quotidiana, personale, intima, simbolica, storica, cosmica, universale. la perdita che ricorda ogni santo giorno che dobbiamo morire. Don Fabrizio è una figura colossale e fragilissima, mastodontica e insabbiata, integerrima ma ineluttabilmente malinconica. un aristocratico decadente immerso nella quotidiana tortura della nostalgia e dell'incolmabile mancanza. come il tufo che si sgretola al sole e al vento. 
il suo discorso, al deputato piemontese che viene a proporgli una candidatura in senato, sul sonno siciliano è l'apoteosi della bravura narrativa, della sottilissima intelligenza, della lettura sagace, sull'ineluttabilità della morte. sull'inedia, dell'accidia, sul rallentamento mortifero, sul sole assassino, sul destino senza speranza, sull'isularità d'animo.
destra? sinistra? mioddio, stiamo parlando di vita e di morte, di pienezza e di vuoto, non di tediosissima politica. 
non contaminiamo il sacro con discorsi imbecilli.

- Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i piú bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto. 
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l'ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero autentiche vecchie tradizioni. 
Disse: - Ma non le sembra di esagerare un po', Principe? Io stesso ho conosciuto a Torino dei siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt'altro che dei dormiglioni. 
Il Principe si seccò: - Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semidesti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma lei forse potrà vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso torpore: lo fanno tutti. D'altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l'ambiente, il clima, il paesaggio siciliano. Queste sono le forze che insieme e forse piú che le dominazioni estranee e gli incongrui stupri hanno formato l'animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'arsura dannata, che non è mai meschino, terra terra, distensivo, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l'inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina; questo clima che c'infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l'energia che dovrebbe essere suffficiente per tre; e poi l'acqua che non c'è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora le pioggie, sempre tempestose, che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lí dove due settimane prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d'arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d'imposte spese poi altrove: tutte queste cose hanno formato il carattere nostro, che cosí rimane condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità d'animo.

domenica 21 aprile 2013

l'Ingravallo pensiero

a me, il pensiero molisano di Ingravallo, don Ciccio, l'investigatore di Gadda nel Pasticciaccio brutto de via Merulana, a me...me piace.
don Ciccio è brutale, schietto, cupo, viscerale. nero.  intelligente e intuitivo.
la Liliana è morta, morta ammazzata, e male anche, sgozzata con un coltello da parte a parte, un taglio che le ha mozzato a metà il collo...una scena...una violenza. e perchè mai? don ciccio indaga, in molisano, indaga e cerca indizi. Liliana aveva un pensiero fisso, una psicosi come dice nel testo. non aveva avuto figli dal marito, lei bella e ricca, lei nata per essere madre, lei fertile, lei tutto...frustrata a morte, proprio a morte?, nel suo unico desiderio: la maternità. ma guarda, una ha tutto quel che la vita può dare, ma è sempre una cosa che manca, sempre quella che non si ha. ma guarda..."di che è mancanza questa mancanza, cuore, che ha un tratto ne sei pieno?" scrive Luzi.
bene,il mio don Ciccio, tosto e scuro come sempre, ci pensa su, ci pensa a sta cosa della mancanza, a sta cosa della fertilità, a sta cosa del pensiero gamico, a sta cosa della donna e dell'uomo, a sta cosa del senso dell'unione fertile, a sta roba della fissazione che aliena, che fa impazzire, che fa morire...e quante di queste follie ci sono in giro, per il mondo, e a casa propria...

Ingravallo pensava: pensò perfino che il Natale, che il Presepe, che la Befana... coi loro bimbi, con le loro strenne, coi magi... con quella raggera di fili d’oro sotto al Bambino...paglia al presepe, luce della divina scaturigine... potessero aver addensato, come in un nembo mentale, certe fissazioni malinconiche della signora: 12 gennaio. La povera testatrice [Liliana ha lasciato un testamento olografo], in quel punto, non doveva avere tutti i sentimenti a posto. Mannaggja: eppure...eppure aveva mantenuto le disposizioni prese: nulla aveva mutato, nemmeno in seguito, in febbraio, in marzo: nemmeno una sillaba. Perciò anzi aveva affidato il testamento a don Corpi, raccomandandogli di «nasconderlo e dimenticarlo».
Formula enigmatica: già chiara a don Ciccio, però: dimenticarlo quanto la durata di sua vita, come bramasse di vedere sepolto al più presto quel turpe elenco di averi: quelli che soltanto nell’ultimo smarrimento di sé le era conceduto di disperdere: quelli che la riconducevano a ogni nuovo giorno verso gli obblighi e verso le ragioni inani del vivere, mentre già l’anima tendeva a una sorta di espatrio (la cara anima!) dal paese inutile verso matemi silenzi. La città e le genti avrebbero conosciuto il futuro. Lei, Liliana...
Oblioso dei banchi e dei gridi, con brevi ali di opale, nell’ora dolce, quando ogni commiato è necessario e ogni già tepido muro trascolora nella notte, Ermes apparitole nella sua vera essenza avrebbe alfine risguardato alle porte, con tacito imperio: quelle da cui ci si parte, alfine, fabulando popolo ad urbe, a discendere, discendere, in una più perdonabile vanità. «Evasi, effugi: spes et fortuna valete: nil mihi vobiscum est: ludificate alios:» al museo lateranense: un sarcofago: Liliana aveva ritenuto chella frase: lo aveva pregato di tradurla. Quel dare, quel regalare, quel dividere altrui! pensò Ingravallo: operazioni, a suo modo di vedere, tanto disgiunte dalla carnalità e in conseguenza dalla psiche della donna (femminuccia, credeva lui di certuna, borghesuccia) che tende viceversa a introitare: a elicitare il dono: a cumulare: a serbare per sé o per i figli, bianchi o neri, o caffelatte: o comunque a sciupare e a dissolvere senz’altrui donare, mandando a fumo centomila carte nel culto di sé, del proprio collo, del proprio naso, dei lobi o dei labbri, mai però e don Ciccio si accaniva, in una maniera di prestatuito delirio mai però in onore delle concorrenti: e tanto meno delle rivali più giovani.
Quel buttare, quel dissipare come petali al vento o come fiori nel ruscello tutte le cose che più contano, le più tenute a chiave, le lenzuola! contrariamente alle leggi del cuore umano che, se regala, o regala a parole, o regala il non suo, finirono di rivelargli, a don Ciccio, l’alterazione sentimentale della vittima: la psicosi tipica delle insoddisfatte, o delle umiliate nell’anima: quasi, proprio, una dissociazione di natura panica, una tendenza al caos: cioè una brama di riprincipiar da capo: dal primo possibile: un «rientro nell’indistinto». In quanto l’indistinto soltanto, l’Abisso, o Tenebra, può ridischiudere alla catena delle determinazioni una nuova ascesi: la rinnovata sua forma, la rinnovata fortuna. Valevano ancora a Liliana, era pur vero, le potenti inibitive e, più, le coibitive della Fede: gli enunciati formali della dottrina: il simbolo operava come luce, come certezza.
Irradiata nell’anima. così rimuginava Ingravallo. I dodici lemmi avevano avuto per effetto di incanalare la di lei psicosi verso l’imbuto di un testamento olografo perfettamente legale. Il bilancio della morte era chiuso al centesimo. Al di là del confessore, e notaro, i limpidi spazi della Misericordia. O, per altri, l’ignota libertà del non essere, gli evi liberi.
La personalità femminile brontolò mentalmente Ingravallo quasi predicando a se stesso che vvulive dì?... ‘a personalità femminile, tipicamente centrogravitata sugli ovarii, in tanto si distingue dalla maschile, in quanto l’attività stessa della corteccia, int’ ‘o cervello d’ ‘a femmena, si manifesta in un apprendimento, e in un rifacimento, d’ ‘o ragionamento dell’elemento maschile, si putimme chiamarle ragionamente, o addirittura in una riedizione ecolalica delle parole messe in circolo dall’uomo ch’essa ci ha rispetto: da ‘o professore, da ‘o commendatore, da ‘o dottore de ‘e femmene, da l’avvucate ‘e lusso, o da chillo fetente d’ ‘o balcone ‘e palazzo Chigge. La moralità individualità della donna si rivolge per addensamenti e per coaguli affettivi al marito, o al facente funzione, e dai labbri dell’idolo dispiccica l’oracolo quotidiano della sottintesa ammonizione: ché uomo non è, che non si senta Apollo nel sacello delfico. La qualità eminentemente ecolalica della di lei anima (il concilio di Magonza, nel 589, le concesse un’anima: a un voto di maggioranza) la induce a soavemente farfallare d’attorno al perno del coniugio: plastile cera, chiede dal sigillo l’impronta: al marito il verbo e l’affetto, l’ethos e il pathos.
Donde, cioè dal marito, il lento e greve maturare, il discendere doglioso dei figli. Mancandole i figli, sentenziò Ingravallo, il marito cinquantottenne decade senza suo demerito a buon amico ma di gesso, a ornamento piacevole della casa, a delegato e segretario generale della confederazione dei sopramòbili, a mera immagine ovvero cioè manichino di marito: e l’uomo in genere (nel di lei apprendimento inconscio) è degradato a pupazzo: un animale infruttifero, con un testone finto da carnevale. Un arnese che non serve: uno sdipanato succhiello.
È allora che la povera creatura si dissolve, come fiore o corolla, già vivida, che renda al vento i suoi petali. L’anima dolce e stanca vola verso la crocerossa, nell’inconscio «abbandona il marito»: e forse abbandona ogni uomo in quanto elemento gamico. La personalità di lei, strutturalmente invida al maschio e solo racchetata della prole, quando la prole manchi accede a una sorta di disperata gelosia, e, nel contempo, di sforzata “sympatia” sororale nei confronti delle cosessuate.
Accede, potrebbe credersi, a una forma di omoerotia sublimata: cioè a una paternità metafisica. La dimenticata da Dio, e Ingravallo smaniava oramai di dolore, di rancura accarezza e bacia nel sogno il ventre fecondo delle consorelle. Guarda tra i fiori de’ giardini i bambini delle altre: e piange. Si rivolge alle monache e agli orfanatrofi pur di avere la «sua» creatura, pur di «fare» anche lei il suo bambino. Intanto gli anni chiamano, dalla lor buia caverna. 
La carità educatrice, d’anno in anno, ha surrogato la fiala soave dell’amore.

giovedì 18 aprile 2013

le città sottili


un messaggio assai gradito 
all'Arte Accessibile mi ha invitato.
c'erano quadri eventi esposizioni
ma le città sottili di Ruiz m'han procurato emozioni
alla fine l'ho comprato
d'arte accessibile si è ben trattato!

va bene, dopo questo ridicolo incipit, volevo solo dire che venerdì sera mi sono portata al palazzo del Sole 24 Ore di milano, bel palazzo e vicino a casa mia, in seguito a un grazioso e inaspettato invito.
sono andata ignara di tutto, solo con una vaga idea: arte, bene, accessibile, in che senso?, Sole 24 Ore, bel posto.
e in effetti è stata una gran bella sorpresa.
bel posto, molto movimento, molti quadri, disegni, fotografie, esposizioni, direi arte in genere, progetti artistici, innovazioni, idee. parlando in giro capisco che l'idea portante dell'evento è quello di dare l'opportunità a giovani e squattrinati ed emergenti artisti di sfruttare, nell'ambito del salone del mobile, uno spazio espositivo altrimenti inaccessibile, e di dare al pubblico la possibilità di incentivare tali progetti innovativi acquistando le opere dei talentuosi artisti, quando tali, a prezzi...accessibili.
girovagando la mia attenzione si è fermata in varie direzioni, ma senza particolari emozioni, ma, a un certo punto, mi sono imbattuta in un angolo con dei disegni, per lo più in bianco e nero, qualche nota di colore giallo o rosso ma solo in sfumatura, riportanti luoghi abitativi ascendenti, ascensionali, fumosi, delle cucine antiche e future, in un paesaggio indistinto e onirico, accompagnati da una presentazione, scritta a mano sul muro, disordinata e storta, che citava Italo Calvino e le sue città Sottili delle sue Città Invisibili.
Zenobia.
so di cosa si tratta, e leggo.

Le città sottili
Zenobia
Ora dirò della città di Zenobia che ha questo di mirabile: benchè posta su terreno asciutto essa sorge su altissime palafitte, e le case sono di bambù e di zinco, con molti ballatoi e balconi, poste a diversa alteza, su trampoli che si scavalcano l'un l'altro, collegate da scale a pioli e marciapiedi pensili, sormontate da belvederi coperti da tettoie a cono, barili di serbatoi d'acqua, girandole marcavento, e ne sporgono carrucole, lenze e gru. Quale bisogno o comandamento o desiderio abbia spinto i fondatori di Zenobia a dare questa forma alla loro città, non si ricorda, e perciò non si può dire se esso sia stato soddisfatto dalla città quale noi oggi la vediamo, cresciuta forse per sovrapposizioni successive dal primo e ormai indecifrabile disegno. Ma quel che è certo è che chi abita Zenobia e gli si chiede di descrivere come lui vedrebbe la vita felice, è sempre una città come Zenobia che egli immagina, con le sue palafitte e le sue scale sospese, una Zenobia forse tutta diversa, sventolante di stendardi e di nastri, ma ricavata sempre combinando elementi di quel primo modello. Detto questo, è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.

bene, anzi splendido, detto e fatto.
i disegni sono magnetici, l'artista è un giovane cubano, Ramor Ramirez Ruiz, RRR, che ha cominciato a disegnare case che salgono verso il cielo come il fumo delle loro cucine, e spesso ci sono pentole qua e là, in seguito alla crisi energetica cubana. sembrano paesaggi di Dalì, c'è solitudine e isolamento, c'è un'immagine di futuro che ho già visto molte volte con mia grande fascinazione, un futuro fatto delle macerie del passato, un futuro fatto di antichi monumenti,  di ciminiere e torri e muri disfatti, fatto della memoria dell'uomo, un uomo che non ha fatto sopravvivere niente a se stesso, se non la propria memoria.
mi piace e mi piace il riferimento a Calvino.
non ho trovato niente di niente sul web, a parte la foto, che non rende giustizia, del quadro che ho comprato,  e qualcosa che però non rende l'idea della bella idea espressiva di questo artista.



lunedì 15 aprile 2013

the little black jacket

Dopo Tokyo, New York, Londra, Parigi e Berlino, questo evento speciale approda a Milano, svelando la tappa successiva della mostra attraverso la quale la Maison CHANEL celebra i valori della Marca: la creatività, la modernità e l’eccellenza. 
Il pubblico potrà scoprire, attraverso le fotografie scattate da Karl Lagerfeld, la versatilità e l’atemporalità dell’iconica giacca CHANEL, indossata da una serie di personaggi – “amici” della Maison – che hanno interpretato il capo a seconda del proprio stile inimitabile.  
 Eccezionalmente saranno esposte nuove fotografie di personaggi celebri come Keira Knightley, Diane Kruger, Carla Bruni, Carole Bouquet e Hilary Swank, ognuno dei quali interpreterà lo stile iconico della Maison, svelandosi per la prima volta. 







anche la rotonda della Besana è un gran bel posto di Milano.
diventato tempio della bellezza più glamour in occasione di questa esposizione di moda così gaia e incurante del tempo del passa, che si fa gioco, apparentemente e vivaddio, delle brutture del mondo.
"frivolizzazione permanente", ho letto, e cito Vargas Llosa.
giacca Chanel nera, traduzione volgare del ben più nobile "little black jacket", classico dei classici, indossata dalla bellezza, femminile e non. Più di 100 foto in rigoroso bianco e nero, ritratti singoli e singolari.
bellezza come immortalità.
bellezza come cultura.
bellezza come fede.
ma io mi dico invece, che anche la bellezza è mortale, quella umana, e, di fatto, simbolica oltre il reale. e che anche la bellezza può essere un fardello insopportabile. avrei voluto chiedere a ognuna di queste meravigliose persone così cariche di quell'io iconico cosa se ne fanno di questo enorme significante, la bellezza, come lo portano addosso, come  lo vivono, come lo pensano, come lo vestono, come lo usano, come lo hanno preso in eredità, come simbolo genitoriale, come lo maledicono o benedicono, al di là della foto, dell'immagine venduta come vera al fotografo Karl Lagerfeld -che a vederlo un attimino per bene e da vicino mi da proprio l'impressione di uno che i conti con il tempo che passa proprio non li sa fare-.
come per ogni statuto che abbiamo preso dai nostri genitori, per ogni significante che abbiamo portato come tatuaggio dalla nostra nascita, anche dalla bellezza dovremmo essere capaci di "separarci" per come ce l'hanno consegnata, per poi riprendercela alla nostra maniera, non portata ma vissuta, non ereditata ma interiorizzata. dovremmo sapercene fare qualcosa, dopo essercene sbarazzati, della nostra bellezza.
lo chiederei volentieri, ammesso di ricevere qualche risposta.
di solito ci si accontenta di tanta generosità, al di là delle domande.

domenica 14 aprile 2013

sensational umbria

Nell’ambito del Fuori Salone 2013, a partire dal 9 aprile a Milano, Steve McCurry presenta in anteprima mondiale Sensational Umbria!, ovvero 100 scatti d’autore con i quali il grande fotografo di National Geographic racconta - accettando la proposta della Regione - l’Umbria, il suo territorio e i suoi abitanti. Un progetto che, nei prossimi anni, contribuirà a diffondere a livello internazionale l’immagine della regione. La mostra è allestita nel cortile napoleonico della Pinacoteca di Brera: una speciale installazione ospiterà dieci immagini (su cinque supporti della misura di tre metri per due) scattate dal fotoreporter americano e realizzate in esclusiva per la Regione Umbria. 

Sensational Umbria: Photography © 2012 Steve McCurry








allora, se avevo espresso dei dubbi sull'utilità colore nell'arte della fotografia, mi è bastato guardare, e rivedere ancora una volta, le foto di Steve McCurry alla Pinacoteca di Brera giovedì sera -serata infernale per molti aspetti in primo luogo per l'assedio alla città dei visitatori in e fuori orario del salone del mobile- per dirmi che ho detto e scritto un'irruenza, una delle mie. credo che questo fotografo il bianco e nero non lo abbia mai usato in vita sua. invito chiunque a farsi un giro sul suo sito per capire cos'è la fotografia e la sua immensa potenzialità. oltre che di bellezza e talento, proprio di COLORE.
l'Umbria è bella già di suo, così è un miracolo della natura e dell'arte.

venerdì 12 aprile 2013

questa stanza che ti pensa, in cui non sei mai venuta


cosa dire di questo autore cinese che scrive poesie?
alcune, tra le sue che ho letto, mi sono piaciute tanto.
e mi sono anche sforzata, sul testo della rivista che le riportava, di guardare i segni della sua scrittura originale. il cinese.
perchè?
perchè nel corso di psicoanalisi di quest'anno c'è una sezione dedicata allo studio di Lacan della scrittura cinese, scrittura che è, diceva, nella sua struttura grafica e non alfabetica, un insegnamento all'ascolto dell'alterità "spaesante". si direbbe che nella scrittura cinese ci sia da ritrovare un simbolo, quella della fecondità, quello della differenza sessuale. la scrittura cinese, non alfabetica e non fonetica, non  intercetta solo la voce ma anche lo sguardo, dove voce e sguardo sono i due oggetti pulsionali che Lacan ha trovato oltre a quelli identificati da Freud. la scrittura cinese è grafica, artificiale, è "la cosa", ha un'origine divinatoria e predittiva, è stata ritrovata, come cosa preesistente alla creazione, come racconta una delle tante storie mitiche che ne narrano la comparsa nel mondo, sui gusci delle tartarughe e ossa oracolari. secondo i cinesi prima non c'era il verbo...ma la scrittura, il segno scritto: la scrittura c'è, da sola, esiste per sè, non è stata funzionale all'uomo, ma ed esso preesistente, non creata ma interpretata. secondo Lacan la psicoanalisi ha sempre a che fare con la scrittura, perchè esiste sempre una scrittura cui siamo stati esposti, la scrittura simbolica in cui siamo nati e che ci portiamo tatuati sulla nuca, ovvero dove non la possiamo leggere ma che ci segna indelebilmente. una storia affascinante...che ancora devo sentire fino in fondo...

Yang Lian, considerato una delle più belle e autorevoli voci della poesia moderna, è nato a Berna 1955, ma poco dopo segue la fami­glia di ritorno in Cina. Ini­zia a scri­vere poe­sie nel 1976 e circa tre anni dopo pub­blica in una rivi­sta indi­pen­dente. Nel 1989, dopo molti viaggi all’estero, è costretto a un lungo periodo di esi­lio, per aver con­dan­nato pub­bli­ca­mente le scelte del Governo cinese a seguito degli avve­ni­menti di Piazza Tie­nan­men. Nel 1994 decide di sta­bi­lirsi a Lon­dra, dove attual­mente vive e lavora. Le sue opere sono state tra­dotte in 25 lin­gue. In Ita­lia, i suoi versi sono stati pub­bli­cati da Einaudi nell’antologia “Nuovi poeti cinesi”, nel 2004 è uscita la rac­colta “Dove si ferma il mare” per Scheiwil­ler. È uno dei vin­ci­tori del Pre­mio Nonino 2012.
detto questo, tratto da qualche blog o wikipedia, mi dico ancora che le sue poesie hanno un fascino, come la scrittura che le compone.

Dove si ferma il mare 

Sopra il mare asfaltato un uccello bianco come un fantasma

annusa la riva qual faro si ferma proprio
a sinistra dove incontrammo una morte accidentale

sul mare asfaltato c'è ancora un aratro spezzato

cent'anni col precipizio di una lapide
ridipingono i nostri nomi
sul bordo del tavolo di roccia rossa siamo visti a pranzo
acqua di mare il falò di aghi di pino verde smeraldo riscalda lo scheletro
mostra tutti i denti corrosi dalla ruggine danza

la punta aguzza del tempietto viene mescolata a questa notte di ogni agosto
pioggia tempestosa lettura obbligatoria nella lezione della morte


Già letto

nei cimiteri cinesi i pini respirano così come crescono
ma il vento cambia tranquillo la direzione della giornata
l'aratro va avanti e indietro fino alla fine del campo
verde fertile libro di agosto
la vita semina i semi dei morti

la notte tutte le stelle viaggiano in un pozzo di giada

per tutta l'estate leggi una biografia
l'ombra del pino è immersa nell'acqua
una sedia piena d'acqua è incisa in un bassorilievo
il mare lontano va in collera da solo
canti di uccelli inondano il cielo quasi non cantassero
leggi come se non avessi letto niente

c'è solo l'arte che scuote un pomeriggio e lo rende nero

Ricordo di una ragazza

un respiro profondo    poi gli occhi chiusi
e tu vieni nella mia stanza
al tempo dell'estate     vi sono dita di canzoni nei boschetti
e i tuoi piedi    ricordo di un cimitero silenzioso

no   non chinarti a guardare le lapidi
cercano maliziosamente   un nome identico al tuo
non bisbigliare a loro   né ridere
con quella risata che una volta anche gli altri ricordavano

no    no    quello non è
il terreno erboso dove prendesti il sole
un tappeto verde, un tessuto di nove anni saturo di luce
la pietra non capisce tutto ciò che amasti così profondamente

i nomi sparsi tutto intorno     come la brezza più fievole
che viene da te     e sogna oltre il tuo respiro
dimenticato sotto il terreno poco distante
o assai distante    entrando in questa stanza che ti pensa,
    in cui non sei mai venuta


L'altezza del sogno

non ti ricordi il sogno     solo la sua altezza
fa tremare la carne della tua carne
uccelli nei tempi più quieti sono in imminente pericolo
sotto i colpi di martello del chiaro di luna
il giardino intorpidito si annusa
sul pavimento argento frantumato, vertiginoso come mai
non ti ricordi       ma l'uomo nel sogno
fu sollevato nel cielo per una costola
e come musica barcollante cammina ancora là

qualche volta un sogno si prolunga più di una vita
qualche volta è solo uno strapiombo      che vi fa invecchiare
di diversi anni     anni bui-
se il buio deve sostenervi


la parola come evento sfugge e scompagina il codice del linguaggio. per Lacan è la poesia il luogo dove la parola si manifesta come pura singolarità, come pura trascendenza dal codice stabilito del linguaggio.
il poeta usa il codice ma lo sconvolge. lo scompagina,  lo traumatizza, lo dissesta mentre lo usa.
il grande poeta è figlio e orfano ed erede del linguaggio perchè in ogni parola poetica c'è sovversione del linguaggio.
ognuno di noi avrebbe la responsabilità di creare l'evento della parola singolare, l'evento della propria poesia.


I disegni sono di Shitao.

giovedì 11 aprile 2013

le testimonianze e i modulati accertamenti linguaticopalatalifaringoesofagici d’una introduzione dionisiaca

l'ho comprato e poi ho cominciato ad ascoltarlo.
sicuramente la lettura d'altri non è come la propria, soprattutto se l'altro è un attore, che sia Servillo o Gifuni o Piera degli Esposti o Maddalena Crippa.
no non è la stessa cosa, e credo che sia di più.
qualcuno mi ha fatto notare che non è valida, una lettura d'altri non è valida. come a dire che sia una lettura impropria. impersonale. inautentica.
non so, a me fa molto bene. mi cambia la giornata, mi salva la vita, mi regala serenità e sorrisi e riflessioni.
leggevo, ascoltavo e sapevo bene che questa volta la scelta l'avevo fatta su una precisa indicazione, di uno di cui mi fido.
trattasi di Severgnini, trattasi di articolo su La lettura, trattasi di una breve trattazione sulla bellezza della brevità e di una citazione nel suddetto articolo.
peraltro una citazione che confuta il senso della trattazione, Gadda è tutto tranne che conciso.
Gadda è un giocoliere, un acrobata su un filo, un mago della parola. sento, avverto, percepisco un gusto inestinguibile nella ricerca dell'espressione verbale più ricca più pericolosa più sensazionale possibile. avverto un fanatismo fonetico, un'esasperazione riverberante. la parole rotolano, si inseguono, si creano l'un l'altra, si potenziano, si inventano da sole. non ho mai letto niente di simile, è veramente funambolico nel suo paziente reticolo di invenzioni lessicali, onomatopee, allitterazioni, assonanze, un gioco colto con il suono delle sillabe. forse leggendo Nabokov, la sua Lolita, ho percepito un senso simile, una creazione fantasmagorica del discorso, la reinvenzione della lingua inglese da parte di un russo,la progressione della parola che tocca l'infinito, che va oltre la finitezza del verbo. 
Gadda scrive in romanesco se la dobbiamo prendere alla leggera...e se ride alla granne, passa al molisano del suo protagonista dott. Ingravallo comm'aggia a pensà, si sposta all'inflessione veneta della sig.ra Menegazzi traumatizzata ...Mària Vergine! El me gaveva ipnotisà.. se si tratta di caratterizzare, e punta su un italiano colto, serio, sottilmente sarcastico quando si sposta con la telecamera sul paesaggio italiano degli anni venti, sulla descrizione demolitiva del fascio e dei suoi retorici armamentari. è una giostra di inflessioni sfumature e prese di posizioni grazie all'uso del linguaggio: la nuova resurrezione della Italia si aggiungeva a una rinascita poco tegumentata nelle specie naturali, e nelle pittoriche o poetiche di cui la notò il mondo come infame a un tempo ed insigne: e teneva dietro, dandosi l’aria di conchiuderlo pel meglio, a un risorgimento un tantino troppo generoso nel disprigionare pathos dal pelame de’ suoi trovieri capelluti, o barbuti, o lautamente baffuti, o gloriosi discopettoni o basette, bisognosi tutti, comunque, a gusto nostro, delle radicali cure di un figaro dalle drastiche forbici..
geniale. 
se penso alla letteratura moderna, all'italiano che si legge oggi, anche in autori di successo, allora penso che abbiamo perso molto forse tutto. il virtuale ammazza ogni cosa, di certo la parola il discorso il messaggio la creatività e la ricchezza verbale.
ecco l'articolo, ecco Severgnini ed ecco la mia attuale audio lettura.

I vantaggi della concisione (escluso questo articolo) 
ELOGIO MORALE DELLA BREVITA' 
Da Tacito a Twitter la sintesi è bella e generosa. Regala tempo a chi legge.

Ho scoperto la sintesi una mattina d’inverno del 1970, nella stanza d’angolo di un palazzo d’epoca di Crema, affittato dal liceo-ginnasio Alessandro Racchetti per alloggiare quattro classi di movimentati adolescenti. Il nostro movimento non era politico, bensì sportivo; e rivendicava i propri diritti.

Nell’intervallo giocavamo a calcio in cortile e avevamo ottenuto, in caso di parità al suono della campanella, di poter disputare i supplementari. Mi piaceva giocare a calcio, almeno quanto scrivere. Avevo strane idee in materia: ero convinto che la qualità dipendesse dalla quantità e dalla complessità. Arrivare alla quarta facciata del foglio di protocollo, nei compiti in classe, era una sfida. Sceglievo ogni polisillabo che mi avvicinasse all’obiettivo. La mattina, prima di uscire di casa, aprivo a caso il vocabolario e sceglievo tre parole insolite — per esempio «palese», «criptico» e «allegorico» — e le includevo nel componimento. Il tema assegnato era irrilevante. Il progresso? «È palese il collegamento tra progresso e istruzione. Può sembrare criptico solo a chi rifiuta il valore allegorico di alcuni personaggi letterari». La famiglia? «Il ruolo del padre è allegorico. Un riferimento palese e costante per i figli, un ruolo criptico per l’interessato». Un quattordicenne che scrive in questo modo va affidato subito a uno specialista. Ma erano tempi confusi, e molti insegnanti amavano lasciarsi ingannare.
Non la mia professoressa d’italiano, Paola Cazzaniga Milani (veniva da Milano, cosa che a tredici anni mi appariva interamente logica). Ricordo ancora quel compito in classe. Un lungo tema sulla libertà, che avevo farcito di inutili roboanti vocaboli, mi fruttò un misero 6. Un compagno di classe di notevole intelligenza e scarso impegno — alle medie producevamo insieme fumetti ciclostilati e costringevamo i parenti all’acquisto — scrisse solo una frase: «Libertà è il cielo azzurro qui fuori, incorniciato dalla finestra. Fa male guardarlo, chiuso in quest’aula. Meglio convincersi che è una fotografia». Voto 9, lettura in classe.
Non provavo invidia (è un sentimento di cui non sono mai stato capace). Ero sconvolto. La professoressa Milani lo capì e mi chiese di restare dopo la lezione. Disse soltanto: «Ricorda: meno è meglio». Da quel giorno, nei miei temi, solo avverbi svelti, un aggettivo alla volta, mai due «che» nella stessa frase. Mai superare la seconda facciata, per nessun motivo.
Ancora oggi scrivo — spero di scrivere — nello stesso modo. La sintesi è una spremuta di pensiero: fa bene alla salute mentale. Aiuta a capire e a far capire. È un lavoro che facciamo per qualcun altro: ce ne sarà riconoscente. Nella scrittura — in tutte le forme di comunicazione — le parole superflue non sono inutili: sono dannose. Non condivido, perciò, le preoccupazioni di Carlo Bordoni che recentemente, qui su «la Lettura», ha scritto: «Abbiamo inventato la logica binaria per far funzionare i computer e ora quella stessa logica inflessibile e stringata nella sua meccanicità ci insegna e ci governa».
Non capisco perché autori di qualità — Massimo Gramellini e Michele Serra, Francesco Piccolo e Jonathan Franzen — si siano scagliati contro la sensuale costrizione dei 140 caratteri. Twitter non è un’alternativa ad altre forme di espressione. È uno strumento nuovo. Un decespugliatore del pensiero. ...
Conoscete ragazzi che leggono Carlo Emilio Gadda, campione del plurilinguismo facondo? Io no. Stiamo parlando di un fuoriclasse, sia chiaro. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è un capolavoro che ha lasciato a bocca aperta anche un autore (sintetico) come Pier Paolo Pasolini. Sto ascoltando l’audiolibro recitato da Fabrizio Gifuni: uno spettacolare esercizio di bravura. Un testo mozzafiato,ma faticoso (Emilio Cecchi definì Gadda «un Joyce con una forte base di preparazione nelle scienze fisiche e meccaniche»). Il Pasticciaccio è un’opera molto lodata e spesso ricordata; ma ostica e poco conosciuta. L’avessi proposto a una ragazza nel 1973, avrei rischiato l’ostracismo. Quarant’anni dopo il rischio è immutato: ragazzi, non fatelo. 
...
Sintesi è una parola greca (da syn, che significa «con», e thésis, che significa «posizione») che significa «composizione» (l’azione di mettere insieme). È, quindi, un destino etimologico: la composizione ha il dovere d’essere sintetica, quand’è possibile. Nessuno aveva intuito, vent’anni fa, quanto i messaggi di testo (sms) avrebbero cambiato la nostra vita. Insieme alle mail e ai social network hanno riportato la scrittura al centro della comunicazione: non accadeva dall’Ottocento. E scrivendo la brevità rende, perché è costretta ad arrivare all’essenziale. Uno sforzo che risparmiamo al destinatario, il quale ce ne sarà grato.
La forza dell’onda sintetica è evidente in altri fenomeni: l’ubiquità delle sigle, il successo delle contrazioni, la marcia della «k» contro il «ch», la lenta agonia della «i» afona (efficiente). Resistere non è eroico: è inutile e sbagliato. La lunghezza gratuita merita d’essere sconfitta. Anzi, punita. Spesso, infatti, è una forma di pigrizia. «Se avessi avuto più tempo, avrei scritto una lettera più breve», si scusò Blaise Pascal (uno dei tanti autori cui viene attribuita questa frase). Prolissità e complessità, spesso, sono sintomi di confusione e pavidità: molti non si fanno capire perché temono di essere capiti. La bella brevità è onesta, utile e generosa: non garantisce soltanto chiarezza ed efficacia, ma regala tempo a chi legge.
La «Columbia Journalism Review» ha diffuso i dati relativi al giornalismo longform negli Usa. Dal 2003 al 2012, gli articoli superiori alle 2.000 parole sono diminuiti dell’86 per cento. Non è una tragedia, è un progresso. Se poi, ogni tanto, vogliamo leggere lungo, nulla lo vieta.
Oggi, per esempio, l’avete fatto. Siete arrivati qui dopo 1.830 parole, e vi ringrazio.
Beppe Severgnini

apprezzo il parere di  Severgnini -e lo ringrazio per la preziosa indicazione che ho colto al volo- ma non ne condivido tutta la portata. penso, come dicevo, che twitter tolga tutto l'immaginabile, è una faccenda che non ha a che vedere con la sinrtesi, ma con la povertà. e soprattutto non ha a che vedere con linguaggio se non nel senso della sua paurosa desertificazione.
la brevità non mi appartiene, non ne sono capace, ma la apprezzo, almeno in certi contesti. spesso la invidio. mi sono ritrovata ad ascoltare, pure da un'amica, elogi patologici della complessità, come se la complessità avesse dei pregi, se non quella di non farsi comprendere. chi sa quel che dice sa parlare, sa farsi capire, sa di ciò di cui sta parlando al punto di farlo capire agli altri, semplicemente. è poco? da quando non capire quel che si ascolta è sinonimo di ricchezza o di profondità? ma che discorso è? malato, fanatico, non condivisibile.  ed eccolo Gadda, mi fa impressione...

La Menegazzi, ravviati i capelli, entrò di nuovo in scena, tossendo leggermente. Un gran foulard lilla attorno al collo, che sul davanti appariva scarno e appassito: un tono languido di tutta la traumatizzata persona. Un  negligé un po’ imprevisto, tra giapponese e madrileno, tra la mantiglia e il chimono. Un baffo bleu sul volto piuttosto vizzo, la pelle pallida, come d’un geco infarinato, le labbra fatte di due cuori congiunti smaltate in un rosso fragola dei più procaci, le conferivano l’aspetto e il prestigio formale momentaneo d’una tenutaria od ex frequentatrice d’una qualche casa d’appuntamenti un po’ scaduta di rango: non fosse stato invece quel tanto di neovirginale e di rasciutto, e la tipica sollecitudine devozione delle indelibate, a collocarla senza preventivo sospetto nel romantico elenco delle disponibili, oltreché donne per bene. Era vedova. La mantiglia vestaglia si soprapponeva al foulard, ai foulards anzi, non uno ma due, incipriati loro pure e vagamente modulati nei toni, che sfumavano il primo nel secondo e il secondo nei tenui pétali, o forse farfalle, di quel chimono un tantino castigliano. Accavallò il suo referto a quello della portinaia, dirizzando, precisando. Interloquiva con un tremito nella voce, nella povera voce, con una speranza negli occhi. Non forse la speranza di riavere i suoi ori, ma la certezza... di usufruire della protezione della legge, così validamente impersonata da Ingravallo.


Il corpo della povera signora giaceva in una posizione infame, supino, con la gonna di lana grigia e una sottogonna bianca buttate all’indietro, fin quasi al petto: come se alcuno avesse voluto scoprire il candore affascinante di quel dessous, o indagarne lo stato di nettezza. Aveva mutande bianche, di maglia a punto gentile, sottilissimo, che terminavano a metà coscia in una delicata orlatura. Tra l’orlatura e le calze, ch’erano in una lieve luce di seta, denudò se stessa la bianchezza estrema della carne, d’un pallore da clorosi: quelle due cosce un po’ aperte, che i due elastici in un tono di lilla parevano distinguere in grado, avevano perduto il loro tepido senso, già si adeguavano al gelo: al gelo del sarcofago, e delle taciturne dimore. L’esatto officiare del punto a maglia, per lo sguardo di quei frequentatori di domestiche, modellò inutilmente le stanche proposte d’una voluttà il cui ardore, il cui fremito, pareva essersi appena esalato dalla dolce mollezza del monte, da quella riga, il segno carnale del mistero... quella che Michelangelo (don Ciccio ne rivide la fatica, a San Lorenzo) aveva creduto opportuno di dover omettere. Pignolerie! Lassa perde! Le giarrettiere tese, ondulate appena agli orli, d’una ondulazione chiara di lattuga: l’elastico di seta lilla, in quel tono che pareva dare un profumo, significava a momenti la frale gentilezza e della donna e del ceto, l’eleganza spenta degli indumenti, degli atti, il secreto modo della sommissione, tramutata ora nella immobilità di un oggetto, o come d’uno sfigurato manichino. Tese, le calze, in una eleganza bionda quasi una nuova pelle, dàtale (sopra il tepore creato) dalla fiaba degli anni nuovi, delle magliatrici blasfeme: le calze incorticavano di quel velo di lor luce il modellato delle gambe, dei meravigliosi ginocchi: delle gambe un po’ divaricate, come ad un invito orribile. Oh, gli occhi! dove, chi guardavano? Il volto!... Oh, era sgraffiata, poverina! Fin sotto un occhio, sur naso!... Oh, quel viso! Com’era stanco, stanco, povera Liliana, quel capo, nel nimbo, che  l’avvolgeva, dei capelli, fili tuttavia operosi della carità. Affilato nel pallore, il volto: sfinito, emaciato dalla suzione atroce della Morte.


mercoledì 3 aprile 2013

uno sguardo sulla frontiera


Dal sito della Casa di Vetro (http://www.lacasadivetro.com/), Milano.
L’EVENTO - Presso La Casa di Vetro di via Luisa Sanfelice 3, in collaborazione con EFF&CI– Facciamo Cose e in anteprima per Milano, si inaugura il 23 febbraio dalle 16.00 alle 20.00 (ingresso libero) la mostra “Wild West. 1861 – 1912: l’America dei Pionieri”. Aperta fino al 30 marzo, composta di 55 riproduzioni digitali di rare immagini (alcune scattate da fotografi famosi come Timothy H. O’Sullivan) miracolosamente sopravvissute alle condizioni estreme del selvaggio west e conservate dai National Archives degli Stati Uniti, la mostra racconta il mito della corsa all’ovest dei pionieri americani ripercorrendo tutto l’immaginario iconografico dell’epoca – coloni, cowboys, indiani, sceriffi, banditi, etc. Seconda di quattro esposizioni in programma da novembre 2012 a maggio 2013, “Wild West” è inserita all’interno della rassegna History & Photography, il progetto curato da Alessandro Luigi Perna che ha per obiettivi principali raccontare la storia del mondo contemporaneo attraverso la fotografia, scoprire, valorizzare e rendere fruibili al pubblico archivi fotografici spesso frequentati solo dagli addetti ai lavori, e offrire la possibilità, quando archivi e autori lo consentono, di acquistare le immagini esposte a prezzi accessibili a tutti. 
LA MOSTRA – Nel 1848 le frontiere degli attuali Stati Uniti sono fissate legalmente – a nord a fare da confine è il 49° parallelo, a sud è il Rio Grande, a ovest è l’Oceano Pacifico. Da molto tempo gli americani avevano cominciato la loro espansione a occidente con esplorazioni e insediamenti di coloni, ma la formalizzazione dei confini produsse una corsa all’ovest impetuosa e inarrestabile: agli esploratori, ai cacciatori di pellicce, ai militari, si aggiunsero i Mormoni, i coloni, gli allevatori di bestiame, gli avventurieri, i cercatori d’oro, le prostitute, i banditi e gli sceriffi. I rari insediamenti si moltiplicarono divenendo prima villaggi e poi città. Alle strade in terra battuta si aggiunse la ferrovia che collegò le due coste degli Stati Uniti. Gli indiani, nativi del nord America, travolti dal mondo contemporaneo, cercarono di resistere ma furono sconfitti e confinati nelle riserve. Nacque e si sviluppò quel mito della frontiera, fatto di violenza ed eroismi, crudeltà e speranza, che fu celebrato in tanti film hollywoodiani. La mostra lo ripercorre attraverso le immagini realizzate da giornalisti, fotografi, cittadini privati, ufficiali pubblici dell’epoca, prima confluite come documenti ufficiali in numerosi dipartimenti statali e poi raccolte in un’unica collezione conservata nei National Archives degli Stati Uniti.

La mostra, che ho visto da solissima, l'ultimo giorno di esposizione, ovvero sabato a Milano sotto una pioggia fredda e battente, contava di poche foto, e questo è un grande pregio, ovvero la garanzia di guardarle tutte con gusto e attenzione, purtroppo esposte in modo irrazionale, poste molto in alto, da guardare a testa in su, in doppia fila, a volte le didascalie delle più alte in seconda fila illeggibili per le nane come me. 
a parte questo, le foto erano pregevolissime, alcune veramente artistiche, altre fortemente rappresentative, altre spiritose o crudeli. un'esposizione fantastica, di grande divertimento, con spiegazioni esaustive e informative ben curate. 
la fotografia ha questa proprietà di fermare il tempo, di fregare la morte, di portare in vita i sepolti, di congelare le espressioni. penso che erano vivi, Sguardo di Vetro e la gente nelle carovane e i soldati a cavallo, si sono fermati lì con quello sguardo nell'obiettivo, e poi se ne sono andati. varrà anche per le mie di foto, nel tempo. facevo i conti, se qualcuno del 1907 potesse essere ancora in vita...ma no...nemmeno i bambini...


Looking Glass, a Nez Perce' chief, on horseback in front of a tepee, 1877.
Looking Glass (Sguardo di Vetro), uno dei più grandi capi dei Nasi Forati, a cavallo di fronte a un tepee, 1877. Autore sconosciuto. Courtesy National Archives.



Band of Apache Indian prisoners at rest stop beside Southern Pacific Railway, near Nueces River, Tex., September 10, 1886. Among those on their way to exile in Florida are Natchez (center front) and, to the right, Geronimo and his son in matching shirts.
Prigionieri apache in viaggio in treno verso l’esilio in Florida. Tra di loro ci sono i capi indiani Natchez (al centro sul davanti) e Geronimo con suo figlio (a sinistra, indossano lo stesso tipo di camicia). Fiume Nueces, Texas, 10 settembre 1886. Foto di A. J. McDonald. Courtesy National Archives.

Column of cavalry, artillery, and wagons, commanded by Gen. George A. Custer, crossing the plains of Dakota Territory. By W. H. Illingworth, 1874 Black Hills expedition. 
La colonna di cavalleria, artiglieria e carri, comandata dal generale George A. Custer mentre attraversa le pianure del Territorio del Dakota durante spedizione militare delle Black Hills (Colline Nere), 1874. Foto di W. H. Illingworth, fotografo inglese alla sua seconda spedizione importante nell’ovest degli Stati Uniti dopo quella, di sola esplorazione, con il capitano James L. Fisk. Courtesy National Archives.



"Guthrie Cotton Market." Peak of trading on Harrison Avenue is captured by Photographer Swearingen, after 1893. Il mercato del cotone in Harrison Avenue. Guthrie, Territorio dell’Oklahoma, ca. 1893. Foto di Swearingen. Courtesy National Archives.


"Her daily duty." Cow with seven small boys on her back poses in front of schoolhouse in Okanogan, Wash. By Frank Matsura, 1907. 
"Il suo dovere quotidiano." Una mucca con sette ragazzini sulla schiena ritratta di fronte alla scuola. Okanogan, Stato di Washington, 1907. Foto di Frank Matsura, fotografo giapponese che emigrò in America nel 1901, dove ha vissuto fino alla sua morte. Più di 1800 foto e negativi su lastre di vetro relativi all’era della frontiera sono conservati dalla Okanogan County Historical Society e dalla Washington State University. Courtesy National Archives.



"On the wharves, San Francisco, 1900." Moored schooners' masts form a wall around the dock. By Henry G. Peabody.
"Sulle banchine, San Francisco, 1900." Foto di Henry G. Peabody, autore dalla carriera e dalla vita straordinariamente lunga, visse infatti dal 1855 al 1951, ha prodotto nella sua carriera migliaia di fotografie, diapositive e filmati che documentano la storia e il paesaggio americano tra ‘800 e ‘900. Courtesy National Archives.

 "John Sontag of the firm of `Evans & Sontag' of Calif. fame. Sontag was shot to death about Sept. 14, 1904. He was not yet dead when this picture was taken."
"John Sontag della banda Evans & Sontag, famosa in California. Sontag è stato colpito a morte il 14 settembre 1904. Non era ancora morto quando questa foto è stata scattata.” Evans e Sontang erano a capo di una banda specializzata in rapine ai treni. Autore sconosciuto. Courtesy National Archives.

"Skating party, Ft. Keogh, Mont., about 1890."
"Festa sui pattini, Fort Keogh, Montana, circa 1890." Autore sconosciuto. Courtesy National Archives.

martedì 2 aprile 2013

L'omicidio è sempre un errore: non si dovrebbe mai fare niente di cui non si possa parlare a cena

il Ritratto di Dorian Gray è un libro lascivo.
di scarso valore letterario.
vive di 'sti aforismi di Oscar Wilde travestito da Lord Henry Wotton.
sentito uno, sentiti tutti.
credo di non amare la letteratura inglese.
ho riletto ultimamente anche Il giro di vite di Henry James (me lo propongono in tutte le salse al corso di scrittura creativa come fulgido esempio di romanzo breve), ne comprendo l'arte ma solo in termini di vezzo estetico, di esibizione stilistica in una bella cornice, poca sostanza narrativa, nessuna forza espressiva.
che sia colpa della lingua inglese? o proprio degli inglesi?