bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 29 ottobre 2018

trigger


trigger.
non so bene perchè.
lei si muove come un orango nella foresta.
questo l'ho percepito chiaramente.
poi sempre meno, sempre meno orango ma la sua presenza, nella sala Napoleonica dell'accademia di Brera, è sempre più forte.
ti passa vicina, siamo seduti su una fila di sedie che lascia spazio davanti e dietro, molto vicine e, ogni tanto, ti guarda. ma proprio ti guarda. cioè mi guarda
strano, di solito non accade che un ballerino ti guardi, credo non rientri nello svolgimento delle  sue funzioni artistiche.
ma io so che guarda con l'intento di guardare, cioè io sono qui, non sono una ballerina mitologica, sono una ballerina della foresta, della notte, di questa sala.
e qui lo spazio è aperto, luminoso di luce artificiale, tutti ci vediamo, tutti ci guardiamo e guardiamo lei che, a buon diritto, guarda noi. 
ma io sono colta dal suo respiro, dal suo sudore, gocciola, del suo respiro, ansima, e arrivo a desiderare che mi sfiori, che faccia qualcosa di me. non accade ma lo vorrei.
mi è piaciuta la sua ricerca, 20 minuti di danza, danza che definisce lo spazio in cui si svolge e che temporaneamente abita, che definisce le distanze tra i corpi, che definisce lo spazio del suo corpo, così chiaramente in movimento rispetto ai nostri così fermi.
si mi sono emozionata.
Annamaria Ajmone
Trigger
Danae Festival



venerdì 26 ottobre 2018

quando accanto a lei un individuo dal cappotto militare le intercettò la luce vacillante del fanale.

Una tormenta paurosa s’era scatenata e fischiava fra le ruote della vettura, lungo le colonne, al di là dell’angolo della stazione. Vetture, colonne, uomini; tutto quello che si poteva scorgere veniva ricoperto da un sol lato di neve e sempre di più se ne ricopriva. Per un attimo la tormenta parve calmarsi, ma poi di nuovo si sferrò con raffiche tali che sembrava non si potesse resisterle. Nel frattempo alcune persone corsero e, scambiando allegramente qualche parola, fecero scricchiolare le assi della banchina aprendo e richiudendo continuamente la porta grande. L’ombra contorta di un uomo scivolò sotto i piedi di lei e si udì il rumore di un martello sul ferro... «Telegrafa!» echeggiò una voce irritata dall’altra parte nel buio della tormenta. «Favorite qua, n. 28!» gridarono ancora altre voci e delle persone imbacuccate corsero, ricoperte di neve. Due signori, con le sigarette accese in bocca, le passarono accanto. Ella respirò ancora una volta per prendere aria a sazietà e aveva già tirato fuori la mano dal manicotto per afferrarsi alla colonnina e rientrare in vettura, quando accanto a lei un individuo dal cappotto militare le intercettò la luce vacillante del fanale. Si voltò e in quell’attimo riconobbe il viso di Vronskij. Portando la mano alla visiera, egli s’inchinò e domandò se avesse bisogno di qualcosa e se potesse esserle utile. Anna lo fissò a lungo senza rispondere nulla e, malgrado l’ombra in cui era, vedeva, o le sembrava di vedere, anche l’espressione del viso e degli occhi di lui. Ancora quell’espressione di reverente ammirazione che la sera prima l’aveva tanto impressionata. Più di una volta in quei giorni, e fino a pochi momenti prima, era andata ripetendo a se stessa che Vronskij era per lei uno dei cento giovanotti eternamente identici che s’incontrano on sapevo che foste in viaggio. Perché viaggiate? — disse, abbassando la mano con la quale stava aggrappata alla colonnina. E un’irrefrenabile gioia e animazione le illuminarono il viso. 
— Perché viaggio? — ripeté lui, guardandola dritto negli occhi. 
— Voi sapete che io viaggio per essere dove siete voi — disse — e non posso fare altrimenti. 
Nello stesso tempo, come se avesse superato degli ostacoli, il vento spazzò via la neve dai tetti delle vetture, strascinò una lamiera di ferro ch’era riuscito a strappare, e il fischio della locomotiva ruggì, lugubre e cupo. A lei ora tutto l’orrore della tormenta pareva ancora più bello. Egli aveva detto proprio quello che l’anima sua desiderava, ma che la sua ragione temeva. Ella non rispondeva nulla, e sul viso di lei egli scorgeva la lotta interiore. 
— Perdonatemi se vi spiace quello che ho detto — disse umilmente. 
Parlava con cortesia, con rispetto, ma con tanta fermezza e ostinazione che per molto tempo ella non poté rispondere nulla. 
— È male quello che dite, e vi prego, se siete un gentiluomo, dimenticate quello che avete detto; anch’io dimenticherò — disse infine. 
— Non una vostra parola, non un vostro gesto dimenticherò mai, e non posso... 
— Basta, basta! — gridò lei, cercando invano di dare un’espressione severa al viso che egli andava scrutando avidamente. E afferratasi con la mano alla colonnina gelida, montò sul predellino ed entrò in fretta nel corridoio della vettura. Ma nel piccolo ingresso si fermò per riflettere a quello che era accaduto. Non ricordava né le parole proprie, né quelle di lui, ma ebbe la sensazione che quella conversazione di pochi istanti li avesse terribilmente avvicinati e ne era spaventata e felice. Dopo esser rimasta in piedi per qualche secondo, entrò nello scompartimento e sedette al proprio posto. Quello stato di tensione che l’aveva tormentata poco prima non solo si rinnovò, ma aumentò sino a farle temere che da un momento all’altro si spezzasse in lei qualcosa di troppo teso. Non dormì tutta la notte. Ma in quella tensione e in quel vaneggiamento che le riempivano la mente, non c’era nulla di spiacevole e di tetro, al contrario, c’era qualcosa di gioioso e di eccitante. All’alba si assopì nella poltrona, e quando si svegliò era giorno chiaro e il treno si avvicinava a Pietroburgo. Il pensiero della casa, del marito, del figlio, le faccende di quel giorno e dei seguenti s’impossessarono subito di lei.dovunque, e che ella mai avrebbe concesso a se stessa di pensare a lui; ma ora, in quel primo attimo dell’incontro, fu presa da un senso di orgoglio gioioso. Non c’era bisogno di chiedere perché fosse là. Lo sapeva così sicuramente come s’egli avesse detto che si trovava là perché voleva essere dov’era lei. 


che dire, sono ammaliata.
non so dure esattamente.
a volte penso che Tolstoj non sia un campione di eleganza formale della scrittura.
ma questa descrizione incombente della figura di Vronskij, la cui ombra ricade su Anna in modo così minaccioso e potente, circondata da una tempesta di neve che scoperchia le lamiere, da rumori violenti ma ovattati dalla neve, in cui la bellezza e l'orrore convivono, la sottomissione e la furia dell'amore anche, insomma, mi dico: che incontro fatale! che bella la letteratura! come vorrei essere lì!

giovedì 25 ottobre 2018

Celeste. Appunti per natura

celeste, dice il titolo dello spettacolo.
è il festival di Danae, dice il titolo della rassegna.
lei è 
Raffaella Giordano, 
ballerina dal lungo curriculun vitae: si vede, tanta esperienza nella danza contemporanea anche di Pina Bausch, anche di Carolyn Carlson. e molto altro che non conosco.
si vede che nulla è nel caso, nell'occorrenza temporanea, e lei si preoccupa: "sembra una danza spontanea?" chiede all'intervista che segue lo spettacolo.
no, le dico, non sembra, si vede che c'è lavoro, duro lavoro del corpo.
lei è ipnotizzante nello spiegare, e non spiegare, la natura del suo lavoro sul corpo.
le parole, dice, non ce la fanno, e per spiegarisi usa istintivamente il corpo. 
diversamente, dice, non sa fare.
non è vero, ci sa fare anche con la parola. ed è chiaro, nel suo dire, che nell'uso del corpo non c'è pensiero, c'è altro. c'è solo corpo, allenato, provato, riprovato, sofferto, gioioso, studiato, ma solo corpo.
è chiaro. io lo capisco, quel che dice.
la sua danza, intendo, è il frutto di una lunga esperienza. penso alla mostra di Carlo Carrà, e poi ancora penso che per raggiungere la propria cifra ci vuole una vita. come Carlo Carrà anche Raffaella Giordano, che è ricca portatrice di danza Carlson e Bausch, alla fine, è approdata alla sua personalissima firma. vorrei dirle questo ma non voglio esagerare.
Celeste. Appunti per natura recita così durante lo spettacolo:
“ (…) Come i fiori nel prato, fanno capolino i temi di sempre. Il vestito come un cielo o come una terra, la campitura di colore dai contorni imprecisi, il segno di una porosità dell’anima. Caro spettatore ti dono questo mio sentiero, specchio riflesso di un canto celeste.” tratto da un libro che l'ha fortemente ispirata, L’estate della collina di J.A. Baker, bizzarro e misterioso scrittore inglese che racconta e descrive unicamente la natura.
io non colgo il celeste, e glielo dico, piuttosto un movimento che richiama suoni e voci e passeggiate diurne, risonanze del giorno, ma in uno spazio chiuso, in una camera, come in un passaggio notturno, forse in un sogno.
al termine dello spettacolo una luce, che non è mai comparsa in scena fino a quel monento, forte brillante e tagliente fa la sua comparsa, sulla sua bella intensa figura, come fosse la luce del mattino che filtra attraverso una finestra. penso a Sangiano, la mia mitologia. allora avevo ragione, penso, è la luce del mattino dopo una notte di sogni e di figure mascherate dell'inconscio. anche il gallo che si sente cantare annuncia il giorno che nasce.
bello, mi dice.
si, sono d'accordo, penso. 

mercoledì 24 ottobre 2018

Dumbo, NY





si poteva fare di meglio, fotograficamente parlando.
per il resto, abbiamo fatto il massimo.

domenica 21 ottobre 2018

girl

un film sul transessualismo?
no, sul dolore di non riconoscersi.
il film non prende parti, ma osserva, descrive, sottolinea, non giudica.
si ambienta in un mondo ideale in cui il pregiudizio, il giudizio, la contrapposizione, il rifiuto, la segregazione, la discriminazione non esistono.
il reale ha ben altre fattezze.
facciamo finta che sia così, che il padre sia una figura angelicata pronta a qualsiasi sacrificio, anche della propria realizzazione, pur di favorire il cambiamento desiderato dal proprio figlio, o dalla propria figlia.
che il mondo accetti, anche in una scuola di ballo (luogo in cui si premeditano e si affettuano omicidi e lotte sanguinose e competizioni disumane), la lotta senza pari, straziante, di un ragazzo contro le proprie limitazioni corporee e ne favorisca, quanto meno silenziosa e disciplinata, la realizzazione.
facciamo finta.
e facciamo anche finta che, una volta effettuata la mutilazione psicotica del proprio corpo, la vita diventi un luogo felice in cui il nuovo taglio di capelli santifichi il viraggio ormonale e anatomico.
facciamo finta.
la natura di quel dolore, quel dolore che non può accettare il proprio corpo, non ne riconosce la forma, ne rifiuta l'appartenenza, lo fa a pezzi e invoca la scienza per trasformarlo, lo vuole diverso ed è disposto a martirizzarsi, non passa mai. 
è questo l'equivoco: la trasformazione corporea non pacifica quella sofferenza. quella invocazione è eternamente presente, quell'immaginario non verrà mai soddisfatto dall'invaginazione, o dall'operazione contraria. quella non accettazione è uno stato perenne, e non è una questione sociale,  politicamente corretta, e nemmeno di genere, non si cura con la chirurgia, ha bisogno di molto di più, di molto altro, di tanto altro oltre il corpo.

sera sul lago





capisco che trovare la propria cifra è il lavoro di una vita.
la mostra di Carrà mi ha mostrato il percorso, da uno stile ideologico, assunto dall'altro, a un metodo disidentificato dall'altro, proprio, singolare. autentico.
il lago al tramonto, con la barca vuota, senza l'uomo, mi ha commosso.
l'attesa è un luogo dell'anima, guarda un punto imprecisato, chissà.
a Palazzo Reale.

venerdì 19 ottobre 2018

sul retro della foto: luglio 1955

Su una foto in bianco e nero, due ragazze in un vialetto, spalla contro spalla, entrambe tengono le braccia dietro la schiena. Sullo sfondo, qualche albero e un alto muro di mattoni. Sopra di loro, grandi nuvole bianche nel cielo. Sul retro della foto: luglio 1955, nei giardini del collegio di Saint-Michel. A sinistra c’è la più alta delle due, bionda, con i capelli corti e spettinati, un vestito chiaro e i calzini alla caviglia, il viso in ombra. 
A destra, una mora con i capelli ricci, corti, gli occhiali sul volto in carne, attraversato dalla luce, la fronte alta, un golfino scuro con le maniche corte, una gonna a pois. Entrambe portano le ballerine, la bruna è senza calze. Devono essersi tolte i grembiuli di scuola per scattare la foto. 
Anche se nella ragazza di destra non si riesce a riconoscere la bimbetta con le trecce che posava sulla spiaggia, che crescendo sarebbe potuta diventare anche la bionda, è lei, e non l’altra, a essere stata quella coscienza, è lei a essere stata presa in quel corpo, con una memoria unica, il che permette di assicurare che i capelli sono ricci per via di una permanente, rituale del mese di maggio dopo la cresima, che la gonna era stata ricavata da un vestitino estivo dell’anno precedente diventato troppo stretto e che il golfino era stato fatto a maglia da una vicina di casa. Ed è con le percezioni e le sensazioni ricevute da quella brunetta occhialuta di quattordici anni e mezzo che la scrittura, ora, può rinvenire qualcosa di ciò che pulsava negli anni Cinquanta, captare il riflesso proiettato sullo schermo della memoria individuale dalla storia collettiva. 
A parte le ballerine, non c’è niente nell’aspetto di quell’adolescente che possa essere ricondotto a «ciò che usava» al tempo e che si poteva vedere nelle riviste di moda o nei negozi delle grandi città, la gonna scozzese a metà polpaccio, un grosso pendente sopra un maglioncino nero, la coda di cavallo con la frangetta come Audrey Hepburn in Vacanze romane. La foto potrebbe essere stata scattata tanto sul finire degli anni Quaranta quanto all’inizio dei Sessanta. Agli occhi di chiunque sia nato dopo è, semplicemente, vecchia, appartiene a quella preistoria di sé in cui si appianano tutte le vite che sono venute prima. Eppure, quella luce laterale che illumina il viso della ragazzina e scende sul golfino tra i seni ben dritti è stata sensazione di calore di un sole di giugno in un anno che, tanto per gli storici quanto per chi allora c’era e viveva, non può confondersi con nessun altro, il 1955. 
Forse non si accorge del divario che la separa dalle altre ragazze della classe, quelle con cui sarebbe inimmaginabile farsi ritrarre in fotografia. Un divario che si manifesta negli svaghi, nel modo di impiegare il tempo al di fuori delle ore di lezione, nella maniera generale di vivere, e che la allontana tanto dalle ragazze chic quanto da quelle che già lavorano in ufficio o a bottega. O forse percepisce questa distanza e non se ne preoccupa. 
Non è ancora mai stata a Parigi, a centoquaranta chilometri da lì, non ha mai partecipato a un «party», non ha il giradischi. Nel fare i compiti ascolta le canzoni della radio e ne trascrive le parole su un quaderno, se le porta nella testa per giornate intere, mentre cammina, a lezione, tu che dicevi, che dicevi, che dicevi che l’amavi, che ne hai fatto del tuo amor che ora piange nella pioggia. 
Non parla con i ragazzi, ci pensa tutto il tempo. Vorrebbe avere il diritto di mettersi il rossetto, le calze da donna, i tacchi alti – i calzini la fanno vergognare, li toglie appena esce di casa – per mostrare che già appartiene alla categoria delle ragazze e che può essere seguita per strada. Con questo preciso scopo la domenica mattina dopo la messa va a «fare le vasche» in città in compagnia di due o tre amiche del suo stesso ambiente «semplice», badando bene a non trasgredire la rigorosa legge materna a proposito dell’ora («se ti dico di tornare alla tal ora torni alla tal ora, non un minuto dopo»). Compensa il generico divieto di uscire con la lettura dei romanzi d’appendice pubblicati sui giornali, I signori di Mogador, Affinché nessuno muoia, Mia cugina Rachele, La cittadella. Si astrae immaginandosi storie e incontri che sfociano in orgasmi serali sotto le lenzuola. Si sogna puttana e al contempo ammira la bionda della foto, così come altre compagne di scuola più grandi che la rimandano al suo corpo ancora invischiato in un bozzolo informe. Vorrebbe essere loro. 
Al cinema ha visto La strada, Lo spretato, Gli orgogliosi, Le piogge di Ranchipur, La belle de Cadix. Sono più i film che vorrebbe vedere ma che le sono vietati – Les enfants de l’amour, Quella certa età, Le compagne della notte eccetera – di quelli che le sono concessi. 
(Andare in città, sognare, darsi piacere e attendere: riassunto possibile di un’adolescenza in provincia.) 

Gli anni, Annie Ernaux

la storia degli Anni passa attraverso delle foto, immagini che rispecchiano il passare del tempo.
è geniale, proprio la foto fa testimonianza, che cattura la memoria di un istante, un istante perduto un attimo dopo, ma indelebilmente fissato, anche al posto della memoria stessa, quando tutto sarà cancellato.
sono stregata da questo libro, vado piano, non voglio perdermi niente, capisco che sto attraversando un luogo misterioso, capisco che sono sul limitare di qualcosa che potrebbe travolgermi, questa indagine sulla memoria e sulla perdita mi fa venire le vertigini.
quando lo leggo sento la morte che passa, vicina.
sento i miei genitori, sento i miei figli quando sarò morta.

venerdì 12 ottobre 2018

c'è qualcosa di strano, di diabolico e di affascinante in lei

"Ma per chi? Per tutti o per uno solo?" si chiese. E, senza venire in aiuto al disgraziato giovanotto col quale ballava e che s'era lasciato sfuggire il filo di una conversazione iniziata e non riusciva a riannodarlo, e prestando apparentemente orecchio alle forti grida allegre e imperiose di Korsunskij che ora lanciava tutti in un grand rond, ora in una chaine, Kitty osservava, e il cuore le si stringeva sempre più. "No, non è l'ammirazione di tutti che l'ha inebriata, ma l'esaltazione di uno solo. E chi è quest'unico? Possibile che sia lui?". Ogni volta che Vronskij parlava con Anna, negli occhi di lei si accendeva uno scintillio gioioso e un riso di felicità increspava le sue labbra vermiglie. Era come se ella volesse contenersi per non fare apparire questi segni, ma questi salivano da soli sul viso. 
"E lui?". Kitty lo guardò ed ebbe paura. Ciò che con tanta chiarezza appariva nello specchio del viso di Anna, Kitty vide anche in lui. Dove erano più quell'atteggiamento calmo e deciso e quell'espressione del viso liberamente serena? No, ora, ogni volta che egli si volgeva a lei, piegava un po' il capo, quasi desideroso di caderle ai piedi, e nello sguardo suo non vi era che un'espressione di sottomissione e di paura. "Non voglio offendervi - diceva ogni volta il suo sguardo - ma voglio salvarmi e non so come". 
Un'espressione quale non aveva mai vista nel viso di lui. Parlavano di amici comuni, facevano la più insignificante delle conversazioni, ma a Kitty pareva che ogni parola pronunziata decidesse il loro e il suo destino. E lo strano era che, in realtà, pur parlando di come fosse ridicolo Ivan Ivanovic col suo francese e del fatto che per la Elackaja si sarebbe potuto trovare un partito migliore, tuttavia queste parole avevano un senso speciale per loro ed essi lo sentivano così come lo sentiva Kitty. Tutto il ballo, il mondo intero, tutto si coprì di nebbia nel cuore di Kitty. Soltanto la severa educazione ricevuta la sosteneva e l'obbligava a fare quello che da lei si pretendeva, cioè ballare, rispondere alle domande, parlare, sorridere persino. Ma, prima che cominciasse la mazurca, quando già si allontanavano le sedie e alcune coppie s'erano mosse dai salotti verso la sala grande, Kitty fu presa da un attimo di disperazione e di sgomento. Aveva rifiutato cinque cavalieri e ora non ballava la mazurca. Non c'era neppure speranza che qualcuno l'invitasse; proprio perché ella aveva un così grande successo in società, a nessuno poteva venire in mente che non fosse impegnata fino a quel momento. 
(...)
Nessuno, all'infuori di se stessa, poteva capire la sua situazione, nessuno sapeva ch'ella aveva detto di no il giorno prima a un uomo che forse amava, e che gli aveva detto di no perché credeva in un altro. La contessa Nordston trovò Korsunskij col quale doveva ballare la mazurca e gli impose di andare a invitare Kitty. Kitty ballava nella prima fila e per sua fortuna non doveva parlare perché Korsunskij correva su e giù tutto il tempo dando ordini al suo stuolo di ballerini. Vronskij ed Anna erano situati quasi di fronte a lei. Li vide da lontano con i suoi occhi presbiti, li vide poi da vicino, quando si incontrarono fra le coppie, e più li vedeva più si convinceva che la rovina sua era compiuta. Vedeva che essi si sentivano soli in quella sala piena di gente. E sul viso di Vronskij, sempre così deciso e libero, vedeva quell'espressione di smarrimento e di sottomissione che l'aveva stupita; l'espressione di un cane intelligente che si senta colpevole. 
Anna rideva e il riso si trasmetteva a lui. Anna diveniva pensosa, ed egli si faceva serio. Una forza magica attirava gli occhi di Kitty sul viso di Anna. Ella era incantevole con quel semplice vestito nero, ed incantevoli erano le braccia tonde con i bracciali, ed il collo forte col filo di perle; incantevole la capigliatura inanellata e sciolta e incantevoli le movenze lievi dei piccoli piedi graziosi e delle mani, e il viso piacente pieno di vita; eppure c'era qualcosa di pauroso e di crudele in quell'incanto. 
Kitty l'ammirava ancor più di prima, e sempre di più soffriva. Si sentiva stroncata e il suo viso lo rivelava. Quando Vronskij, scontratosi con lei nella mazurca, la vide, non la riconobbe al primo momento, tant'era mutata. - Splendido ballo - le disse, tanto per dire qualcosa. - Sì - rispose lei. Durante la mazurca, ripetendo una figura complicata inventata da Korsunskij, 
Anna uscì nel mezzo del circolo, prese due cavalieri e chiamò a sé una signora e Kitty. Kitty la guardò come spaurita e le si accostò. Anna la guardava, socchiudendo gli occhi, e sorrideva stringendole una mano. Ma, visto che il viso di Kitty rispondeva al suo sorriso con disperata sorpresa, si allontanò da lei e si mise a parlare allegramente con l'altra signora. "Sì, c'è qualcosa di strano, di diabolico e di affascinante in lei" si diceva Kitty.
(...)

Anna Karenina
di Lev Tolstoj

compare non prima di pagina 70, la nostra Anna.
come appare, alla stazione, scendendo da un treno, sotto il quale è morto un macchinista, schiacciato e deformato, le luci puntano su di lei, sul suo destino. e come esce dalla scena, ne sento subito la mancanza.
bella, piena, tornita, vitale, luminosa, incantevole e gaia, eppure è già paurosa e crudele.
diabolica.

sulla mia pelle

"Stefano Cucchi era a terra e lo prendevano a calci".
qualcuno parla.
il muro, dicono, è caduto.
a fare le spese di questa immonda storia di silenzi, di coperture, di violenza, di irresposabilità, di omertà siamo tutti noi. non è solo sulla pelle di Stefano Cucchi che si è svolta questa immondizia, è sulla pelle di tutti noi.
quello stato carente, corrotto, marcio, incapace, inefficiente che non solo non ti protegge ma ti lascia morire, è il nostro stato italiano.
il film, si, ha fatto la sua parte.
ne sono certa.
certissima. per una volta un film, quella grande meravigliosa avventura che è il cinema e che ci regala pensieri ed emozioni, ha mostrato qualcosa che ha smosso la coscienza. 
l'ho visto, Sulla mia pelle, di Alessio Cremonini. non so nemmeno se ho visto un film o un documentario. senza giudizi, senza partigianerie, una presentazione cruda di eventi scuotenti.
ad Alessandro Borghi darei una medaglia, non so come si faccia ad entrare nella pelle, nel corpo di un altro, eppure, c'è riuscito. nessuno, nel film, appare bello, migliore, nessuno appare solo vittima, ognuno ha fatto la sua parte. Cucchi si vedeva come uno scarto, un oggetto degno dei maltrattamenti ricevuti al punto da non denunciarli, al punto di dirli sottovoce ma anche negarli più volte. solo chi pensa di meritarsele, quelle botte, non le denuncia, e Cucchi si vedeva così, indegno, una vergogna per i suoi genitori.
ho pensato a quei posti, le celle, i tribunali, le caserme di polizia, le stanze delle questure,  l'area detenuti dell'Ospedale Pertini di Roma, sono luoghi dello stato in cui ognuno di noi potrebbe finire, perchè aggredito, perchè coinvolto suo malgrado, oppure per dolo. in quei luoghi emerge un'area di miseria dello stato italiano, abitata da tanta gente che fa il proprio lavoro senza consapevolezza, senza responsabilità, con i "torni domani", "io non ne so niente, non è qui che deve venire", "per entrare ci vuole la sentenza del giudice", "a quest'ora siamo chiusi", meandri infiniti, di stanze fisiche e stanze della mente, che portano al nulla, al rigetto della domanda, al rimando ad altri, luoghi in cui si può essere dimenticati, lasciati cadere o, peggio, aggrediti e maltrattati.
sono luoghi comuni, eppure senza struttura, solidi ma vuoti, luoghi dello stato, eppure senza alcuna legge.

domenica 7 ottobre 2018

wildlife black and white


Greg du Toit, Dog's dinner


Mats Andersson, Winter pause

venerdì 5 ottobre 2018

donne



sono l'acqua che ha rotto il cristallo

Ma sono l'acqua marcia ora.
L'avvelenata acqua, limpidissima
e chimica, mortale. Non ti vedo.
Non vedo il tuo sguardo
non ascolto i tuoi occhi
non sento il tuo fiato
ti ustiono se tocchi.

Sono l'acqua che ha rotto il cristallo
lo specchio il bicchiere.
Sono l'acqua che spolpa
cavallo e cavaliere.

Fabio Pusterla
Venere, o terra

giovedì 4 ottobre 2018

il prezzo dei pixel

rivedo di sfuggita Crozza.
lui mi è francamente simpatico, su chiunque egli ironizzi, ma non sono una fan fissa, lo vedo quando capita.
è capitato.
e parlava di una coppia mediatica, una coppia che  esiste solo perchè esistono i social.
la sua ironia era garbata, e lui ci sa fare. io su questa questione ho avuto modo di discutere animatamente, incompresa.
certo, sapessi fare come Crozza, verrei compresa di più, ma non son buona.
la questione riguardava quel povero infante, come nato già messo in vendita, brandizzato.
commercializzazione dell'infanzia, una cosa veramente turpe, raccapricciante.
ma pare di no, per qualcuno no.
ci scandalizziamo per i ragazzini in età scolare mano d'opera nei paesi sottosviluppati, non dovremmo urlare di fronte ai neonati messi in vendita, con tanto di marchio Gucci, sul web?
sono due cose diverse?
la prima non è peggiore della seconda, anzi.
quella povera creatura è già oggetto di scambio, gucci in cambio di soldi, foto e post in cambio di soldi. e c'è anche qualcuna che ha messo la propria, figlia, con tanto di racchetta Wilson in bella mostra, come diceva Crozza, da pagarci la retta dell'asilo per i millenni a venire.
perchè no? che male c'è?
bravi, beati loro, che culo.
ma quello è un bambino neonato, è senza diritto di parola?
o dovrebbe essere preoccupazione di un genitore che che l'abbia, tramite loro?
i simpatici genitori, due venditori d'aria coperti di milioni di euro, una ha  trovato il modo di fare soldi esponendosi, mi metto in mostra e mi pagano, un genio del male compatibile solo con questa epoca di merda che ci tocca vivere altrimenti impensabile in un mondo che paga il valore non il mercato, l'altro pure, ma finge di cantare rap, canta delle cose indegne, una musica orrenda, francamente brutta, un listino di roba in vendita, un elenco di oggetti di consumo, pensano di passare alla storia: la prima lo ha proprio dichiarato in un'intervista. tenera creatura, pensa che i milioni di pixel del web faranno mai la storia di qualcosa o di qualcuno. 
nulla può condannare all'oblio più di un pixel.
quel che fanno è da irresponsabili, quante volte, a vari convegni, ho sentito della questiome legale del diritto alla privacy di minori esposti sul web, diritti violati, diritti calpestati, tutti convinti che non c'è alcun male a mettere i propri figli in piazza, sotto lo sguardo di tutti, sotto quella lente virtuale che globalizza tutto, immiserisce tutto, disidentifica tutto.
i due meschini genitori, ho letto, non battezzeranno il figlio perchè, insomma, non possiamo violare la sua libertà. non fosse interessato a dio?
i genitori sono una razza straordinaria, e direi estinta. questa razza attualmente sulla terra si preoccupa di non imporre dio ma non della vendita commerciale della carne del figlio con marchio pubblicitario (ma anche non ci fosse il marchio, di esposizionbe pubblica si tratta, e di introiti si tratta, ormai la coppia è un brand, il figlio partecipa degli utili in qualsiasi foto pubblica compaia), oggetto di compravendita, oggetto svalutato, squalificato, massificato, senza avergli chiesto il permesso, per ovvie ragioni.
dio no, il web si. 
tempi moderni.
questo atto commerciale, questa vita spesa e spendersi sui social, a vendere ogni minuto della propria vita non è gratis. ha un costo. altissimo.
credetemi, e i segnali sono già arrivati, a milioni, quanta gente è finita nelle maglie dell'orrore per essersi venduto, a vario modo, in rete. chiunque passi da questa mercificazione è destinato all'angoscia dell'alienazione. se gli adulti lo fanno, responsabili, risponderanno di persona della loro sceleratezza, se lo fanno con i figli però è colpa grave. 
si colpa, responsabilità non basta.