bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 25 luglio 2014

non separatevi

"non ci si separa" così scrive, intervistata, la psicologa su un articolo del Corriere della sera di domenica scorsa.
mi son domandata se il problema stava in chi intervistava - e riportava male lo psicologa/pensiero- o nell'intervistata -e quindi nel psicologa/pensiero. 
in ogni caso, non ci siamo.
non ci siamo che si possano scrivere queste cose e che si possano scrivere sul Corriere, giornale di ampissima divulgazione e certamente quotato nelle sue rivelazioni.
che almeno la psicologa parlasse per sé, mi sono detta...sono la psicologa taldeitali, visito e seguo bambini-adolescenti-genitori, e non ne ho mai visto uno contento della separazione (ma dai???). se non volete soffrire e far soffrire i vostri figli, non separatevi!
invece la psicologa taldeitali parla a nome dell'associazione per cui lavora, notissima a Milano e non solo, Il Minotauro, fondatore Gustavo Pietropolli Charmet, specializzata nella cura, psicoterapia e sostegno di adolescenti e delle loro famiglie. 
e mi dico attenzione...bisognerebbe fare attenzione quando si parla non per sé stessi ma a nome della targa sopra la nostra scrivania, perché allora non solo discrediti te stesso ma tutta la bella compagnia.
e infatti sono preoccupata: il dott. Charmet la pensa allo stesso modo? e lascia che si scrivano cose così a nome suo sul Corriere?
male, mi dico, molto male.
devo dire che ultimamente scopro cose effettuate da colleghi psichiatri e psicologi che mi sembrano al limite della denuncia, gente che lavora male facendo danni irreversibili su gente malata e sofferente, male veramente molto male. trovo quanto meno discutibili, ma dico così solo per moderare la mia furia, certe perversioni pericolose, certe derive patologiche dei cosiddetti "curanti", di gente impreparata incompetente. scopro di cosiddetti analisti che con pazienti molto gravi si inventano trovate come andare insieme al cinema, affidare le chiavi di casa per curare gatti e piante in loro assenza, regalare magliette e completi matrimoniali. mi è stato perfino detto di una preoccupazione perché "la paziente confonde il bene con la cura". chi la confonde?? il cosiddetto psicoanalista o il paziente? cosa gli sta insegnando? sei un analista o un amico? lo sai che quando poi lo rifiuti il paziente -perchè all'occorenza torna ad essere paziente e ci si dimentica dell'appuntamento davanti al cinema- si taglia per fermare l'angoscia del nulla? sono sconcertata, il danno è fatto, ed è di una gravità incommensurabile.
in fondo che la psicologa taldeitali dica ai genitori sul corriere: non separatevi, il divorzio è un trauma, sembra quasi meno grave.
la psic dice e Roberto Rizzo, autore dell'articolo, scrive:
«Il mito del buon divorzio è, appunto, un mito. Per i figli la separazione dei genitori è un trauma, anche quando ci si separa con tutte le attenzioni del caso. È bene metterselo in testa anche se è difficile tollerare di essere quelli che scientemente fanno del male ai propri bambini. Sarebbe più onesto dirsi: “Lo faccio pur sapendo che ci saranno delle conseguenze per i figli”». continua: «Devo ancora incontrare un bambino, o un ragazzo, che dica “sono contento che i miei genitori si sono separati”. Poi si adattano, anche bene, alla nuova situazione, ma non accetteranno mai la separazione di mamma e papà, non perderanno mai la speranza, anche a distanza di anni, di rivederli insieme», prosegue «La maggior parte delle coppie che incontro chiede come non far stare male i figli. La risposta è una, anche se semplicistica e poco rispettosa: non ci si separa. Se questo avviene, bisogna essere preparati a certi comportamenti dei figli, non catalogarli come preoccupanti».
manca un pezzo direi, o forse manca all'esperienza della psicologa in questione -che, si dice nell'articolo, è separata e divorziata e forse è lei a non aver superato il trauma, mi dico io, perchè spesso dove gli psicologi e psichiatri inciampano è dove non hanno risolto qualcosa di sè. magari la psicologa intervistata, trattandosi del Minotauro ovvero di un'associazione privata nel Centro di Milano cui certamente afferiscono famiglie quanto meno abbienti e in grado di sostenere le cifre della psicoterapia dell'intera famiglia,  non conosce certe realtà familiari, forse più "periferiche" in cui il trauma, diciamocelo, è un altro.
non la separazione, ma la convivenza.
ma dico solo forse perchè non è l'estrazione sociale a salvare dalla desertificazione simbolica dei rapporti familiari sbagliati.
a me, invece, è proprio capitato di sentire bambini e adolescenti invocare quella separazione in nome della fine, il più precoce possibile, di quell'incubo che è la famiglia, con quella madre depressa isterica aggressiva inadempiente e quel padre assente bugiardo reattivo violento minaccioso, se non ubriaco o peggio ancora.
attenzione a scrivere certe cose sul Corriere, si corre il rischio che qualcuno, leggendo, pensi che sia meglio soprassedere se, aiuto, quei poveri ragazzi non lo dimenticheranno mai.
perchè, temo, quello che non dimenticheranno mai sono quelle relazioni genitoriali, quei vuoti paurosi, quel terrore, quell'assenza, quelle mani alzate, quelle sberle o calci, o semplicemente quell'angoscia quel silenzio quell'assenza di una famiglia che crea orrore e baratro affettivo e non certo sostegno.
un mio pz, discutendone, martedì mi ha detto: per me il trauma non è stato vedere mio padre che usciva di casa, è stato ogni giorno che mio padre è stato in casa.
allora, certo, si soffre e la sofferenza ai nostri figli, anche per cose di minor conto, non la potremo MAI e dico MAI evitare, guai ai genitori che evitano le frustrazioni dolorose ai figli, cresceranno degli infelici.
ma guai anche a invitare a non separarsi in nome di un trauma della separazione che non sarà mai paragonabile a quello del fallimento della coppia genitoriale, anche quando non è violenta, anche quando è solo infelice e per questo indimenticabile.

mercoledì 23 luglio 2014

i non-luoghi

dopo aver letto del senso dei luoghi di Wim Wenders , mi sono ritrovata, ne La lettura di un paio di settimane fa, nei non-luoghi descritti da Carlo Bordoni.
le due visioni coincidono perfettamente, se il primo è un pieno di senso della vita, è il ritrovamento di una pace e di un orientamento personali, è un'appartenenza, i secondi sono l'alienazione e le depersonalizzazione globali che permeano la nostra vita, apparentemente solo quella commerciale in realtà anche quella spirituale. bisogna scegliere, io temo, in che posizione mettersi, rispetto a un luogo, se dentro o se fuori, se esserci o se non esserci, se abitare corporalmente e mentalmente o permanere nel non-spazio della virtualità sospesa. anche stare è una scelta etica.
«Gli artisti non devono mai accettare e tollerare quel che accade. Ma devono insegnare a vedere; affrontare il mondo con serietà. Non possono limitarsi ad accogliere la spazzatura che ci circonda. Hanno l’obbligo di scegliere: lasciarsi inquinare o trovare alternative etiche. È allora che scatta la risposta dei nostri occhi, della nostra mente. Un film, una fotografia o un quadro possono guarire l’anima spezzata. È, questa, la nostra responsabilità come artisti: non rinunciare mai. Ma proteggerci dal cinismo dominante. Smascherare i trucchi nascosti dietro la valanga di cose false che ci assediano. E dare spazio a immagini diverse».
e dopo Wim Wenders e le sue sante parole, il bellissimo articolo di Bordoni e la sua mirabile analisi.

Ma oggi la merce sembra produrre senso solo al supermercato 
di CARLO BORDONI

C'era una volta l'oggetto d'affezione. Conservato con cura, tramandato di padre in figlio, ricco di significato. A volte ragione di vita, più spesso legame identitario da mostrare pubblicamente con orgoglio, come status symbol. Ma la liberazione dell'oggetto dalla sua funzionalità pratica e la sua collocazione sul piano estetico, già dal momento in cui Jean Baudrillard ne esaltava la centralità regolatrice nella società dei consumi (Il sistema degli oggetti, 1968), ha modificato il suo rapporto col mondo. Se è vero che, come scrive Adriano Favole, c'è un recupero del valore affettivo delle cose, in ragione della loro capacità di conservare la memoria e testimoniare l'abilità umana del fare artigianale, le merci — dopo la fase iperconsumistica della società occidentale —hanno subito una drastica riduzione di significato. 
Negli ultimi anni l'oggetto ha smarrito la sua capacità intrinseca di produrre senso, si è fatto amorfo, «disaffettivo», scoria di un tempo perduto, in cui ricercare almeno l'utilità marginale. Che cosa è accaduto all'oggetto estraneo a quel «recupero di senso» di cui scrive Favole? Perché ha perduto l'aura che lo rendeva quello speciale, necessario, insostituibile «oggetto del desiderio»? C'è stato uno spostamento significativo, uno scivolamento dal «testo al contesto», dalla cosa in sé al contenitore in cui è conservato e mostrato pubblicamente. 

Si tratta, a ben vedere, di una vera «socializzazione» dell'oggetto, dove a produrre senso non è più la cosa, ma il suo rapporto con ciò che la circonda: le altre merci, l'arredo, la vetrina, la pubblicità, la stessa dilatazione dello spazio scenico in cui è collocato. Questa innovazione, questa trasformazione in direzione del socialmente condiviso è molto importante nel momento in cui l'oggetto viene sottratto al suo contesto pubblico e, per così dire, privatizzato; per effetto del processo di acquisto è trasferito dall'offerta collettiva, in cui è visibile a tutti, all'uso personale del singolo. La merce si abbrutisce immediatamente nella deposizione casuale all'interno del carrello della spesa e nello sguardo indifferente della cassiera. Verrebbe quasi voglia di riporlo sullo scaffale accanto ai suoi simili, ma ormai è troppo tardi: è stato desacralizzato, reciso, tolto dal ramo e può solo sfiorire nella sua materialità, divenuta di colpo inutile. Appare così superata la questione dell'obsolescenza programmata, per cui il bene strumentale è costruito in maniera tale da perdere valore d'uso dopo un periodo di tempo limitato, sostituita da una valorizzazione sociale che sfuma al momento stesso dell'acquisto. L'oggetto si «spegne» e si svuota di significato sociale. 
Perché nella società liquida anche gli oggetti hanno sofferto lo smarrimento delle loro certezze, il potere universalmente riconosciuto di rappresentare un valore di per sé, in favore invece di un significato indotto dal luogo, dal contesto e dalle modalità in cui vengono presentati all'offerta collettiva. Questo processo, tipico del nostro tempo, è la spettacolarizzazione, cioè la focalizzazione di una cosa, di un evento, di una o più persone attraverso un processo comunicativo, finalizzato a conferire un valore e un senso che di per sé non avrebbero. 
Nel caso degli oggetti, questo processo avviene in un particolare contesto, dove le merci sono esposte e offerte al pubblico con sapienti accorgimenti di marketing, packaging, collocazione, pubblicità, tali non solo da renderli appetibili per la loro estetica, per il senso di abbondanza e di disponibilità che comunicavano, ma soprattutto perché «socializzati», dotati di un valore collettivo che è dato proprio dalla loro presenza in quel luogo particolare. La spettacolarizzazione attira l'attenzione, produce significati e, quindi, bisogni. Compito che è assicurato dalle grandi «architetture collettive adibite ad attività legate all'acquisto collettivo», capaci di realizzare una sorta di «metropolizzazione» del sociale, come rivela Vanni Codeluppi in Metropoli e luoghi del consumo (che inaugura la nuova collana «Sociologie», Mimesis 2014). Spazi urbani artificiali, luoghi d'incontro alternativi alle città, che richiamano l'antico desiderio dell'agorà e del borgo a misura d'uomo, poiché «non esiste più una civitas urbana — scrive Codeluppi — con le sue piazze e le sue strade indispensabili al funzionamento del modello moderno». Di quel modello di modernità entrato in crisi da tempo. 

Queste architetture sono le «super-merci», dislocate in un territorio generalmente distante dai centri urbani, dove si arriva in auto, caratterizzate da grandi spazi, da parcheggi gratuiti, da servizi di ristorazione e cura personale, dall'apertura continuativa, dall'accoglienza festosa, dall'abbondanza dell'offerta, dalla spettacolarizzazione delle merci e da un'assoluta autoreferenzialità, tutta concentrata al proprio interno, che induce a un senso di isolamento psicologico e finalizza l'attenzione su tutto quanto è esposto. Dentro, quasi sempre privi di finestre, sono cancellati (notte/giorno, luce/buio), sono soppressi gli orologi e rinnovati continuamente gli arredi per dare un'impressione di brillante attualità. Qui vige la pratica della «ikeizzazione», dell'esibizione di oggetti lungo un percorso obbligato, senza aperture, senza distrazioni, che termina con i magazzini e con le casse, secondo il principio dei parchi a tema: «Nulla che non sia il parco deve essere visibile dall'interno del parco» (Giandomenico Amendola). O meglio un «non-luogo» dove, secondo la ben nota definizione di Marc Augé, si attua la spersonalizzazione dell'individuo. Perché si tratta dei grandi centri commerciali, delle cattedrali della vendita al minuto, descritte da George Bitzer, dove si praticano i riti di una religiosità pagana, meta di flussi inarrestabili di pellegrinaggio consumistico. 
I «non-luoghi»— si sa — sono caratterizzati dall'isolamento e dallo spaesamento dell'individuo, perché slegati da un preciso contesto sociale e culturale, dove si vive un segmento di esistenza in una condizione provvisoria e destabilizzante (sintomatico è il capogiro che può cogliere entrando in un supermercato). Sono occasioni di destrutturazione dell'identità, dove la presenza di sé si giustifica solo con il denaro o la carta di credito esibiti al momento dell'acquisto. In realtà è qui che si rinnova quel «reincanto del mondo» che, secondo Max Weber, si era venuto perdendo per effetto dei processi di razionalizzazione e burocratizzazione, attraverso il recupero di una dimensione mistica, di quella sacralità dell'oggetto di consumo dal precario valore sociale, ben rappresentato dall'affidamento alle nuove tecnologie (indicato da Michel Maffesoil e Ritzer). Un «reincanto» che si dimostra nelle occasioni d'incontro e di aggregazione dei giovani, per niente disturbati dall'alienante ritualità dei centri commerciali, perfettamente a loro agio nei «non-luoghi» dove si ripropone l'idea di un mondo fatto di un eterno presente, lontano dalla famiglia e dalla scuola, fuori dal tempo e dallo spazio, così simili alla realtà virtuale dei rassicuranti social network.

lunedì 21 luglio 2014

vita di Adéle

la misteriosa debolezza del volto
J.P. Sartre

Abdellatif Kechiche dirige Léa Seydoux e  Adèle Exarchopoulos.
sul romanzo "La Vie de Marianne" letto in classe durante un'ora di letteratura si apre la Vita di Adèle, storia d'amore e di formazione di un'adolescente che concede alla macchina da presa ogni dettaglio e ogni sfumatura di sé.
non sono certa di aver mai visto un film così, ne sono rimasta fulminata.
3 ore di film, 3 ore di sconcerto, di passione, di vita, come essere nella vita, nella testa, nel corpo di un'altra.
impressionante. totalizzante. un'esperienza di trasformazione e di verità.
di Adèle si vede tutto, e dico tutto.
la macchina non si distanzia da lei per più di mezzo metro per tutta la durata del film, praticamente una lettura analitica ravvicinata che non si stanca mai di guardare qualsiasi dettaglio. ovviamente anche il più intimo. la vediamo mangiare, respirare, dormire, ogni parte del suo corpo è a nostra disposizione. la si vede con la bocca sporca di cibo -Adéle ama mangiare come qualsiasi cosa simbolo di desiderio nella vita- con briciole o tracce d'unto a sporcarle le labbra, con il naso che cola e non si pulisce mai, piangere senza sciugarsi lasciandosi invadere dalle lacrime senza ritegno, con la bocca aperta mentre dorme, con i capelli sempre tra le mani o sulla bocca a invaderla ovunque, capelli puliti, capelli sporchi, bella e brutta, sudata e stanca, la si vede mentre scopa, mentre si masturba, mentre bacia, mentre si spaventa, sempre a meno di un metro, a volte ancora più vicina. è come un trasferimento, la si sente palpitare, gioire, soffrire, non ci separiamo da lei nemmeno per un istante. è una vita che per 3 ore ci appartiene. è un film di appartenenza, di respiro insieme. sembra di entrarle dentro, a Adéle, nella sua bocca, nella sua pancia, nel suo ventre, nella sua vagina, nella sua saliva, nel suo battito, nella sua timidezza e paura, nel suo desiderio e morte, nella sua speranza e delusione.
“Cosa provate quando avete avuto per la prima volta un colpo di fulmine?” chiede il professore agli alunni della classe di Adèle mentre leggono La Vie de Marianne di Marivaux , “sentite che il cuore ha qualcosa in più o qualcosa in meno?”. che sia in più o in meno, il cuore di Adèle sarà da quel momento in disequilibrio, mai più pieno: o troppo o troppo poco. se con un ragazzo della scuola avrà la prima insoddisfacente esperienza sessuale, è solo con Emma, incrociata per la prima volta in una strada di Lille, che il disequilibrio sarà vero, eccitante e irreparabile insieme. la vita di Adéle è una crescita in seno al vuoto, è la graduale conoscenza del vuoto che l'amore crea, della mancanza che non si colma mai.
Emma è più grande di Adéle, che ha 15 anni, e questa differenza in seno alla loro bella storia di amore si farà sentire nel tempo, come uno scalino che non si colma. Adèle sentirà la differenza, la disuguaglianza, la distanza, ne patirà e sbaglierà fino a perdere l'oggetto del suo amore. poi il vuoto sarà fatale, sarà sofferenza, cambiando solo di forma, dal vuoto della disuguaglianza, al vuoto dell'assenza.




Emma la ritrae, spesso, è una studentessa di belle arti, poi pittrice, e facendole un ritratto, il primo, le cita una frase di Sartre, il filosofo della libertà: "la misteriosa debolezza del volto". 
ed è questo il film, la misteriosa bellezza di questo giovane volto, bellissimo, aperto, esposto, magnetico, umano e vitale, sofferente e magico. così debole, così fragile a volte nella sua fase di formazione, così forte nella resistenza a ciò che fa male, a starci dentro senza scorciatoie, e anche forte nel cogliere ciò che fa bene, ciò che  tutto il desiderio del mondo porta di bello in sè.
le citazioni sono tante, il film è anche colto, profondo e serio. è Antigone che Adèle scopre a scuola, quella giovane eroina che deve scegliere tra la sua legge e la legge di Creonte, una scelta tragica, che, come ogni tragedia, è senza scampo, è destinata alla morte. Antigone lotta fino alla morte per difendere la sua ribellione alle leggi convenzionali, muore in nome della sua legge in antitesi a quella del potere. è il conflitto di ogni adolescente, portare avanti la propria istanza di autonomia rispetto a un mondo già scritto prima di loro, è la storia di Adéle che viaggia nella sua propria vita, nella sua tragedia, intorno a un vuoto conosciuto con l'amore e mai più colmato, un viaggio che la porterà verso l'età adulta e la consapevolezza delle sue perdite e sofferenze.

venerdì 18 luglio 2014

internet e la faccia d'angelo

sono in palestra e mentre faccio finta di allenarmi mi collego ai televisori appesi sul muro connessi con i diversi canali, ormai le palestre ggggiuste non mancano di questi intrattenimenti per i forzati della linea.
mi collego al telegiornale, ammetto di non ricordare a quale canale, probabilmente mediaset me non credo che faccia alcuna differenza in questo mondo che non mi appartiene, e tra le notizie, tra l'aereo civile abbattuto in Ucraina, le indagini di Yara e i bambini morti a Gaza, ecco apparire la notizia che vuole una piccola bambina di 6 settimane morire in ospedale a causa di una grave malattia epatica congenita.
l'immagine della foto la vuole minuscola e intubata, due occhi sgranati, ma ancora mezzi ciechi, sfuocati sul mondo...
il padre, dice la notizia, appena morta la figlia, mette l'immagine sul web e chiede, avendola vista solo così, intubata, abbracciata solo così, fasciata da sondini e rilevatori, di poter far "ripulire" l'immagine da mani esperte e vederla come non l'ha mai vista, come fosse stata sana e libera dalle chele della medicina.
eccolo accontentato, in pochissimo tempo fa il giro sul mondo virtuale l'immagine della bambina, rinata, ripulita, sana, bellissima è vero, qualcuno le ha messo le ali di un angelo, qualcuno degli occhi cerulei improbabili, qualcuno, più mestamente, si è limitato a liberarla e basta.
sgorgano le lacrime ma, soprattutto, per parte mia, la rabbia.
mi è intollerabile la pubblicizzazione del dolore e mi domando perché ormai al mondo non ci sia più nessuno che sappia soffrire da solo, in silenzio, chiuso nella sua stanza con la sua bambina tra le braccia.
perché nessuno sappia più gioire da solo o con i suoi cari senza fare di questo un caso mondiale di esternazione di una felicità infinita irraggiungibile e invidiabile dal resto degli umani.
mi domando perché ogni singola foto -e quante sono inutuli stupide ripetitive tutte con la lingua di fuori e i lineamenti distorti- ed evento della nostra vita debba finire sui social network blog e chi più ne ha più ne metta come se la nostra esistenza fosse negata e inesistente se non mostrata impudicamente e svergognatamente, volgarmente a tutta un'umanità a noi assolutamente sconosciuta e che di noi di fatto se ne frega.
le immagini di questa bambina e l'idea di questo povero padre che non sa portare la foto a un privato qualunque che gli faccia un buon lavoro e portarsela a casa e piangerne, da solo, con la moglie, mi scandalizzano purtroppo oltre alla compassione per la bambina e i suoi genitori.
anch'io mi sono disperata ma pensando a quella povera bambina messa sulle pagine di migliaia di computer, esposizione mediatica (web e tv e chissà cos'altro), deturpata da immagini anche orribili, ridicolizzata dalle ali di un angelo, alienata da occhi da extraterrestre, certamente seguita da lacrime di cordoglio, che non sono per lei ma per le nostre povere anime afflitte dalla nostra personalissima angoscia di morte, all'oltraggio che ha ricevuto, al cattivo gusto, sospinto dalla disperazione, di un genitore che non ha una struttura emotiva e affettiva e simbolica sufficientemente formata da saper tenere pensare piangere afflliggersi addolorarsi disperarsi immaginare il suicidio patire l'ingiustizia  SOFFRIRE da solo con se stesso e abbia bisogno del virtuale per dare il senso a una perdita altrimenti senza senso.
nessuno sa più stare nel non senso senza annegarsi nel web, nelle braccia di un mondo senza contatto, senza immolarsi alla necessità della pubblicità sui muri, nessuno sa più cosa sia l'amore senza che debba essere immolato alla causa dei pixel e dei selfie e dell'esposizione dell'intimità che diventa oltraggio al pudore.
nessuno sa più amare e soffrire con il solo conforto della propria anima e dei propri riferimenti personali.
sono turbata, impietosita non dalla povertà dell'uomo ma da quella bambina vittima dei nostri incolmabili vuoti.

giovedì 17 luglio 2014

Mimmo Rotella. Décollages e retro d’affiches

“ L'arte è pace e profezia. Dopo la morte c'è rinascita."
si Rotella mi piace, o meglio, mi piacciono molto alcune sue creazioni, così, perchè sono singolari, colorate, fantasiose, significative. e forse non solo.


mi piace lo strappo dei manifesti dal muro, mi piacciono le foto che lo ritraggono in questo gesto, in strada, in mezzo alla gente anni '60, mi piace la gestualità e la postura, il pensiero che li sostiene, e poi la ricomposizione dei pezzi come in un puzzle. a volte l'esito è sorprendente e accattivante. mi piacciono i décollages e non mi piacciono, proprio no, i retro d'affiches, che sono piatti, senza colore nè significato.
mi piace la trasfigurazione delle icone, cinematografiche in genere e di Marylin in particolare, la frammentazione delle immagini che toglie enfasi e restituisce all'informale, al popolare, all'oggetto strappato senza alcuna eleganza nè divismo. 
mi piacciono lo sfregio, le cicatrici, la decomposizione, la deturpazione del divino. e la ristrutturazione, la colla, i frammenti, le strisce, anche brutte, ma deve essere così. agisce sul foglio sul cartone, no?, eppure smantella molto più in profondità. smantella il mito, esprime anche la rabbia che sta spesso dietro l'evocazione adorante. l'amore e l'odio. ecco i suoi décollages, lacerati, laceranti.
mi piace.







E’ stata presentata a Palazzo Reale la mostra, in programma dal 13 giugno al 31 agosto 2014, “Mimmo Rotella. Décollages e retro d’affiches”, curata da Germano Celant, promossa e prodotta da Comune di Milano - Cultura, Palazzo Reale, Mimmo Rotella Institute e Fondazione Mimmo Rotella. L’esposizione costituisce una prima puntuale ricognizione sull’attività iniziale di Mimmo Rotella (Catanzaro, 1918 – Milano, 2006), artista poliedrico e noto per l’invenzione del décollage, forma artistica da lui ideata e realizzata a partire dai primi anni Cinquanta. “Mimmo Rotella è stato un importante punto di riferimento culturale per la città di Milano, scelta dall’artista stesso come dimora a partire dagli anni Ottanta, e la mostra di Palazzo Reale intende dare un tributo alla sua attività, che nel tempo ha acquisito caratura internazionale – ha dichiarato l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno –. Il percorso espositivo concepito da Germano Celant è un vero e proprio viaggio nella storia culturale dell’Italia del Dopoguerra, che si espande fino a prendere in analisi anche il contesto europeo e statunitense”. La mostra, che espone circa centocinquanta opere, si focalizza sul periodo che si estende dal 1953, anno delle prime sperimentazioni sul manifesto lacerato, per arrivare al 1964, quando Rotella partecipa alla XXXII Biennale di Venezia. Un momento specifico di ricerca, approfondimento e confronto che si avvale di importanti prestiti da collezioni pubbliche e private, nazionali e internazionali, tra cui il Museo del Novecento di Milano, MACRO di Roma, Carré d’Art-Musée d’art contemporain di Nîmes e Musée National d’art moderne - Centre Pompidou di Parigi, Tate Modern, Londra, Mart - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Galleria nazionale d'arte moderna e contemporanea, Roma. Il percorso dell’esposizione si sofferma su alcuni momenti fondamentali dell'inizio della carriera dell’artista. A Roma, dove si trasferisce subito dopo il rientro in Italia dalla residenza alla Kansas City University del 1952, Rotella stabilisce un dialogo sia con la generazione precedente sia con i suoi coetanei. È in questo ambito che ricorre a un simbolo del rinato contesto urbano: il manifesto pubblicitario. La sua sperimentazione lo porta a rimodulare il poster in ogni modo possibile: quale unità di partenza per lo studio dell’aspetto materico che assume a contatto con la tela grezza, quale particella elementare per la costruzione di un immaginario astratto e come studio della forma che va a costituirsi sul retro del manifesto, tramite l’azione di colle e ruggini.

"Strappare manifesti dai muri è la sola compensazione, l'unico modo di protestare contro una società che ha perduto il gusto del cambiamento e delle trasformazioni favolose."



lunedì 14 luglio 2014

finalmente Truffaut

un bel regalo, il finale della Milanesiana 2014, almeno il mio finale.
sono al Franco Parenti, seduta a lato addossata a una parete di mattoni rossi della sala principale, grande ma piccola per la coda di gente che cerca di entrare. io ormai lo so che non si entra tutti e cerco di venire sempre con un ossessivo anticipo oceanico, che poi mi ripaga della mia fatica, del mio sintomo.
c'è anche una foto della sala vista dal palco e io sono lì, in alto a destra, bella contenta del mio posto a sedere.

c 'è da dire che la signora alla mia destra -stile vetero hippy davvero inconsueto- mi tormenta di domande noiose sui prossimi appuntamenti, le sedi, gli orari..."non lo so, c'è un programma, lo trova all'entrata e a fine serata la Sgarbi comunica sempre cosa si farà di bello il giorno dopo", dico io..."ah davvero? non mi sembra proprio", mi dice la signora," non l'ha mai fatto!!" e già qui capisco che qualcosa non va, la Sgarbi -alla quale non posso perdonare una serie infinita di scarpe indegne e mortificanti mostrate in diverse occasioni per altro a offesa di vestiti spesso gradevoli e appropriati- è più ossessiva di me, non c'è sera in cui non faccia, oltre alla citazione del numero della serata in corso, tutta la rassegna di quel che ha da venire. inoltre la signora mi ipotizza la presenza, domani, a una serata di canto, di Celentano. e qui non so se disperarmi o ridere, vorrei dire alla signora che ha sbagliato rassegna e città, non so più cosa aspettarmi, spero solo che d'ora in poi stia zitta e si ravveda al più presto che il nome della via del teatro era simile alla sede di registrazione della Rai...
inoltre ho davanti una coppia di innamorati, della nuova serie, non quella di Peynet, con cellulare oltre i 500 euro -quindi nemmeno giovanissimi- che si tormenta e si sfinisce di selfie inutili e tutti uguali, foto brutte da cancellare con i volti distorti dalla vicinanza dello schermo, in un continuo movimento ondulatorio, da destra a sinistra e viceversa, avanti e indietro, luce fastidiosa dello schermo nella sala buia e, teoricamente, concentrata sullo spettacolo, un vero tormento per me, diciamolo. li ho già squalificati e li immagino a inviarsi sms al veleno nel giro di pochissimi mesi, con tanto di foto scattate a supporto di quel che eri e ora non sei più. amen.
mi piace lo spettacolo, la sua presentazione prima e il suo svolgimento dopo.
per spiegare lo spettacolo prendo a prestito un articolo del corriere di domenica scorsa
 «Senza quell'infanzia devastata che lo segnò intimamente, senza le ferite del cuore, senza la voglia di rivalsa, di affermare la propria identità, il cinema di Truffaut non sarebbe stato lo stesso. Quel grumo di dolore, quell'impasto di tormento e amarezza hanno plasmato la sua arte». A rendere omaggio a François Truffaut è Sergio Rubini, protagonista l'8 luglio al Teatro Franco Parenti, in anteprima assoluta per Milanesiana, di Finalmente Truffaut, di Mario Sesti e Valerio Cappelli (con la regia di Luca Volpatti). Regista, sceneggiatore e critico, Truffaut (1932-1984) fu con Godard, Chabrol, Rohmer e Rivette tra i protagonisti della Nouvelle Vague. E, spiega Rubini, «con quel suo amalgamare vita privata e filmografia intendeva non far patire ad altri le sue stesse sofferenze. Certi artisti sono come dei vate- osserva l'attore e regista- esplorano mondi in cui, se ci piacciono, possiamo entrare; o, se ci fanno orrore, evitare. La sua giovinezza fu segnata da una madre anaffettiva, distante. Cercò di compensarne l'assenza con l'ossessione bulimica per le donne. Tentare però di recuperare da adulti quello che non si è avuto da bambini è impossibile. In lui rimarrà, inappagato, un continuo bisogno d'amore».
Cosa ci ha lasciato, secondo lei, Truffaut? «Una grande lezione: anche nei momenti più bui non dobbiamo perdere la speranza, luce di cui l?essere umano ha bisogno per vivere. Truffaut si consacrò all?arte come testimonia, prima ancora dei suoi film, la sua biografia: l?infanzia ferita, la fuga dalla colonia, il riformatorio da ragazzino e poi, da adulto, la diserzione dall?esercito, un tentativo di suicidio per un amore finito male e infine il riscatto. La sua vita privata è una lezione necessaria: abbiamo bisogno di un sognatore visionario che torni a segnarci la strada. Mi sembra una straordinaria opportunità per rileggere il presente. E provare a riscriverlo». 
lo spettacolo si basa sulla lettura e interpretazione di lettere tra l'autore e amici e altri registi. il bello è entrare nel vivo della vita di Truffaut, carpirne lo stile al di là della sua cinematografia, ascoltarne gli umori e l'irruenza, la malinconia e l'enfasi, lo spirito critico caustico e il desiderio di rivalsa.
è straordinaria la lettera al padre in seguito all'uscita de I 400 colpi (di chiara ed evidente natura autobiografica), e a Jean Luc Godard, dopo l'uscita di Effetto Notte.
queste le parole di Godard: “Ho visto ieri “Effetto notte”. Probabilmente nessuno ti dirà che sei un bugiardo, così lo faccio io. [...]Tu dici che i film sono dei grandi treni nella notte, ma chi prende il treno, in che classe, e chi lo guida con la spia della direzione di fianco? [...]Visto Effetto notte dovresti aiutarmi, perché gli spettatori non credano che i film si fanno solo come i tuoi.” 

Truffaut, risponde: “Me ne strasbatto di quel che pensi di “Effetto notte”. Quel che trovo penoso da parte tua è il fatto di andare, ancora oggi, a vedere un film di cui conosci in anticipo il contenuto, che non corrisponde né alla tua idea di cinema né alla tua idea di vita. [...] Tu hai cambiato la tua vita, il tuo cervello e nonostante questo tu continui a perdere ore al cinema a farti male agli occhi. Perché? Per trovare di che alimentare il tuo disprezzo per noi tutti, per rinforzarti nelle tue nuove certezze?”.  la lettura, per intero, dei due passaggi è molto accattivante, Rubini è straordinario e sottolinea con talento il calore di Truffaut che risponde con compiutezza e passione alla lettera breve e fredda di Godard.
come sottolineato da Stefano Salis nella presentazione allo spettacolo, le immagini finali de I 400 colpi, il film di esordio, sono una dedica appassionata, una lettera d'amore per il cinema, una confessione immediata della propria incurabile inquietudine e debolezza, una domanda incessante e disperata sulla vita in attesa di risposta. durante una partita di pallone nel riformatorio nel quale è stato rinchiuso, il dodicenne Antoine, alter ego di Truffaut, approfitta della disattenzione dei sorveglianti e fugge. con una lunga corsa arriva sino al mare (che non aveva mai visto prima), si spinge sino alla battigia, si volta dopo essere entrato con tutte le scarpe nell'acqua e il film finisce con un fermo immagine che ne inquadra lo sguardo sconcertato e pieno di dolore, il mare arresta la sua fuga ma non la sua domanda di vita. Fin.




bello il finale della Milanesiana, il finale di Truffaut.


venerdì 11 luglio 2014

progettando

2004–2014. Opere e progetti del Museo di Fotografia Contemporanea.
girando in bici, una visita in Triennale è sempre un buon corroborante, una sferzata di energie mentale.
scelgo, tra le altre, questa esposizione.
Il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo (Milano) festeggia dieci anni trasferendo la sua attività espositiva estiva alla Triennale di Milano per far conoscere a un più ampio pubblico cento capolavori acquisiti nel decennio e quindici progetti. Inaugurato nel 2004, dopo una lunga gestazione, nella sede di Villa Ghirlanda, il Mufoco è l’unica istituzione museale italiana dedicata alla fotografia finanziata pubblicamente. Vanta una collezione di due milioni di immagini e una biblioteca specializzata con 20 mila volumi e riviste e opera più livelli: conservazione, catalogazione e valorizzazione del patrimonio fotografico e bibliotecario; realizzazione di mostre; pubblicazione di cataloghi e testi di studio; promozione della cultura visiva; ideazione di progetti di committenza ad artisti contemporanei e di progetti di arte pubblica con la partecipazione dei cittadini. L’esposizione “2004-2014. Opere e progetti del Museo di Fotografia Contemporanea”, allestita alla Triennale dal 3 luglio al 10 settembre offre una panoramica su questa attività culturale. Le due parti del percorso espositivo – opere e progetti – sono strettamente intrecciate; i temi comuni sono il paesaggio urbano e naturale, la figura umana, la società in trasformazione, la sperimentazione artistica. Oltre alle fotografie sono presenti numerosi video e filmati di documentazione; il catalogo è pubblicato da Silvana Editoriale a cura di Roberta Valtorta.







alcune foto belle, anche di nomi noti che non riporto -il nome no le foto si- perché ce n'erano di meno noti, o meglio ignoti, con altrettanto belle foto che non trovo. democraticamente non cito nessuno. 
ma soprattutto, in questa breve e inaspettata e oscura mostra (un'ambientazione molto buia), c'era un bellissimo video che mi ha ipnotizzata. un video in mezzo a molti altri, tutti sperimentali e originali, focalizzati sulle persone, sui giovani in particolare, sul paesaggio, urbano periferico e rurale, sulla convivenza civile, sulla conoscenza, faticosa, del sè. 
molti i progetti seguiti da Cristina Nunez, fotografa esperta di autoritratto che fa di questo talento una via introspettiva di consapevolezza personale. il video che mi ha catturata -di cui non ricordo il nome -forse Identità Future?- consisteva in sequenze fisse di alcuni minuti su volti di adolescenti. alcuni rimanevano immobili nella posizione iniziale, altri sceglievano prima il profilo per poi girarsi di faccia, alcuni singoli, altri in coppia. i volti di questi ragazzi, silenziosi, fissi rivelavano molto di loro: per alcuni era meno problematico, anzi quasi una sfida, mostrare i propri occhi aperti e diretti sulla videocamera, per altri impossibile. per alcuni la solitudine nella stanza risultava una scelta necessaria, per altri, al contrario, lo era la vicinanza con un coetaneo ma, al contempo, con il passare dei minuti, imbarazzante. per alcuni la posizione del corpo e del volto consisteva in sequenze e posture naturali e istintive, incuranti del giudizio altrui, per altri certamente studiate e ragionate, innaturali, chiaramente indotte dal bisogno di pensarsi "visti" dall'Altro. 
un lavoro di indagine apparentemente semplice ma fortemente espressivo. 
l'adolescenza è un rito di passaggio, si va verso la propria identità, a volte spavaldi, a volte inciampando. 
ero assolutamente all'oscuro dell'esistenza di questo luogo di raccolta, di ricerca, di indagine, di archivio fotografico, di cultura visiva, digitale e non, di cultura d'immagine, il MUFOCO a Cinisello Balsamo, a Villa Ghirlanda (http://www.mufoco.org/), a due passi da casa, luogo che scopro essere frequentato e abitato da molti artisti contemporanei, luogo da conoscere e riconoscere. 
ancora una volta mettere il naso in mostre e musei è un buon modo per entrare nel mondo e chiedere di parteciparvi.

martedì 8 luglio 2014

il senso dei luoghi

quest'anno la Milanesiana ha offerto molto, ma poco per il mio tempo e disponibilità. tra le cose più attraenti c'erano inviti per le 12.00 o le 17.30, difficile partecipare.
sono riuscita a mettere il naso almeno tre volte tra cinema Dal Verme, Iulm e teatro Grassi, e spero oggi al Franco Parenti, ma sono soddisfatta comunque perché la serata al teatro Grassi è stata molto interessante e intensa soprattutto grazie a un mirabile intervento di Wim Wenders.
il suo intervento si è focalizzato sul senso del luogo, un concetto particolare, un concetto che ispira curiosità e pace, un dialogo con il mondo, i suoi spazi, che siamo alberi o città, un intervento rasserenante, rassicurante, fiducioso. non sono riuscita a trovare il testo ma almeno un suo riferimento dal libro da cui è stato tratto, Places, strange and quiet. lo stile è più intuitivo e percettivo che non rigorosamente accademico o scolastico, uno stile in linea con il personaggio, con la sua cultura cinematografica e non. salvare il senso dei luoghi: questo in sintesi il compito più alto che all’architettura ed al proprio mestiere il cineasta tedesco assegna. città e periferie, paesaggi naturali ed urbani, contesti architettonici storici e contemporanei, tutti elementi centrali della narrazione cinematografica del noto regista. "Tutti noi stiamo perdendo i nostri istinti basilari. Molte persone non riescono a distinguere ciò che è specifico della loro terra. Non ne sono capaci e non lo ritengono importante". e fra tutte le perdite di cui Wenders così ci dice, la più drammatica degli ultimi cinquanta anni è per lui il senso dei luoghi.  "Nella nostra civiltà – prosegue Wenders – ci siamo abituati a possedere tutto e a distruggere ciò che possediamo". Wenders è un autore che trasmette il senso dei luoghi e con i suoi film ci conduce in luoghi che aiutano a vedere,  a cogliere la realtà come, per esempio, in Lisbon story, per Lisbona, vista e ripresa in tutti i suoi aspetti, i più nascosti, non quelli turistici o commerciali ma una città ferita, che richiede ascolto e attenzione, rivendica una cultura della cura e del recupero.

Luoghi, inconsueti e solitari
Quando si viaggia molto,
e quando si ama semplicemente vagare
e perdersi,
si può finire nei luoghi più bizzarri.
Ho una grande attrazione per i luoghi.
È quasi una sorta di dipendenza.
Altre persone sono dipendenti da droghe o dal calcio,
(beh, anche io…)
dai soldi, dalle automobili, dal successo, o da qualsiasi altra cosa.
Io adoro i luoghi.
Mi lego talmente a loro,
che posso sentire nostalgia per una dozzina di luoghi contemporaneamente.
Cosa c’è di speciale nei luoghi?
Innanzitutto, ne sono molto incuriosito.
Già solo guardando una mappa,
i nomi delle montagne e dei villaggi,
dei fiumi, dei laghi e dei vari paesaggi,
mi eccitano
pur non conoscendoli
e non avendoli mai visitati.
Leggo i nomi
e immediatamente vorrei vedere quei luoghi.
Lo stesso mi accade con le città!
I nomi delle aree, delle piazze, delle vie o dei palazzi
evocano in me un ardente desiderio di visitarli.
Certo non sempre mi piace quello che trovo.
Ma molto spesso sì.
È fortuna?
Ho imparato dalla mia lunga esperienza
nel cercare i luoghi
che si tende a trovare
esattamente ciò che si DESIDERA trovare.
Anche altre persone trovano cose incredibili, ovviamente,
ma sembrano raggiungere risultati diversi rispetto ai miei.
Hanno mentalità diverse, prima di tutto,
e sono alla RICERCA di altro.
Il mio senso di luogo
è impostato su ciò che è “fuori luogo”.
Tutti girano a destra perché
“lì c’è qualcosa di interessante”,
io vado a sinistra
“dove non c’è niente”,
ed è quasi certo,
che io mi trovi dinnanzi il “mio tipo di posto”.
Non so,
è come una sorta di radar incorporato
che spesso mi indirizza verso luoghi
inconsuetamente solitari,
o solitariamente inconsueti.
Sto lì e semplicemente non posso credere a quello che vedo…
È questa la mia sensazione preferita
Si potrebbe iniziare a capire
da dove deriva la mia insaziabile fame di luoghi sconosciuti:
deriva dal fatto
che nel mondo
esistono luoghi e spazi così incredibili
da non riuscire ad essere immaginati neanche nei sogni più fantasiosi,
in colori e forme mai visti,
con i particolari più folli,
in costellazioni impossibili.
Questa è la motivazione per cui non mi interesso
alle immagini generate dai computer,
e a tutte le foto in cui oggi il mondo è riprodotto artificialmente
combinate, manipolate, inventate o composte
per creare una “nuova realtà”
Qual è il “grande dilemma”?!
La realtà che scopro,
ogni volta e in ogni dove,
quei luoghi inconsueti e solitari,
sono così più coinvolgenti ed emozionali, nel mio book,
per il semplice motivo
che esistono.
La maggior parte delle volte con umiltà,
talvolta con orgoglio,
spesso dimenticati
e raramente noti.
Non c’è nulla di più bello sotto il cielo di Dio,
che l’incredibile,
strabiliante,
infinita
varietà di luoghi,
che realmente
esiste.

Wim Wenders

Il testo di Wim Wendersè tratto da:
Places, strange and quiet, 2011

come per il cinema anche per l’architettura l’atto di vedere è fondamentale. e di questo aspetto, del vedere, del saper vedere, parla in una bella intervista rilasciata a La lettura di qualche settimana fa.Wenders si mette in ascolto delle immagini e, insieme, vuole «lasciarle parlare». le concepisce come il luogo della verità incontaminata, dell’adesione incondizionata al reale. Per poter essere pronunciate, quel «luogo» ha bisogno di una percezione rallentata, estenuante. Fare cinema? È «come stare a guardare dalla finestra». 

Nella nostra conversazione con Wenders, che sarà ospite mercoledì 2 luglio alla Milanesiana (Piccolo Teatro Grassi di Milano, ore 21), muoviamo dal monologo di Manoel de Oliveira, in Lisbon Story: «La macchina da presa può fissare un momento, ma quel momento è già passato (…). Abbiamo la certezza che quel momento sia esistito al di fuori della pellicola? O la pellicola è garanzia dell’esistenza di quel momento?». 
Qual è oggi il ruolo del cinema rispetto al visibile? Testimonianza? O critica? 
«Fin dall’inizio, il cinema ha seguito e approfondito entrambe le tendenze. Da un lato, ha voluto dare voce e forza all’esistenza delle cose; dall’altro, ha creato nuove verità. I registi legati alla tradizione dei Lumière hanno sempre avuto il massimo rispetto per il visibile; quelli legati alla tradizione di Méliès hanno costruito universi fantastici. Io sono attratto da un cinema che è ancorato alla nostra realtà e alla nostra esistenza: e aspira a rendere visibile l’invisibile. È un “cinema trascendentale”, che ha i suoi padri in Dreyer, in Bresson e in Ozu, ed è ancora vivo oggi: ad esempio, nell’opera di Terrence Malick ». 
In «Inventare la pace» lei si interroga sul rapporto tra il guardare e il vedere. Quali differenze esistono tra questi due atti? 
«L’osservatore resta all’esterno: è solo un testimone. Se vuole, può voltare gli occhi dall’altra parte. Evita di farsi toccare. Colui che vede, invece, permette al suo cuore di essere coinvolto. Vedere è un atto molto più complesso ed emozionale del guardare». 
 Nel nostro tempo, spesso anche i drammi sono contemplati con superficialità. I media, come hanno rilevato Susan Sontag e Tzvetan Todorov, non si limitano a rappresentare i dolori, ma li spettacolarizzano; li trattano come eventi fotogenici, alimentando in noi indifferenza. 
«È una triste realtà. È vero: guardare troppe sofferenze può renderci indifferenti. Sovente, le tragedie e le guerre finiscono per essere viste come forme di intrattenimento. Questa è una delle ragioni per cui io e Mary Zournazi abbiamo dovuto scrivere questo libro. Abbiamo capito che, prima di parlare di pace, dobbiamo esaminare la natura della nostra percezione oggi». 
Dinanzi all’indifferenza dilagante nei confronti del male, in che modo cinema, fotografia e pittura possono riaffermare la responsabilità etica dello sguardo? 
«Gli artisti non devono mai accettare e tollerare quel che accade. Ma devono insegnare a vedere; affrontare il mondo con serietà. Non possono limitarsi ad accogliere la spazzatura che ci circonda. Hanno l’obbligo di scegliere: lasciarsi inquinare o trovare alternative etiche. È allora che scatta la risposta dei nostri occhi, della nostra mente. Un film, una fotografia o un quadro possono guarire l’anima spezzata. È, questa, la nostra responsabilità come artisti: non rinunciare mai. Ma proteggerci dal cinismo dominante. Smascherare i trucchi nascosti dietro la valanga di cose false che ci assediano. E dare spazio a immagini diverse».

per onore al vero, questo post è è più l'assemblaggio di articoli e testi e citazioni, ma ci tengo a parlare di Wenders e mi ha emozionato vederlo dal vivo, è una persona personaggio, subito unico, subito autentico.




foto di Wim Wenders

domenica 6 luglio 2014

voglio un pensiero... da Hanna Arendt

Il guaio del caso Eichmann era che uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. " (La banalità del male)

è che fuma, non smette di fumare per un solo minuto per tutto il film. una sigaretta via l'altra.
è singolare, o ineluttabile?, scampare ai campi di sterminio nazisti e poi coltivare la propria morte ogni giorno, inesorabilmente.
credo infatti sia morta di infarto, a 69 anni.

ma, al di là di questo particolare, che comunque è un gesto ossessionante che accompagna la sua immagine per tutto il film, Hannah Arendt è stata una figura, filosofa e scrittrice, eccezionale.
il film che la descrive è di Margarethe von Trotta, del 2012. l'attrice è Barbara Sukova.
la fantasia su questa donna mi porta lontano, come è stato, qualche anno fa, per Ulrike Meinhof (http://nuovateoria.blogspot.it/2008/11/voglio-una-vitada-ulrike-meinhof.html). 
sono morbosamente attratta dall'intelligenza e dall'intuizione delle donne, quando così autonome, potenti, forti, convincenti di pensiero. Hanna Arendt si è esposta alla totale incomprensione, e condanna, del mondo intellettuale e non, in anni così caldi dopo la fine e la ripresa economica dalla seconda guerra mondiale, esponendo un pensiero indipendente, e originale, sulla natura del male e del totalitarismo. la sua osservazione è lucida e senza pregiudizio, incondizionata e inconfutabile, eppure interpretata come a difesa dei crimini nazisti, quando invece è a lettura e lezione dell'origine e della perpetuazione del male.
pensare, questo sa fare Hannah, pensare e riflettere. osservare e meditare. sembra una banalità, eppure è una dote rara e preziosissima. pensare pensiamo tutti, così crediamo, ma pensare è una categoria filosofica superiore, non è la prima idea che ci passa per la testa. Hannah fu allieva, sentimentalmente legata, di Martin Heidegger e molto, sicuramente, imparò. provo un'invidia cocente, quanto quella che una qualsiasi donna oggi proverebbe per Angelina Jolie o qualsiasi modella di Victoria's Secret. ma io sono ipnotizzata dall'intelligenza, molto più che dalle gambe lunghe: " Io non credo che possa esistere qualche processo di pensiero senza esperienze personali. Tutto il pensiero è meditazioni (Nachdenken), pensare in seguito a una cosa. "
e nel film, si vede, pensa. sigaretta in bocca, sdraiata nel suo studio, occhi chiusi.
pensa a Eichmann, al suo processo, alla natura del male, al crollo etico nell'Europa travolta dal nazismo, pensa all'importanza del pensiero. saper pensare esclude il male, perchè il male è solo estremo, dice, non radicale, solo il bene è profondo e radicale. 
E' anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E' una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s'interessa al male viene frustrato, perché non c'è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale. " (Scambio di lettere con Gershom Scholem)
il film ricostruisce un periodo fondamentale della vita di Hannah Arendt: quello tra il 1960 e il 1964. all'inizio della vicenda, la cinquantenne intellettuale ebrea - tedesca, emigrata negli Stati Uniti nel 1940, vive a New York con il marito, il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, ha già pubblicato testi fondamentali di teoria filosofica e politica e insegna in una prestigiosa Università. nel 1961, quando il Servizio Segreto israeliano rapisce il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann la Arendt si sente obbligata a seguire il successivo storico processo che si tiene a Gerusalemme. Hannah nota che Eichmann è un mediocre burocrate, che si dichiara semplice esecutore di ordini odiosi e, d'altro canto, si sorprende nell'ascoltare testimonianze di sopravvissuti che mettono in evidenza la condiscendenza dei leader delle comunità ebraiche in Europa, di fronte ai nazisti. dai suoi resoconti, e in seguito dal suo libro, "La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme" (1963), emerge la controversa teoria per cui proprio l'assenza di radici e di memoria e la mancata riflessione sulla responsabilità delle proprie azioni criminali farebbero sì che esseri spesso banali si trasformino in autentici agenti del male. guarda Eichman durante il processo e vede un uomo, un uomo normale, nulla di demoniaco o satanico, nessun fanatismo, nessun estremismo: un burocrate che faceva senza pensare il suo mestiere, obbediva gli ordini, certamente aveva la scrivania in ordine, seguiva in modo impeccabile e rigoroso, ottuso e ossessivo, l'ufficio dei trasporti. quali? le deportazioni degli ebrei nei campi di sterminio. ho ascoltato le registrazioni del processo - non tutte! qualcuna- e alla domanda se fosse consapevole delle sofferenze che infliggeva al popolo ebraico già a partire dalla fase di deportazione- famiglie separate, frammentate, strappate, giorni interi, fino anche a una settimana, stipati nei vagoni in attesa di partire, il freddo, le sofferenze, la fame la sete, i bambini e gli anziani, le botte e le privazioni- Eichmann risponde da segretario: eravamo consapevoli del caos e dei ritardi, sapevamo che in convogli non partivano, c'erano dei disguidi, cercavamo di METTERE ORDINE...Eichmann è un uomo “col raffreddore”, chiuso in una gabbia, che ripete instancabilmente la sua verità: se mi avessero chiesto di uccidere mio padre l’avrei fatto, era un segmento di un sistema, organizzava i treni “ma per lui, una volta partiti, il suo compito era finito”, come spiega Arendt. “Si sente in pace con la sua coscienza?”, chiede a Eichmann il pubblico ministero. “La mia coscienza si fondava su "una scissione consapevole" dovuta a un duro addestramento e all’educazione di una visione del mondo”, risponde. Eichmann è, dunque, un uomo qualunque, un impiegato qualunque che non sa, o non vuole sapere, o che sa ma non ragiona, non pensa e non sa pensare, che sa ma che non da peso. Eichmann potrebbere essere uno qualunque, un impiegato delle poste cui affidiamo una raccomandata. uno di noi. è questa la tragedia.
ad è questa la riflessione sconvolgente di Hanna Arendt: vede che nell'Europa del nazismo il crollo etico e morale aveva trasformato l'uomo in un bene superfluo, un essere inutile, uno scarto di cui ci si può disfare senza che questa mostruosità avesse di fatto mosso il terrore di chi se ne faceva promotore, un vuoto di pensiero abissale che incrementava il male in modo meccanico, ripetitivo, automatizzato, usuale, banale. 
Non era stupido, era semplicemente senza idee[...]. Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell'uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme. Ma era una lezione, non una spiegazione del fenomeno, né una teoria. " (La banalità del male)
non posso non pensare a The reader, film in cui il  personaggio, una donna analfabeta responsabile durante il nazismo della morte di 300 donne bruciate in una chiesa, manca di qualcosa. si intuisce durante il processo, che la sua ignoranza è un'ignoranza globale, totale, di sè. di sè e del mondo. è l'universale annullamento della coscienza e della consapevolezza a favore di un automatismo cieco, di un'obbedienza acefala, di un'adesione senza pensiero. lei obbedisce e non capisce cosa avrebbe mai dovuto fare altrimenti. come se una parte del cervello si spegnesse e non rispondesse alle sollecitazioni dell'anima a favore di una reiterazione ossessiva e senza riflessione autonoma.
non posso non pensare a Se questo è un uomo, in cui Primo Levi dice senza vergogna dell'annullamento del senso dell'essere uomo, del vero annientamento espletato dai nazisti sugli uomini ovvero non solo quello dei corpi ma soprattutto quello di annullare la loro coscienza di sè. Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell’uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo.

il film è lucido e senza retorica, la Sukova è brava e credibile, fuma e pensa, si indigna ma, al contempo, mantiene un estremo rigore, di forma e di comportamento, assume su di sé l'infamia della calunnia e dell'insulto ma non si piega, mantiene ferma la sua posizione, si espone e si esprime, con forza, con vigore, con convinzione e fermezza. perde l'appoggio di molti amici, anche cari, comprende che l'assunzione di responsabiiltà rispetto a ciò che affermiamo ha conseguenze, personali e civili, inevitabili. ma necessarie.
il pensiero è necessario, necessario alla profondità del bene, e necessario all'infondatezza del male, al suo "ininsediamento", necessario a dimostrare la banalità del male ed evitarne l'estremizzazione.
la difesa contro il male è sempre nel pensiero, radicato nelle emozioni e nella storia, quel pensiero, anche se si allontanerà sempre di più dall’idea di Heidegger secondo cui “si pensa da soli”, è legato comunque a un individuo, a un soggetto individuale, al quale unicamente possono ricondursi colpe e responsabilità.  “Io non amo un popolo, ma solo i miei amici”, risponde Hannah Arendt, radicata dentro una tradizione liberale che la portava non solo a essere garantista con lo stesso Eichmann (pur chiedendone la punizione: ma solo per le sue specifiche colpe, non per quelle di tutti, “perché si può processare solo una persona, non un popolo”), ma anche a chiamare in cause le responsabilità di alcuni capi ebraici, senza la cui attiva collaborazione, scrive, “le vittime sarebbero state sicuramente di meno”.
I lager sono i laboratori dove si sperimenta la trasformazione della natura umana[...]. Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver provato soltanto che tutto può essere distrutto. Ma nel loro sforzo di tradurla in pratica, i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare. Quando l'impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia, del risentimento; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire. " (Le origini del totalitarismo)