bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

mercoledì 27 febbraio 2013

quel che si vede nelle vetrine pubblicitarie in città

Giorgio Armani - collezioni primavera estate 2013
potrei vendere mia sorella per un paio di sandali così.
(ovviamente non ho una sorella, quindi nemmeno i sandali)


si portano anche meglio di così,
unghie rosso sangue per favore.
che innominabile rinuncia, la mia. 

martedì 26 febbraio 2013

Marianna Ucria

Marianna è sordo muta, ma non dalla nascita. un mistero avvolge la sua menomazione.
Marianna è una creatura letteraria, nata per mano di Dacia Maraini.
è una figura femminile amabile, intensa, curiosa, intelligente, materna, sensuale.
colta, e libera di pensiero.
vive nella Sicilia del 700, famiglia Ucria, aristocratica agiata immersa nelle convenzioni del tempo avvolta da una terra odorosa e saporosa, un'ambientazione da sogno, forse l'aspetto più straordinario di questo bellissimo romanzo.
siamo, con lei, nella dimensione della sana concretezza dei sensi, se pure alcuni  menomati, al contrario gli altri esaltati. Marianna Ucria ama, sa amare e sa anche quando è il tempo di sottrarsi all'amore. sa quando esserci e quando no. sa mettere le giuste distanze, sa quando è il tempo giusto delle cose.
Marianna è solida, figlia di un padre amatissimo e di una madre mollemente aristocratica e spenta, destinata a 13 anni a un matrimonio con uno zio di almeno 30 anni più anziano di lei, è intrisa, simbolicamente, dei suoi genitori, è nata con il loro destino già inscritto nel suo stesso futuro.
Chissà che aveva in quella testa sempre languidamente reclinata su una spalla la dolcissima signora madre! […] Con quella tendenza a impigrirsi dentro un letto sfatto, dentro una poltrona, perfino dentro un vestito in cui si assestava appoggiandosi con le carni molli alle stecche di balena, ai ganci, financo alle asole. Una pigrizia più fonda di un pozzo nel tufo, un torpore che la conteneva come un baccello di carruba contiene il seme duro, morbido color della notte.
...
quel Signor Padre che ha un modo tutto suo di montare sul baio acchiappandosi alla criniera corvina parlando al cavallo con fare persuasivo. […] Quando il vapore umido del mare prende a salire alle narici fresco e salato, il baio solleva le zampe anteriori e in pochi attimi, con una spinta poderosa dei fianchi, si solleva da terra. L’aria si fa più leggera, pulita; dei gabbiani vengono loro incontro stupefatti. Il signor padre incita il cavallo […], certamente questa volta la sta conducendo con sé in paradiso…

ci sono passi bellissimi nel libro che la ospita che ne descrivono la sensazione di non appartenenza al suo corpo. andata sposa da bambina, senza alcuna consapevolezza del suo sè e del suo desiderio, è stata oggetto degli assalti sessuali rapaci e voraci del marito, di quegli uomini che non conoscevano altro modo di avvicinarsi alle mogli bambine se non con l'assedio alla carne, il volo assassino, il pasto veloce e carnivoro, l'abbandono immediato della vittima, morta, al suolo. un rapace. otto volte è stata assediata e otto volte è rimasta incinta.
Fuori è buio. Il silenzio avvolge Marianna sterile e assoluto. Fra le sue mani un libro d'amore. Le parole, dice lo scrittore, vengono raccolte dagli occhi come grappoli di una vigna sospesa, vengono spremuti dal pensiero che gira come una ruota di mulino e poi, in forma liquida si spargono e scorrono felici per le vene. E questa la divina vendemmia della letteratura? Trepidare con i personaggi che corrono fra le pagine, bere il succo del pensiero altrui, provare l'ebbrezza rimandata di un piacere che appartiene ad altri. Esaltare i propri sensi attraverso lo spettacolo sempre ripetuto dell'amore in rappresentazione, non è amore anche questo? Che importanza ha che questo amore non sia mai stato vissuto faccia a faccia direttamente? assistere agli abbracci di corpi estranei, ma quanto vicini e noti per via di lettura, non è come viverlo quell'abbraccio, con un privilegio in più, di rimanere padroni di sé? Un sospetto le attraversa la mente: che il suo sia solo uno spiare i respiri degli altri. Così come cerca di interpretare sulle labbra di chi le sta accanto il ritmo delle frasi, rincorre su queste pagine il farsi e il disfarsi degli amori altrui. Non è una caricatura un po' penosa? Quante ore ha trascorso in quella biblioteca, imparando a cavare l'oro dalle pietre, setacciando e pulendo per giorni e giorni, gli occhi a mollo nelle acque torbide della letteratura.Che ne ha ricavato? qualche granello di ruvido bitorzoluto sapere. Da un libro all'altro, da una pagina all'altra. Centinaia di storie d'amore, di allegria, di disperazione, di morte,di godimenti, di assassinii, di incontri, di addii. E lei sempre lì seduta su quella poltrona dal centrino ricamato e consunto dietro la testa. La parte bassa degli scaffali, quelli raggiungibili da mani infantili contengono soprattutto vite di santi: La sequenza di santa Eulalia, La vita di san Leodegario, qualche libro in francese Le jeu de saint Nicolas, il Cymbalum mundi, qualche libro in spagnolo come il Rimado de palacio o il Lazarillo de Tormes. Una montagna di almanacchi: della Luna nuova, degli Amori sotto Marte, del Raccolto, dei Venti; nonché storie di paladini di Francia e alcuni romanzi per signorine che parlano d'amore con ipocrita licenza. Più sopra, negli scaffali ad altezza d'uomo si possono trovare i classici: dalla Vita nuova all'Orlando furioso, dal De rerum natura ai Dialoghi di Platone nonché qualche romanzo alla moda come il Colloandro fedele e La leggenda delle vergini. Questi erano i libri della biblioteca di villa Ucrìa quando l'ha ereditata Marianna. Ma da quando la frequenta assiduamente i libri sono raddoppiati. Da principio la scusa era lo studio dell'inglese e del francese. E quindi vocabolari, grammatiche, compendii. Poi, qualche libro di viaggi con disegni di mondi lontani e infine, con sempre più ardimento,romanzi moderni, libri di storia, di filosofia. Da quando i figli sono andati via ha molto più tempo a disposizione. E i libri non le bastano mai. Li ordina a dozzine ma spesso ci mettono dei mesi per arrivare. Come il pacchetto che conteneva il Paradise Lost che è rimasto cinque mesi al porto di Palermo senza che nessuno sapesse dove fosse andato a finire. Oppure la Histoire comique de Francion che è andato perso nel tragitto fra Napoli e la Sicilia in un battello che è affondato al largo di Capri. Altri li ha prestati e non ricorda più a chi; come i Lais di Maria di Francia che non sono più tornati indietro. O il Romance de Brut che deve essere nelle mani di suo fratello Carloal convento di San Martino delle Scale. Queste letture che si protraggono fino a notte fonda sono prostranti ma anche dense di piaceri. Marianna non riesce mai a decidersi ad andare a letto. E se non fosse per la sete che quasi sempre la strappa alla lettura continuerebbe fino a giorno. Uscire da un libro è come uscire dal meglio di sé. Passare dagli archi soffici e ariosi della mente alle goffaggini di un corpo accattone sempre in cerca di qualcosa è comunque una resa. Lasciare persone note e care per ritrovare una se stessa che non ama, chiusa in una contabilità ridicola di giornate che si sommano a giornate come fossero indistinguibili. La sete ha messo il suo zampino in quella quiete sensuale togliendo profumo ai fiori, ispessendo le ombre. Il silenzio di questa notte è soffocante. Tornata alla biblioteca, alle candele consumate, Marianna si chiede perché queste notti le stanno diventando strette. E perché ogni cosa tenda a precipitare verso l'interno della sua testa come dentro un pozzo dalle acque scure in cui ogni tanto echeggia un tonfo, una caduta,ma di che? I piedi scivolano delicati e silenziosi sui tappeti che coprono il corridoio; raggiungono la sala da pranzo, attraversano il salone giallo, quello rosa; si fermano sulla soglia della cucina. La tenda nera che nasconde il grande orcio dove si conserva l'acqua da bere è scostata. Qualcuno è sceso a bere prima di lei. Per un momento è presa dal panico di un incontro notturno col signor marito zio. Da quella notte del rifiuto non l'ha più cercata. Le sembra di avere intuito che amoreggi con la moglie di Cuffa. Non la vecchia Severina che è morta ormai da un po', ma la nuova moglie, una certa Rosalia dalla folta treccia nera che le ciondola sulla schiena. Ha una trentina d'anni, è di temperamento energico, ma col padrone sa essere dolce e lui ha bisogno di qualcuno che accolga i suoi assalti senza raggelarsi. Marianna ripensa ai loro frettolosi accoppiamenti al buio, lui armato e implacabile e lei lontana, impietrita. Dovevano essere buffi a vedersi, stupidi come possono esserlo coloro che ripetono senza un barlume di discernimento un dovere che non capiscono e per cui non sono tagliati. Eppure hanno fatto cinque figli vivi e tre morti prima di nascere che fanno otto; otto volte si sono incontrati sotto le lenzuola senza baciarsi né carezzarsi. Un assalto, una forzatura, un premere di ginocchia fredde contro le gambe, una esplosione rapida e rabbiosa. Qualche volta chiudendo gli occhi al suo dovere si è di era distratta pensando agli accoppiamenti di Zeus e di Io, di Zeus e di Leda come sono descritti da Pausania o da Plutarco. Il corpo divino sceglie un simulacro terreno: una volpe, un cigno un’aquila, un toro. E poi, dopo lunghi appostamenti fra i sugheri e le querce, l'improvvisa apparizione. Non c'è il tempo di dire una parola. L'animale curva i suoi artigli, in chioda col becco la nuca della donna, e la ruba a se stessa e al suo piacere. Un battere di ali, un fiato ansante sul collo, il taglio dei denti su una spalla ed è finito. L'amante se ne va lasciandoti dolorante e umiliata.

Ci sono passi bellissimi che descrivono l'appartenenza del corpo femminile, a quei tempi, alla sola procreazione, un corpo prestato alla discendenza, un corpo abitato dagli altri, violato o parassitato, un corpo vestito e poi svestito, un corpo mai appartenuto, mai vissuto come proprio.
Marianna passa attraverso l'espropriazione e l'alienazione e poi, come sarebbe nel destino di tutti o solo dei più fortunati, si appropria della sua soggettività, dopo essersi scarnificata e liberata di ciò che non le appartiene ma le è stato solo attribuito simbolicamente per nascita e genetica, e finalmente vive, pur nelle sue evidenti mancanze, vive la vita del suo saper stare al mondo. vivere non è saper stare nella nostra mancanza, soffrendo per questo il meno possibile?
la bellezza infinita del libro sta, oltre che nel solare personaggio di Marianna, nella terra, negli odori, nei sapori, nella frutta, nella ricotta fresca, nel sambuco e nel bergamotto, nelle melanzane, nelle uvette candite e
nelle cassate, in un sapore così forte così intenso così carico da sentirlo in bocca.
Lo sfondo è proprio quello di una terra orgogliosamente ancorata alla sua inettitudine e alla sua profonda corruzione, profumata, arsa, sfavillante di limoni, di odori, di pietanze succulente, di estati torride, di brevi inverni ventosi che giungono all’improvviso, di cavalli, di monacazioni, di proverbi, di impiccagioni, di arroganza nobiliare, di immobilismo e di sfavillio, di località dai nomi accattivanti, musicali, di boschi di sugheri, di distese di terreni coperti da una lanugine gialla piumata appena scossa dal vento» e di miseria, di squallida miseria senza requie. Ovunque giri lo sguardo è la stessa cosa: case basse addossate le une alle altre, spesso munite della sola entrata che fa da finestra e da porta. Dentro si intravedono stanze scure abitate da persone e animali in tranquilla promiscuità. E fuori, rivoli di acqua sudicia, qualche bottega di granaglie esposta in grandi cesti, un fabbro ferraio che lavora sulla soglia sprizzando scintille, un sarto che alla luce della porta taglia, cuce e stira…
leggendo, o meglio ascoltando Piera Degli Esposti leggere, ho sognato, ho veramente desiderato essere lì per godere dei sensi, della bocca del naso del palato del gusto della luce, un'alluvione pulsionale, travolgente.

mercoledì 20 febbraio 2013

ciao amore ciao, Tenco vince il festival di Sanremo

perdonatemi.
si fa per dire.
ma anche no (come sento dire ovunque).
mi sono vista Sanremo, e soprattutto -finalmente in santa pace- la serata sulla storia di Sanremo.
mi sono divertita e ho sentito bellissime canzoni.
cantate bene, cantate male.
è sorprendente come alcuni cantanti emergano gagliardi con canzoni, ineguagliabili, del passato, e passino invece per noiosi e mediocri con le canzoni attuali. sarà per via delle canzoni?? ma quelli noiosi di sostanza, costituzionalmente, rimangono noiosi anche con Sergio Endrigo.
Cristicchi è tombale santissimo cielo. e con una canzone come "Una canzone per te" tra le mani santissimo cielo. ma com'è possibile? si può cantare È stato tanto grande e ormai Non sa morire Per questo canto e canto te La solitudine che tu mi hai regalato Io la coltivo come un fiore Chissà se finirà Se un nuovo sogno la mia mano prenderà Se a un'altra io dirò Le cose che dicevo a te, e sembrare un lombrico?
Gazzè un pesce fuor d'acqua. e sono gentile. lo stile adamantino dei "ti voglio bene" della gran parte delle canzoni anni 60 (badateci bene, lo dicono moltissime canzoni e ora non lo dice più nessuna!!) non fa proprio per lui nè per tutti quelli che adottano l'occhio azzurro fatato al posto di quello marrone posdatato originale.
ma Mengoni con "Ciao amore ciao", con il testamento di Tenco tra le mani e tra le corde vocali fa venire i brividi. ascolti la canzone e ti rendi conto che è un saluto a tutti, ciao a tutti, ciao me ne vado, sono nella terra di nessuno. Andare via lontano a cercare un altro mondo dire addio al cortile, andarsene sognando. E poi mille strade grigie come il fumo in un mondo di luci sentirsi nessuno. Saltare cent'anni in un giorno solo, dai carri dei campi agli aerei nel cielo. E non capirci niente e aver voglia di tornare da te. Ciao amore, ciao amore, ciao amore ciao. Ciao amore, ciao amore, ciao amore ciao. Non saper fare niente in un mondo che sa tutto e non avere un soldo nemmeno per tornare. Ciao amore, ciao amore, ciao amore ciao. Ciao amore, ciao amore, ciao amore ciao. Mengoni ha vinto il festival grazie a questa canzone, non a quella in gara. QUESTA. è la vittoria postuma di Tenco 46 anni dopo.
poi ci sono le sciacquette tipo Annalisa e Emma che mi piacciono lo stesso, è un po' faticoso scriverlo ma lo faccio..., con una canzone odiosa come "per Elisa" perchè, tutto sommato, duettano bene. Malika Ayane, che fa la sciantosa senza avere il phisique du role, canta una canzoncina allegra, "Ma cosa hai messo nel caffè", spiritosa e leggera, ma balla come un elefante, diciamo che è tutta una simpatica parodia. Ma cosa hai messo nel caffè che ho bevuto su da te? C'è qualche cosa di diverso adesso in me; se c'è un veleno morirò, ma sarà dolce accanto a te perchè l'amore che non c'era adesso c'è.
l'impacciata ma talentuosa Chiara canta Mia Martini, l'aveva già fatto Elisa altrettanto bene, "Almeno tu nell'universo", una canzone che mi piace fino a un certo punto però, quel punto in cui in cui la sua tristezza patologica, la sua avversione cieca per il maschile, mi procura un sottile senso di fastidio. echepalle 'sta storia delle femmine vittime dell'egoismo (sentimentale sia chiaro) del mondo in generale, maschile in specie...basta basta basta. siamo tutti responsabili dei nostri sintomi, e che diamine.
è adorabile Daniele Silvestri che canta Lucio Dalla, "Piazza grande", in modo così dimesso, così senza pose, così senza giri della voce, così modesto, così seduto sul gradino, così per caso e così umilmente portatore della bellezza della canzone di un altro, che merita un 10 e lode. e poi è figo, mi fa sangue.
è meraviglioso Franco Cerri  che suona la sua chitarra, portando onore e gloria a questa carina ma tanto carina Simona non so che, che si porta l'americano Cincotti di supporto al pianoforte, e all'immagine (ma già le cosce e i tacchi farfallosi avevano fatto molto). l'ho visto suonare dal vivo, ma proprio vicino, lì a due passi da me, a casa di amici dei miei genitori, una sera d'estate di un'altra vita, sotto una veranda di stelle, nostalgia canaglia.
chi mi fa veramente impressione è questo talentuso Raphael Gualazzi, jazzista pianofortista solista solissimo, sembra autistico, probabilmente lo è, si è probabilmente salvato cantando, suonando, sembra imbrigliato in un mondo di raganatele fittissime. liberatelo! fate qualcosa per lui! dategli il dono della parola, anche fuori dal rigo musicale.
mentre i Modà e gli Elio che cantano "Io che non vivo" e "Un bacio piccolissimo" non si capisce se intonino una qualche altra nuova o vecchia canzone o ancora una di tutte quelle che hanno cantato tutta la loro vita musicale. ci sono persone che non sanno mai e poi mai abbandonare il loro stile, la loro impronta, sembra che facciano, qualsiasi cosa facciano, sempre e solo la stessa cosa. bocciati.
la versione Alma Megretta de "Il ragazzo della via Gluck" non mi piace ma la canzone è così naif Passano gli anni, ma otto son lunghi, però quel ragazzo ne ha fatta di strada, ma non si scorda la sua prima casa, ora coi soldi lui può comperarla torna e non trova gli amici che aveva, solo case su case, catrame e cemento. Là dove c'era l'erba ora c'è una città, e quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà che se la scrivessero oggi andrebbe bene per lo zecchino d'oro.

voto Tenco, anche fuori tempo massimo.

venerdì 15 febbraio 2013

L'architettura nel mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi

al contrario della precedentemente descritta (sesso e design), la mostra alla Triennale sull'architettura nel mondo e sulle infrastrutture è stata di enorme interesse.
sono stata ufficialmente invitata in qualità di abbonata, di tesserata, e ho partecipato alla visita guidata di questa mostra, condotta proprio dal suo curatore, l'architetto Alberto Ferlenga.
bravo, molto ma molto architetto. un bel linguaggio, appropriato ma non borioso, tecnico ma perfettamente comprensibile, gentile e affabile senza sbavare. vestito da architetto: pantaloni di velluto a coste beige, scarpe direi tipo Clark e poi una bella sciarpetta sulla giacca, sopra, assolutamente inutile ma certamente estetica. un architetto.
io non mi occupo e non so nulla di architettura. questo va detto come premessa assolutamente necessaria. 
ma sono onnivora e se qualcuno è abbastanza bravo da catturarmi, io lo ascolto e mi diverto.
Il Ferlenga, come si dice qui a Milano, è stato capace e mi ha catturata.
così ho questo lunghissimo kilometrico faticoso e probabilmente noioso post, in omaggio a tanta bella dedizione.
mi accoglie, non solo me ma un bel gruppetto di almeno 15 persone ma lo considererò un colloquio personale, individuale e diretto, il mio con il Ferlenga, e mi racconta il significato delle infrastrutture, quelle strutture di servizio, strade autostrade ferrovie stazioni tram autobus stazioni di servizio aeroporti, che consentono i collegamenti, le comunicazioni, gli spostamenti, il contatto nelle città, tra le città, tra le nazioni e i continenti. bene, ma se il tema generale affrontato in questa mostra è quello delle infrastrutture, la questione vera che si intende porre alla mia attenzione è come una progettazione attenta, basata sulla qualità architettonica, sulla multi-funzionalità, sulla compatibilità ambientale,  possa attribuire a questi sempre più importanti protagonisti dello scenario mondiale, un valore aggiunto che non ha più solo a che vedere con le funzioni che ne  hanno determinato l’origine, ma con il miglioramento estetico, ambientale, sociale dei territori o delle città con cui entrano in contatto.
La mostra si compone di quattro sezioni di cui una, quella storica, rappresenta un elemento di continuità del percorso e le altre tre, in successione, espongono opere e progetti relativi a ciò che si produce al di fuori del nostro paese, a ciò che stato realizzato o è in corso d’opera in Italia e, infine, a ciò che inizia a presentarsi come un quadro geografico a scala globale al quale le nuove grandi infrastrutture si rapportano.

La sezione storica, che riguarda il Novecento, presenta opere note come i disegni di Le Corbusier per Algeri, in cui un'enorme serpentina, una passerella aerea, avrebbe dovuto attraversare la città ma al contempo servirla di case e negozi incorporate nella grande opera stradale, quelli di Saarinen per la stazione di Helsinki o di Poelzig per la diga di Klingerberg.
Le Courbusier, Algeri

 Giacomo Balla, Ponte della velocità

Antonio Sant'Elia, stazione di aerei e treni con funicolare

ma anche casi che, ancora oggi, possono costituire un esempio per la capacità di creare spazio pubblico e valore ambientale, come
-il metro di Mosca, in cui l'arte al servizio del popolo ha portato alla costruzione di stazioni metropolitane che sono paragonabili a musei e a case nobiliari, con mosaici, affreschi, statue e sculture in bronzo di rara bellezza;

-la sistemazione del lungofiume di Lubiana di Plecnik, in cui viali piazze ponti, piazze sui ponti, si alternano lungo il fiume, che sia in piena o in secca, e impreziosiscono splendidamente la città. e questa testimonianza posso avvalolarla di persona, a Lubiana ci sono stata due anni fa ed è una città di magica bellezza, proprio grazie a questo fiume che la disegna e la rebde funzionale (le immagini di Lubiana, alla mostra, sono presentate dalle belle foto di Ghirri, che non ho trovato...);
-il progetto architettonico di Rino Tami per l’inserimento ambientale dell’autostrada del Ticino;
- la New York High Line, questa lunga passeggiata verde, un vero e proprio parco, che si snoda attraversa la città in posizione sopraelevata sfruttando una vecchia ferrovia dismessa.

Una sezione apposita riguarda la grande ingegneria italiana così come si è fatta conoscere, in Italia e all’estero, tra gli anni ’50 e i ’70.
Silvano Zorzi, viadotto sul torrente Teccio, A6 Torino-Savona. Uno degli esempi migliori di quanto l’ingegneria italiana tra gli anni ’50 e i ’70 del Novecento fosse all’avanguardia nel mondo con progettisti del livello di Zorzi, Nervi, Morandi, Musmeci, Favini.

il percorso si articola in una successione di padiglioni tematici dedicati a quanto è attualmente in fase di realizzazione in Italia in materia di mobilità e infrastrutture. l'orizzonte esaminato è molto ampio e comprende, con ricchezza di grandi modelli, tavole progettuali, video e fotografie, temi che variano dalla produzione energetica alle opere stradali come strumento di riqualificazione territoriale: dalle nuove linee metropolitane di Napoli e Roma alle grandi stazioni di Bologna e Napoli-Afragola, da un approfondimento sull'opera di Calatrava dell'autostrada A1 presso Reggio Emilia al progetto MOSE per Venezia, le barriere antirumore a Rovereto trasformate in stazioni fotovoltaiche, la  valorizzazione dei beni culturali disposti lungo l'autostrada per Venezia, il minimetro di Perugia, opera di Jean Nouvel, parte fondamentale del sistema di trasporti leggeri su cui negli ultimi anni si è impegnata la città umbra.

L’immagine illustra uno dei casi “virtuosi” più noti in Italia, quello del Minimetro di Perugia, opera di Jean Nouvel, e parte fondamentale del sistema di trasporti leggeri su cui negli ultimi anni si è impegnata la città umbra.

lo scenario e la misure delle opere cambia drasticamente nell’ultima sezione della mostra in cui oggetto dell’attenzione sono colossali opere a difesa delle sabbie o del vento, destinate all’approvvigionamento idrico o energetico ad una circolazione “globale”. operazioni già da tempo in atto in Africa, in Cina o in Sud America, a Bering o a Panama e che hanno i loro precedenti nel Novecento, in operazioni storiche come quelle prefigurate dall’Atlantropa di Herman Sörgel, che prevedeva l’abbassamento del livello del Mediterraneo a scopo agricolo e  energetico, o le operazioni intraprese nella Russia di Stalin o nell’America del New Deal. in questa sezione le opere si fanno davvero grandiose, mondiali, globali, universali, il Ferlenga mi parla di ECUMENOPOLIS, la città senza limiti, di capitali globali, enormi territori che comunicano tra loro e ridimensionano spazi e frontiere.


ed eccolo il Ferlenga



c'è veramente molto da vedere e moltissimo da capire. quante operazioni di ricostruzione, di valorizzazione, di enormi investimenti sul territorio (fatti peraltro in tempi migliori e che ora decisamente stentano nel portare a termine quanto iniziato anni fa)  di cui siamo, o almeno sono, totalmente all'oscuro. ci sono molte intelligenza e talento e idee e progettualità che appartengono al mondo dell'architettura civile, che appartengono a noi cittadini che usiamo la metropolitana, andiamo in autostrada, passeggiamo nelle città, prendiamo i treni e sostiamo negli aereoporti.
c'è lavoro e intelligenza ovunque, l'uomo ha potenzialità immense, diversificate, importanti.
buone infrastrutture a tutti.

martedì 12 febbraio 2013

non sono più dio

premesso che non ho letto nulla, guardato nessun programma televisivo, solo letto la notizia, il suo titolo, la dimissione del papa mi colpisce con una freccia nel cuore.
non per il dispiacere, quello lo lascio allo sconcerto dei credenti che non potranno spiegarsi, consolarsi,  capire come dio possa rinunciare al suo mandato in terra nella figura del papa, ma per la potenza di questo inedito messaggio.
mi dice, mi convince, mi parla della caduta dell'uomo, dello stravolgimento del simbolico della nostra epoca.
mi viene in mente il film di Moretti, profetico.
il papa non ce la fa. crisi fisica, psichica, emotiva, morale? spirituale, di fede?
non ha importanza, non mi interessa la natura della crisi, ma è "crisi", di enorme portata simbolica per tutto il nostro mondo terreno. e anche quello celeste.
il papa ci dice di non poter più portare quel vessillo, quella croce, quel mandato quel simbolo per milioni di persone. lui, il papa, oggi, non può più indossare le vesti divine.
straordinario e inquietante messaggio di umilità e impotenza, appropriato ai tempi, non per la sua inaudita modestia, qualità oggi sconosciuta, ma per la testimonianza di una crisi identitaria che tutti quanti noi ci portiamo addosso, ognuno nel proprio ruolo.
dei papi non mi sono mai interessata, forse Wojtyla mi ha accarezzata qualche volta per la sua carica umana e di vicinanza, ma questo gesto di papa Ratzinger, questa comunicazione di sconfitta, di fragilità, di debolezza, di impotenza, di stanchezza, di sconforto da parte del più divino degli uomini, mi procura un'immensa simpatia. e al contempo mi travolge ancora una volta con questa ondata di attualissimo sbandamento, dalle borse alla politica, dal clima all'economia, dai valori simbolici all'evaporazione del nome del padre. 
non tiene più nulla, nessuno più regge le sorti del mondo. il padre non esiste più, nemmeno dio padre.
se dio soffre e si ammala quanto noi, forse non è più dio, dio è morto, è diventato uomo, finalmente. veramente. qualcosa cambia profondamente, radicalmente, è l'era dell'ignoto. 

lunedì 11 febbraio 2013

decifra che cadenza padroneggia l'uomo

Strana paura
Glauco, attento: baratro d'onde, già pulsa
abisso. Accerchia profili d'alture nebbia irta,
spia di maltempo: afferra, da incognito, angoscia

Archiloco.
e chi lo conosceva?
me lo ha presentato la rivista Poesia che a gennaio è uscita con un fascicolone per festeggiare i suoi, giovani, 25 anni di storia.
vi sono presentati 100 poeti con storia, fotografia, o ritratto pittorico o statuario, e una pagina di produzione poetica. 2 pagine a testa, 200 pagine in tutto. non sono sempre in accordo sulle scelte e, per quei poeti che conosco, non sempre condivido le poesie selezionate, ma l'operazione è romantica e molto apprezzabile. è fuori tempo, quindi amabile.
ed è così che ho conosciuto inaspettatamente Archiloco, nativo di Paros (ci sono stata!), parecchi ma parecchi anni fa. siamo nel VII secolo a.C. rispetto ai suoi colleghi dell'epoca mi sembra appartenga a un'altra categoria. per quell'"io" che esprime, per come scrive, per la scioltezza del verso e la disinvoltura nel maneggiare la materia poetica. un altro suono, un altro tenore, un altro ritmo.
mi ha sorpreso.

La cadenza
mio io, acceso io! Risacca d'ansia è qui, t'inchioda.
Ma tu affiora. Trincerati, fa' barriera a chi t'odia,
petto teso! A contatto nemico, conficcati,
indurito. Se vinci non trionfare nel sole;
se vinto, non torturati - spaccato- nel chiuso.
Anzi! Festeggia feste. Umiliato, incrinati:
nei limiti. Decifra che cadenza padroneggia l'uomo.

martedì 5 febbraio 2013

sesso e design

anche grazie a un gran bel regalo di Natale, una tessera per visitare la Triennale di Milano gratuitamente, mostre e presentazioni -deve essersi sparsa la voce del mio girovagare- nel passato fine settimana milanese mi sono ubriacata di mostre in questo bell'angolo di vita meneghina. bello perchè è ai confini del parco sempione, bello perchè le sale sono ampie, spaziose, ariose e luminose e bello perchè le scelte artistiche architetturali di design e di costume, sono sempre state di grande interesse.
ma questa mostra, delle 3 che ho visto, NO.
sesso e design- KAMA.
un titolo accattivante, la presentazione della sua curatrice ancora di più, entusiasmante.
le premesse sono davvero pregevoli, cercare nella nostra convivenza quotidiana con gli oggetti, con la casa, con gli arredi, con le strutture che ci supportano giornalmente la relazione con la sessualità, sia vissuta che immaginata, sia sublimata che  sperimentata. un rapporto con le cose che cela sempre una relazione con i sensi, la sessualità, il corpo e la sua eccitazione.
KAMA. Sesso e Design nasce da un’urgenza: la necessità (e la volontà) di riconsegnare al design la sua facoltà di dare risposte “materiali” e “oggettuali” ai grandi nodi ontologici dell’esistenza. Questa mostra ha l’ambizione di essere una mostra sugli oggetti che hanno come matrice morfologica gli organi genitali e sessuali, ma anche le relazioni sessuali che il corpo intrattiene con altri corpi. È una mostra che studia come il sesso si deposita negli oggetti di uso quotidiano. Due anni fa, con la mostra Independent. Design Secession, Triennale Design Museum si interrogava sul rapporto fra il design e la morte. L’anno scorso, con O’Clock, abbiamo investigato il rapporto fra il design e il tempo. Ora ci interroghiamo sul design e l’istinto di vita – la libido, la pulsione vitale di cui parlava Freud. 
Silvana Annicchiarico
fantastico mi sono detta, una ricerca veramente interessante. si tira in ballo pure Freud!! sono a casa mia...
e cosa mi ritrovo?
intere sale con oggetti, strutture, sedie, quadri, fotografie, costruzioni che non esprimono sottilmente, intrinsecamente, costituzionalmente e soprattutto simbolicamente questo rapporto, ma oggetti che semplicemente, banalmente, stupidamente sono apertamente oggetti sessuali.
sono oggetti di uso quotidiano?
cosa vuol dire cercare il rapporto con la sensualità delle cose se la cosa che sto manipolando è a forma di cazzo?
mi state prendendo in giro?
se la sedia invita a una posizione a cavalcioni riproducendo una sella di cavallo?
se lo specchio è a forma di vagina?
se la foto è a gambe larghe sul pube peloso di una mia collega femmina?
se il pannello per sistemare il cappotto e i miei vasi riporta sottostante le posizioni del Kamasutra?
ma di cosa stiamo parlando?





di un alone di sessualità nella nostra vita, del suo istinto portante e vitale o, come mi hanno insegnato proprio alla triennale con una bellissima mostra di quest'estate, del kitsch, del messaggio esplicito, iperespresso, della dimostrazione aperta senza allusione? qui  non stiamo più parlando di sensualità nel contatto quotidiano dello spazio che abitiamo, qui stiamo parlando di oggetti che trasudano esplicitamente riferimenti sessuali, praticamente invitano all'uso e vengono di orgasmi ripetuti, senza peraltro necessariamente parlarne.
Scrissi qualche mese fa:
è divertente e orrifico allo stesso tempo questo mondo ipercolorato, iperbolico, iperespressivo, iperapresentativo. 
il kitsch ha bisogno di "dire" a tutti i costi superando il senso stesso delle cose, delle persone, delle situazioni, consegnandole a un altro senso, quello del luogo comune, e sottraendole all'autenticità.
una poltrona è più di una poltrona, un'opera d'arte è più di un'immagine simbolica, un vestito è oltre ed è troppo è di più, un oggetto è ancora più su, è un oggetto a tutti i costi che deve dire tutto a tutti i costi. uno stato maniacale costante, un eccesso di materia di sostanza che livella tutto alla dimensione del cattivo gusto, o dell'assenza di gusto.

una boiata mai vista, sono passata veloce ridendo della bestialità di questa esposizione, dell'equivoco così banale, ma che posso pensare nella gente che guarda non on chi si pone nella posizione di sapere di chi allestisce una mostra, su cosa è sessuale e cosa non lo è. trastullarsi con un soprammobile lungo 50 cm che finisce con una cappella a forma di teschio non è alludere alla sessualità, è semplicemente guardare un oggetto come un altro che perde ogni senso allusivo, che si appiattisce la fantasia e il cervello senza dare il senso che la sua forma esplicita vorrebbe richiamare in me, per il semplice fatto che me lo mostra i tutta la sua banale verosimiglianza. 
non c'è come reificare all'infinito un pene in erezione per non vederlo più, ma non c'è come alluderlo simbolicamente per non smettere mai di pensarci.
noia. 
e anche un po' di disprezzo, lo ammetto, per chi crede di sapere e non sa.

Afferma Gillo Dorfles: “Come sempre, sono l’intenzione e la consapevolezza, sia rispetto all’utilizzo delle tecniche sia nei riguardi dei contenuti, che trasformano un oggetto, una forma, ma anche un comportamento, in un’opera, in un linguaggio che sentiamo veri e autentici. Se non esiste la dimensione culturale, ogni forma d’arte è destinata a cadere nella trappola di un kitsch più o meno consapevole. La vera arte non è mai “maliziosa”; il kitsch lo è, e questa è la sua essenza. È necessario conoscerlo, anche frequentarlo e, perché no, qualche volta utilizzarlo, senza farsi mai prendere la mano. Perché il cattivo gusto è sempre in agguato”


lunedì 4 febbraio 2013

Una convulsione l'abbatté sul letto, tutti le si fecero vicini. Emma aveva cessato di esistere.

Emma ancora Emma.
ma.
Emma è morta.
il suo destino si è compiuto e, dopo di lei, quello tragico di tutti gli altri a lei legati.
la sua corruzione, la sua rovina, la sua perdizione hanno trascinato il marito e la figlia dopo di lei, qualcosa di dannato e colpevole è andato oltre, oltre la sua persona, oltre la sua morte, oltre.
la parte finale del libro è trascinante, drammatica, inquietante. 
un senso di ineluttabilità e di morte aleggiano pesantissimi, si respirano, si inoculano. si solidificano. 
Emma vive sul desiderio degli altri rivendicandone di continuo la mancanza, non sa vivere di un senso che venga da se stessa, lo deve continuamente rivendicare nell'altro, accusandolo e colpevolizzandolo di non essere mai abbastanza. si può chiedere agli altri di vivere per noi? di darci un senso? di trasfonderci vita?
Emma è una figura tragica nella sua immensa carenza che chiede costantemente all'Altro di sostentarla in vita. è pervasa da un senso di morte, sottilmente sempre presente che, verso il finale, la travolge, infelice, tragicamente sola, cieca e senza futuro, verso il suicidio.
Emma non vede la vita, la sua consistenza, la sua presa di realtà, la sua quotidiana portanza. Emma persegue solo e unicamente il suo godimento, in termini psicoanalitici non solamente fisici, che è quello di invitare l'Altro a negarla pur chiedendo apparentemente il contrario, di presentificarla.
Emma non c'è.
Emma non esiste.
"Cercando Emma" scriveva Dacia Maraini.
E' un buon titolo, perchè Emma non è reperibile.
per esistere chiede all'altro di darle un nome, risucchiandolo in un vortice di pretese e richieste, di amplessi e approvazioni, di gesti estremi in crescendo, fino a trovarsi vuota e senza amore. l'amore lo inventa, gli da parvenza fisica, gli da forma di eccitazione e di prestazione, ma alla fine rimane sempre sguarnita, annoiata,  delusa, immaginante altro, sempre oltre e diverso da quel che è, da quello che ha e che da. l'Altro è sempre insufficiente, l'Altro non basta mai, l'Altro è inesistente, quanto lei, non è oggetto di amore, è solo reificazione della sua negazione ad essere.
Flaubert è un genio della scrittura, Madame Bovary è uno di quel libri indimenticabili, di quelle pagine di lettura eterni, di descrizione attenta e magica del reale, di intuizione simbolica altissima. pagine di bellezza memorabile.

ed eccola Emma, incamminata verso il nulla, nel buco nero che la risucchia: 

Alla fine il giovane riuscì a liberarsi e corse a perdifiato all'albergo. Emma non c'era più. 
Se n'era andata, esasperata. Adesso detestava Léon.  Questa mancanza di parola all'appuntamento le era sembrata un oltraggio, e cercava altri motivi per abbandonarlo: era incapace di eroismo, debole, banale, più effeminato di una donna, avaro anche, e pusillanime. 
Poi, una volta calmatasi, finì col convincersi di averlo soltanto calunniato. Ma il denigrare quelli che amiamo ci allontana sempre un poco da loro. Non bisogna toccare gli idoli: la polvere d'oro che li ricopre  potrebbe restarci attaccata alle dita. 
Emma e Léon cominciarono a parlare più frequentemente di argomenti estranei al loro amore; e, nelle lettere che Emma gli scriveva, si parlava di fiori, di poesia, delle stelle e della luna, ingenui surrogati della passione che andava indebolendosi, e che cercava di ravvivarsi con appigli esteriori. La signora Bovary si riprometteva di continuo, per il suo prossimo viaggio, una felicità profonda, e poi era costretta a confessare di non provare niente di straordinario. Quella delusione veniva ben presto cancellata da una sempre nuova speranza; Emma tornava da Léon più ardente, più avida. Si spogliava con veemenza strappando le stringhe sottili del busto, che sibilavano intorno ai suoi fianchi come serpi striscianti. Si avvicinava, sulle punte dei piedi nudi, per assicurarsi una volta di più se la porta fosse chiusa, poi, con un solo gesto, faceva cadere tutti gli abiti in una sola volta, e pallida, senza dire nulla, seria si lasciava cadere sul suo petto con un lungo brivido. 
V'era in quella fronte coperta da un sudore freddo sulle labbra balbettanti, nelle pupille smarrite, nella stretta delle braccia di Emma, qualcosa di estremo, di vago e di lugubre, che Léon sentiva insinuarsi fra loro, sottilmente, come se volesse separarli. 
Non osava porle domande; ma, vedendola così esperta, si era convinto che fosse dovuta passare attraverso tutte le prove della sofferenza e del piacere. Quello che un tempo lo aveva affascinato, adesso lo spaventava un poco. E si ribellava contro l'annullamento ogni giorno più grande della propria personalità. Nutriva rancore contro Emma per quella continua supremazia. Si sforzava addirittura di non amarla; poi, soltanto sentendo scricchiolare le sue scarpette, si sentiva privo di volontà, come un alcoolizzato alla vista dei liquori forti.  
Emma non si lasciava sfuggire occasione, questo è vero, di prodigargli tutte le  possibili attenzioni, dalle squisitezze della tavola, alla civetteria nel vestire e agli sguardi languidi. Portava da Yonville delle rose in seno, e gliele sfogliava sul viso, mostrava di preoccuparsi della sua salute, gli dava consigli pratici e, per legarlo più strettamente a sé, sperando che il Cielo potesse in qualche modo intervenire, gli mise al collo una medaglia della Vergine. Si informava, come una madre sollecita, dei suoi colleghi. Gli diceva: 
«Non cercare di vederli, non uscire, pensa soltanto a noi, amami!» 
Avrebbe voluto sorvegliare la sua vita, e le venne l'idea di farlo pedinare. C'era sempre, vicino all'albergo, un vagabondo che abbordava i viaggiatori e che non avrebbe certo rifiutato... Ma il suo orgoglio si ribellò. 
"Eh! Tanto peggio! Mi tradisca pure, che m'importa! Mi preme poi così tanto?" 
Un giorno si erano lasciati presto ed Emma se ne tornava sola per il corso, quando vide i muri del suo collegio; si sedette su una panchina, all'ombra degli olmi. Che tempi sereni quelli! Come rimpiangeva gli ineffabili sentimenti d'amore che cercava di immaginare, dopo averli letti nei libri! 
I primi mesi del matrimonio, le passeggiate a cavallo nella foresta, il Visconte che ballava il valzer, Legardy che cantava, tutto le passava davanti agli occhi... E Léon le parve all'improvviso lontano come tutto il resto. 
"Eppure lo amo" si diceva. Non importava! Non era felice e non lo era mai stata. Da cosa dipendeva questo vuoto che esisteva nella sua vita, questa putrescenza istantanea delle cose che le stavano più a cuore?... Ma se esisteva in qualche luogo un essere forte e bello, un cuore valoroso, nello stesso tempo pieno di entusiasmi e di raffinatezza, un animo di poeta sotto le spoglie di un angelo, lira dalle corde di bronzo, capace di far giungere fino in cielo i suoni di epitalami elegiaci, perché proprio lei non avrebbe potuto per caso incontrarlo? Oh! Che sogno impossibile! Nulla valeva la pena di una ricerca, tutto era menzognero. Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio di noia, ogni gioia una maledizione, tutti i piaceri, il disgusto, e i baci più appassionati lasciavano sulla bocca soltanto l'irrealizzabile desiderio di una voluttà più grande. 
Un rantolo metallico si trascinò nell'aria e la campana del convento batté quattro rintocchi. Le quattro! E le 
sembrò di essere rimasta a sedere su quella panchina per tutta l'eternità. Un infinito di passione può concentrarsi in un minuto, come una folla può raccogliersi in un modesto spazio. 
Emma viveva preoccupandosi di se stessa, senza affannarsi per il denaro più di un'arciduchessa.

...


Emma se ne andò. I muri vacillavano, il soffitto la opprimeva, percorse di nuovo il lungo viale, inciampando 
fra i mucchi di foglie che il vento disperdeva. Giunse infine al cancello vicino al fossato. Si ruppe le unghie con il 
chiavistello nella fretta di aprirlo. Poi, fatti cento passi, ansimante, prossima a cadere, si fermò. E, voltandosi, scorse 
ancora una volta il castello, impassibile, con il parco, i giardini, i tre cortili e le finestre della facciata. 

Rimase perduta nel suo stupore, cosciente di sé soltanto per il battito delle arterie; lo udiva come una musica 
assordante che riempisse tutta la campagna. Il terreno sotto i piedi era più molle di un'onda, e i solchi le parevano 
immensi flutti bruni che si frangessero. Tutto quello che esisteva nella sua mente, le reminiscenze, le idee, svaniva tutto 
in una volta, di colpo, come le mille luci di un fuoco d'artificio. Vide suo padre, l'ufficio di Lheureux, la loro camera 
laggiù, un altro paesaggio. La follia si impadroniva di lei, ebbe paura, e riuscì allora a riprendersi, in maniera confusa 
però, perché aveva dimenticato il motivo delle condizioni orribili in cui si trovava, e cioè tutte le questioni di interesse. 

Ora soffriva solamente per il suo amore, e sentiva l'anima abbandonarla attraverso quel ricordo, come i feriti in agonia 
sentono la vita sfuggire attraverso la piaga sanguinante. 

Scendeva la notte, e le cornacchie si alzavano in volo.
A un tratto parve a Emma che piccole sfere di fuoco scoppiassero nell'aria, come pallottole esplosive
appiattendosi, e girassero, girassero per andare a fondersi nella neve, fra i rami degli alberi. Al centro di ciascuna di esse 
appariva il volto di Rodolphe. Si moltiplicavano, le si avvicinavano, penetravano in lei, e tutto scomparve. Riconobbe le 
luci delle case che brillavano lontane in mezzo alla nebbia. 

Allora la situazione le si presentò chiara, come un  abisso spalancato. Ansimava così forte che sembrava 
dovesse spaccarlesi il petto. Poi, con uno slancio d'eroismo che la rese quasi felice, corse per la discesa, attraversò la 
passerella del bestiame, il sentiero, il viale, il mercato e arrivò davanti alla bottega del farmacista. 

Non c'era nessuno. Stava per entrare, ma al suono del campanello sarebbe arrivato qualcuno. Scivolò attraverso 
il cancello, allora, trattenendo gli ansiti, a tentoni lungo il muro, procedette fino alla porta della cucina nella quale 
ardeva una candela posta sui fornelli. Justin, in maniche di camicia, reggeva un piatto. 

«Ah! Stanno cenando. Aspettiamo.»
Justin tornò. Emma bussò al vetro. Il ragazzo uscì.
«La chiave! Quella del solaio, dove ci sono...»
«Come!»
E la guardava, sbigottito dal pallore del viso di lei, che spiccava bianco sullo sfondo nero della notte. Gli parve 
straordinariamente bella, senza capire quello che Emma desiderava, aveva il presentimento di qualcosa di terribile. 

Ma la signora Bovary riprese a parlare in fretta, con la voce bassa, con un tono dolce e struggente:
«La voglio! Dammela!»
Poiché la parete era sottile, si udiva il tintinnio delle forchette sui piatti nella stanza da pranzo.
Emma voleva far credere di voler uccidere i topi che non la lasciavano dormire.
«Bisogna che avverta il signor Homais.»
«No, resta qui!»
Poi soggiunse, con aria indifferente:
«Eh! Non ne vale la pena, glielo dirò io fra poco. Andiamo, fammi lume!»
Entrò nel corridoio cui si apriva la porta del laboratorio. V'era, appesa al muro, una chiave con l'indicazione 
Cafarnao. 

«Justin!» gridò il farmacista spazientito.
«Andiamo di sopra!»
E lui la seguì.
La chiave girò nella serratura, ed Emma andò diritta al terzo scaffale, tanto rammentava bene, afferrò il boccale 
blu, gli strappò il tappo, vi ficcò la mano e, ritirandola piena di una polvere bianca, prese a mangiarla. 

«Si fermi!» gridò il ragazzo gettandosi su di lei.
«Taci! Verrà qualcuno...»
Justin si disperava, voleva chiamare aiuto.
«Non dire nulla, tutta la colpa ricadrebbe sul tuo padrone!»
Poi tornò subito calma, quasi nella serenità di un dovere compiuto.