bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 26 luglio 2013

le ragazze che rinviano l'amore

Le ragazze che rinviano l’amore
di Elena Tebano
dal Corriere della Sera del 20/7/13

Sono le ragazze che domani guideranno l’America. E oggi non hanno tempo per le relazioni. Troppo concentrate a investire sul loro futuro, le studentesse delle università d’élite statunitensi non trovano lo spazio — mentale e materiale — per avere un ragazzo. E scelgono sempre più spesso il sesso senza impegno, finora considerato prerogativa prevalentemente maschile. È la tesi di «Sex on Campus», la lunga inchiesta che il New York Times ha dedicato alle giovani della University of Pennsylvania, prestigioso ateneo degli Stati Uniti. La tesi dell’articolo è che per queste ragazze il primo obiettivo sia costruirsi un curriculum a prova di crisi e globalizzazione — non certo trovarsi un fidanzato. Usano ogni minuto libero per accumulare attività extracurriculari che le renderanno competitive sul mercato del lavoro, sono pronte a trasferirsi in un battito di ciglia da Honk Kong, a Londra, a New York per la loro carriera globale. Non hanno tempo per relazioni stabili. E allora l’alternativa sono incontri occasionali innaffiati di alcol, da chiudere in fretta per poi tornare sui libri senza l’ostacolo degli affetti.
Nel dibattito infinito su libertà sessuali, emancipazione della donna e conciliazione tra lavoro e famiglia, è un tassello nuovo. Per qualcuno, come la giornalista Hanna Rosin (autrice di La fine del maschio e l’ascesa delle donne, Cavallo di ferro, 2013) è anche un passo avanti, una strategia adeguata ai tempi che permette alle giovani donne di fare carriera e intanto avere una vita sessuale soddisfacente. Altri lo hanno criticato come il risultato di un femminismo «estremo», che le ha convinte di non aver bisogno di un uomo proprio nel periodo migliore per trovare il loro futuro marito, «l’architrave della felicità» da adulte. Come al solito, è un’alternativa troppo stretta per le donne.
Prima il dovere, poi il piacere
Dall’inchiesta del Times non emerge neppure il fantasma della «vita sessuale soddisfacente» di cui parla Rosin. Molti lettori, nei commenti, hanno messo in evidenza come le ragazze raccontano di aver bisogno di bere, per i loro incontri «senza impegno»: una mancanza di lucidità che a volte rende molto labili i confini tra sesso consensuale e non. E solleva dubbi inquietanti sulla loro effettiva capacità di scegliere. Le parole delle universitarie americane non hanno niente della retorica, forse un po’ ingenua ma senz’altro gioiosa, che la rivoluzione sessuale degli anni ’70 aveva associato ai rapporti occasionali.
«Mi sono “posizionata” nel college in modo da non poter avere relazioni romantiche significative, perché sono sempre impegnata. E le persone che mi interessano sono sempre impegnate», racconta «A.», una delle intervistate. «Se sono sobria, lavoro», aggiunge.
Il sesso per queste giovani non sembra né un modo per divertirsi, né per capire qualcosa di sé o degli altri. Il linguaggio è quello del marketing: costo, benefici, investimenti. Tutto è subordinato alla carriera, tutto è prestazione: i risultati economici invadono ogni relazione personale. Per il piacere rimangono solo brevi intervalli ebbri.
Grandi possibilità, maggiori pressioni
Più che il frutto di un femminismo estremo, la vita sessuale delle studentesse d’élite americane sembra condizionata da una società sempre più competitiva e schiacciata dalla crisi economica. Che ha anticipato e reso più duro il dilemma delle donne ambiziose: rassegnarsi a indispensabili sacrifici o provare ad avere tutto? (Il limite più grande di questa domanda è che continuano a farsela quasi soltanto le donne).
È un fenomeno che riguarda soprattutto le giovani delle classi sociali più alte, o candidate a farne parte. E con le dovute differenze, riguarda anche le italiane. «Oggi è difficile rimanere in un posto fisso, soprattutto per i lavori molto qualificati: metto nel conto di poter andare via dall’Italia. So che sarebbe difficile mantenere delle relazioni a distanza. E quindi non mi ci metto neanche», dice Sara (che ha chiesto di non comparire con il suo vero nome), 22 anni, al quarto anno di università alla Bocconi di Milano. «Ho fatto tutta la triennale fidanzata. Adesso sono contenta di non esserlo: mi sentirei limitata, non partirei per il periodo di scambio all’estero con la stessa tranquillità», afferma Chiara, al primo anno della specialistica, sempre in Bocconi.
Forse alla base di questa paura c’è anche una concezione dei rapporti tutt’altro che moderna. «Ho passato un sacco di tempo a incoraggiare il mio ex, che era indietro con gli esami; a pianificare il suo studio invece del mio. Noi donne siamo comunque propense a mettere l’uomo davanti a noi stesse. Ma ora ho capito che sbagliavo», aggiunge. Non tutte la pensano così: «Si può trovare il tempo per lo studio, per gli amici e per il fidanzato», dice Giulia, 21 anni, anche lei studentessa della Bocconi, che infatti ha una storia da un anno. «È pieno di donne che hanno le loro carriere senza rinunciare alla famiglia. Forse tutto tutto non lo puoi avere, ma almeno ci puoi provare», garantisce. Eppure molte sue coetanee preferiscono la strada più facile dei rapporti poco impegnativi.
«Facevo come un maschio»
Eleonora, 25 anni, laureanda alla Luiss di Roma, è una delle giovani che hanno scelto il sesso senza legami emotivi (il nome è di fantasia). «L’anno scorso ho conosciuto un ragazzo e ho pensato di aver avuto un colpo di fulmine. Poi ci ho parlato e mi sono resa conto che non avrei mai voluto una storia con lui». Per lei era solo attrazione fisica.
«Sapevamo che quando uscivamo poi finivamo a letto. Ma a me il pre-serata non interessava. Volevo solo bermi un bicchiere di vino, fumarmi una canna e fare sesso. Staccare. Una volta mi venne a prendere e gli dissi subito: “Sali”. Reagì molto male. Alla fine ha sviluppato una considerazione negativa di me, perché mi comportavo come un ragazzo».
La cosa più irritante per Margherita Ferrari, scrittrice di 25 anni che ha fondato Soft Revolution, («un magazine femminista sul web» gestito da ventenni), è proprio questo doppio standard. «Oggi le mie coetanee si sentono più tranquille di un tempo ad avere relazioni senza legami affettivi. Ma per questo vengono ancora stigmatizzate, al contrario dei ragazzi. L’ho visto succedere alla Columbia University di New York, dove ho studiato sei mesi. E anche in Italia», dice.
Eppure non sembra solo questione di aspettative di genere. Molte giovani descrivono una società in cui la pressione sociale verso il successo brucia tutto il resto. Soprattutto per le donne, che nel mondo del lavoro devono ancora affrontare più ostacoli rispetto ai colleghi maschi. «I primi anni di università avevo un ragazzo: mi sono pentita di tutto il tempo che gli ho dedicato. Se una relazione non dura non ne vale la pena. E le cose non durano. Per questo ho cercato una maggiore leggerezza — ragiona Eleonora —. Anche perché siamo bombardati da messaggi che fanno sembrare tutto facile. Ma raggiungere i propri obiettivi non è facile. Allora cerco almeno di limitare i danni dove posso. Forse così elimino una delle esperienze più belle, l’amore, ma ci sarà tempo più in là. È un atteggiamento comune», assicura. Se questa generazione è estremamente consapevole del lavoro necessario a costruire una carriera di successo, sembra stranamente ignara di quanto ne serva per imparare a vivere relazioni, affetti ed emotività. Il rischio è scoprire troppo tardi che, se non si inizia a vent’anni, recuperare dopo è difficile.


allora, dirò che questo scenario mi fa orrore.
senza mezzi termini orrore.
le donne come i maschi, che idiozia.
che lutto, che perdita, che non senso.
stigmatizzazione? involuzione e impoverimento della femminilità e del suo enorme potenziale affettivo creativo rivoluzionario.
è un invito alla fine della specie umana, e così sia.
le donne sono impazzite e faranno saltare tutto il sistema solare.
poi a 50 anni si domandano come mai non rimangono incinta e invocano la scienza per andare incontro a deliri di onnipotenza procreativa. 
e poi piangono solitudine o peggio ancora, inveiscono aggressive con i canini di fuori, contro i maschi sciovinisti ed egoisti, dopo aver massacrato tutto l'immaginario-ancora talvolta sano -maschile sulle donne e la femminilità.
ripenso alla strepitosa Virginia Woolf che vaticinava, nella sua stanza tutta per sè, che:
È meglio fare lo scaricatore di carbone o la bambinaia? La donna delle pulizie che ha cresciuto otto bambini ha meno valore per il mondo dell'avvocato che ha accumulato centomila sterline? È inutile farsi queste domande; tanto nessuno sa dare una risposta. Non solo il valore relativo di domestiche e avvocati aumenta e diminuisce di decade in decade, ma non possediamo alcuna unità di misura con cui valutarlo, neanche in questo momento. Anche se si potesse stabilire il valore attuale di una capacità qualsiasi, quegli stessi valori cambieranno; molto probabilmente fra un secolo saranno mutati del tutto. Inoltre, tra cento anni, pensai, giunta alla porta di casa, le donne avranno smesso di essere il sesso protetto. È logico pensare che prenderanno parte a tutte quelle attività e quelle mansioni che un tempo erano loro precluse. La bambinaia scaricherà il carbone. La bottegaia guiderà una macchina. Tutte le supposizioni fondate sui fatti osservati quando le donne erano il sesso protetto saranno crollate, come, per esempio, (qui un drappello di soldati passò per la strada) l'idea che donne, sacerdoti e giardinieri vivano più a lungo degli altri. Eliminate quella protezione, esponetele agli stessi sforzi e alle stesse attività, fatele soldati, marinai, macchinisti e scaricatori di porto, e non moriranno le donne tanto più giovani e più velocemente rispetto agli uomini, che si dirà: "Ho visto una donna oggi", come prima si diceva: "Ho visto un aereo"? Tutto potrà accadere quando l'essere donna avrà smesso di essere un'occupazione protetta, pensai, aprendo la porta.
Datele altri cento anni, datele una stanza tutta per sé e cinquecento all'anno, permettetele di dire ciò che pensa e di cancellare la metà di quello che ora inserisce, e scriverà un libro migliore uno di questi giorni. Sarà una poetessa, dissi, riponendo L'avventura della vita, di Mary Carmichael, all'estremità dello scaffale, tra cento anni. 

poetesse signore, non maschi, vestite da maschi, stronze come i maschi, aggressive come i maschi, competitive come i maschi, sole come i maschi, a letto come i maschi, sterili come i maschi.
cento anni, diceva la Woolf, per diventare poetesse di noi stesse, libere ma DONNE.

giovedì 25 luglio 2013

mike kelley. eternity is a long time



il titolo della mostra dice tutto.
l'eternità è quel lungo tempo che ci aspetta dopo la morte.
Mike Kelly si è suicidato a fine 2012, esattamente il 31 di gennaio, e questa mostra a me ha detto: per tutto questo, tutto quello che vi sto facendo vedere di me, per tutta questa angoscia che permea la mia vita attuale e la mia memoria, per tutto questo io non voglio più vivere.
le simpatiche, e certamente preparate, ragazze che mi hanno accompagnato lungo questa difficile e complessa mostra all'Hangar Bicocca di Milano, e senza le quali non avrei potuto cogliere la profondità del messaggio sotteso ad ogni installazione, si sforzavano molto di insistere sull'ironia del lavoro di Mike Kelly, un trasgressore, un bad boy dell'arte contemporanea mondiale, un narratore contro o oltre le istituzioni e le regole del vivere civile, ma io, proprio proprio del tutto francamente, l'ironia non l'ho vista. né percepita.
io ho letto e vissuto angoscia, l'angoscia di una memoria senza pace che cerca un'espiazione nella rappresentazione artistica.
io ho pensato che Mike Kelley deragliava, immerso nelle sue ossessioni reiterate su casa e scuola, nelle ricostruzioni ossessionanti di spazi scolastici adolescenziali e case dell'infanzia, nei travestimenti, nei mascheramenti, nelle rappresentazioni in  mutande nei sottoscala, nella raffigurazione di riti satanici con carne bruciata,  io ho pensato: questa mostra è la rappresentazione di un trauma. un trauma mortale.

Attivo dagli anni Settanta, Mike Kelley si impone in modo evidente nello scenario delle ricerche artistiche degli anni Ottanta. Nella sua multiforme pratica di lavoro, si muove su più media, sconfinando in campi di espressione differenti, sia nell’arte che nella musica, mai accettando la distinzione tra arte colta e vernacolare. Interessato a riattivare forme e figure legate a un immaginario adolescenziale e a indagare come la cultura popolare produce miti e ritualità, esplora soprattutto i temi della memoria, dell’identità e il rapporto con l’autorità. Utilizza oggetti e manufatti apparentemente banali sovvertendone il significato ed enfatizzandone la forza comunicativa. La sua capacità di attraversare universi di riferimento e codici differenti senza griglie concettuali fanno di lui uno degli artisti più interessanti della contemporaneità. Muore il 31 gennaio 2012 a Los Angeles. Le sue opere si trovano nelle collezioni pubbliche e private più prestigiose del mondo, tra cui il MoMA, il Whitney e il Guggenheim di New York, la Collezione Pinault di Parigi e Venezia, il Reina Sofía di Madrid, il Museum of Contemporary Art di Detroit, il MoCA di Chicago, il Centre Georges Pompidou di Parigi.

la mostra si articola su queste installazioni, visive, grafiche, visuali, arricchite di video e scene teatrali.
esordisce con la messa in scena di una squallida scena domestica, un letto sfatto, un forno, delle suppellettili, scenografia di una rappresentazione teatrale con una coppia gay in crisi relazionale, al punto che uno dei due protagonisti arriverà, guarda caso, al suicidio. la scena è vuota, la rappresentazione teatrale viene mostrata altrove, filmata in un video mostrato in una tv, come a mostrare uno scollamento della realtà, l'involucro da una parte il contenuto, angosciante dall'altro.
a questo punto si passa ad un video sui riti satanici, con un’alternanza di immagini in un crescendo di maschere sataniche, vortici che risucchiano la materia, visioni di urina trasformata in elemento divinatorio e molti altri riferimenti alle fantasie di onnipotenza adolescenziali, per poi concludersi con l’inquadratura iniziale del ponte su cui avanza una figura nuda (l’artista stesso), il tutto condito da una colonna sonora, che inizia con il silenzio della quiete boschiva, si trasforma in un susseguirsi di suoni inquietanti e distorti che evolvono in una scura composizione noise.
altre installazioni ripresentano video di mascheramenti, travestimenti, riprese dell'artista stesso truccato da femmina e in mutande in uno scantinato sotterraneo, grottesco bizzarro e umiliante, visioni boschive con figure grottesche travestite per la festa di Halloween, riprese da immagini reali del tempo liceale dell'autore,(tratte dagli Yearbooks scolastici) che aveva suddiviso in tematiche quali “riti religiosi”, “numeri di danza”, “immagini sataniche”, “personaggi rozzi e strani”, “delinquenti”, “Halloween e stili gotici”. si incontrano altri video, uno surreale e frammentato, in cui un personaggio si aggira protetto da una rettangolare maschera di carta che nasconde l'uomo più brutto del mondo, sovraccaricando ancora l'immagine di effetti fisici e personologici umilianti e segreganti, rimandi ancora a codici gestuali ed espressivi di cortometraggi televisivi ripescati ancora dalla memoria della sua infanzia.
si arriva a una scala a chiocciola, prelevata dalla casa di Kelley stesso, che ruota senza sosta su se stessa pendente dal soffitto e che funge da fulcro del lavoro e da supporto mobile per una proiezione rotante costituita da tre sequenze: la prima consiste in una serie di diapositive che ritraggono i precedenti inquilini della casa, una famiglia ispanoamericana, ritratta in differenti situazioni familiari; la seconda sequenza, ritrae gli stessi dettagli della casa al momento in cui egli vi risiede da solo e quindi privi di persone e con l’arredo completamente cambiato; nella terza sequenza vengono sovrapposte le immagini originali a quelle realizzate da Kelley, che in alcune si traveste nei panni della figlia minore. l’insieme, definito da Kelley stesso come “una macchina del tempo disfunzionale”, utilizza la compresenza di momenti spaziali e temporali differenti per sottolineare come, negli spazi che abitiamo, le tracce del passato non siano mai completamente scomparse. “I luoghi in cui viviamo ogni giorno divengono estranei nel momento in cui rappresentano ciò che è invisibile: il tempo passato, e le persone che non ci sono più”.

si giunge alla maestosa statua di John Glenn, l’astronauta protagonista nel 1962 della prima missione spaziale statunitense, costruita utilizzando oggetti d’arredo come vasi, lampadari e bottiglie con decorazioni create incollando piccoli frammenti come pezzi di bigiotteria, vetri e così via. si tratta di detriti e frammenti di vetro, metallo e ceramica risalenti probabilmente a una discarica degli anni ‘20 e ‘30, raccolti e utilizzati per il rivestimento della scultura. anche qui la scelta di John Glenn è autobiografica: a questo eroe nazionale, originario di Detroit, era dedicato il liceo frequentato da Kelley, e la statua è una replica di dimensione quasi doppia rispetto all’originale che si trova ancor oggi nella biblioteca della scuola.

l'ossessione scolastica, il pensiero reiterato e congelato su un frammento di vita evidentemente indigerito, raggiunge la sua apoteosi nella presentazione di un modello architettonico di tutti gli edifici scolastici frequentati da Mike Kelley nel corso della sua esistenza realizzato in base alla sua memoria e con alcune parti mancanti laddove non ne ricordava la struttura. i pannelli di legno che costituiscono l’installazione sono assemblati in modo da ricreare la sensazione dei cubicoli da ufficio presenti negli spazi di lavoro tipo open space: sulle pareti dei cubicoli sono appesi disegni, schemi, schizzi e appunti insieme a immagini ambigue che sembrano tratte da fumetti d’epoca. frasi di riferimento sessuale e forse abusante ricorrono qua e là appesi alle bacheche.

un universo di disperazione.

l'unica opera che posso definire artistica, con un suo spessore di ricerca al di là di un ossessione congelata a un momento traumatico della vita di quest'uomo, ma pur sempre improntata alla drammaticità, alla contrapposizione tra maschile e femminile probabilmente sessualmente irrisolta, è l'ultima, commissionata dal Louvre, Profondeurs Vertes.
E' un’opera inusuale: per la prima volta infatti l’oggetto del lavoro non è costituito da riferimenti alla cultura popolare bensì da due opere appartenenti alla storia dell’arte del Settecento e dell’Ottocento. Composta da tre proiezioni video, un dipinto a olio e una serie di sette disegni, oltre a diverse fonti sonore, Profondeurs Vertes è un complesso gioco di rimandi e citazioni intorno a due quadri della collezione ancora oggi esposte nel museo di Detroit: Watson and The Shark (1777) di John Singleton Copley e The Recitation (1891) di Thomas Wilmer Dewing.
 
 I due quadri rappresentano rispettivamente il dramma di un naufragio, con un uomo in mare che sta per essere attaccato da uno squalo, e il ritratto campestre di due donne raffigurate nello stile della pittura borghese del tempo. In entrambi i dipinti il colore dominante è il verde da cui il titolo dell’opera. La colonna sonora di Watson and The Shark, dal tono epico e drammatico, è ispirata alle colonne sonore dei film d’avventura di Bernard Herrmann, mentre da un’altra fonte sonora è possibile ascoltare la declamazione di un frammento del secondo canto di Maldoror (lavoro poetico proto-surrealista, scritto da Isidore Ducasse sotto lo pseudonimo di Conte di Lautréamont) in cui il protagonista esprime il suo amore per una femmina squalo: la descrizione dell’attacco dello squalo a una zattera di sopravvissuti a un naufragio ben si associa a Watson and the Shark. The Recitation è accompagnato dalla musica del compositore impressionista Charles Tomlinson Griffes e da brani di grandi scrittrici e poetesse della letteratura dell’Ottocento americano, da Ella Wheeler Wilcox a Julia Ward Howe, fino a Harriet Prescott Spofford. 
Profondeurs Vertes mette in luce una preparazione artistica, la conoscenza della storia dell'arte, della musica, della poesia, l'analisi dei testi e la capacità grafica. Il naufragio, che sul video viene frammentato in singoli pezzi visualizzando in modo ingrandito i tratti drammatici dei volti, dello squalo, della disperazione, dell'abbandono alla morte, viene poi ripreso in disegni dell'artista, posti in sequenza, che ritraggono frammenti dell'opera originaria, solo lievi tratti grafici ma significativi, solo l'impronta stilizzata della rappresentazione pittorica. un'operazione di smaltimento del superfluo che esalta la drammaticità, anzi la tragicità dell'evento rappresentato, i momenti successivi di un'evento senza scampo, l'essenzialità del dolore.
ecco l'artista finalmente, oltre l'uomo strutturato nell'angoscia di un vivere insopportabile, ecco un'operazione di senso artistico, non più solo e unicamente la rappresentazione ostinata e invadente di un'agonia che preannuncia una fine suicidaria. 

lunedì 22 luglio 2013

Kogo lo spaccapietre

In un’epoca lontana, molto lontana, in Giappone viveva un povero spaccapietre di nome Kogo. 
Anche se esercitava un mestiere molto faticoso, egli non era da compiangere; era giovane e forte, e mangiava tutti i giorni a sazietà. Disgraziatamente Kogo era nato invidioso. Lui, povero kulì, condannato a spaccare pietre, sognava di diventare un daimio, ossia uno di quei ricchi signori che vedeva passare talvolta per le strade, in una lussuosa carrozza, circondati da numerosi servitori. 
E, ogni giorno, Kogo pregava il suo angelo custode di esaudire il suo desiderio. 
Egli pregava con tanta fede, e il suo desiderio era così vivo che l’angelo custode decise di andare a perorare la sua causa presso l’Altissimo. 
E, con sua grande meraviglia, il Dio dell’universo gli concesse la facoltà di soddisfare tutti i desideri di Kogo. Immediatamente, costui si trovò trasportato in una ricca dimora, vestito con abiti lussuosi e circondato da uno stuolo di domestici. Per qualche mese, Kogo fu immensamente felice della sua nuova condizione di daimio. Gli piaceva passeggiare per le strade e vedere i suoi antichi compagni di lavoro e di miseria scostarsi rispettosamente al suo passaggio. 
Un giorno, tuttavia, di caldo torrido, egli constatò che traspirava come un volgare kulì e che il sole era più potente dei daimi. Subito chiamò il suo angelo custode. “Voglio diventare il Sole”, gli disse. 
L’angelo custode, che voleva molto bene a Kogo, lo guardò con una certa tristezza, poiché capì che sarebbe stato un eterno insoddisfatto, e provò pena per lui. Ma lo esaudì anche questa volta. 
E Kogo divenne il Sole. Egli si mise a brillare nel cielo con uno splendore particolare e era così preso del suo nuovo potere che inflisse al Giappone una delle estati più torride che questo Paese avesse mai visto. Un giorno, mentre egli si era assopito, certamente stanco per aver brillato tanto, il suo splendore fu offuscato da una grossa nube scura che venne a frapporsi fra lui e la terra.
Kogo convocò nuovamente il suo angelo custode e gli disse: “Voglio diventare questa nube più forte del sole!” Ancora una volta fu accontentato. Signore della pioggia, egli riversò sul Giappone trombe marine che provocarono terribili inondazioni, spazzando via indifferentemente le case dei poveri kulì e i palazzi dei ricchi daimi. 
Kogo questa volta era veramente il più forte e per diversi mesi fu raggiante di felicità. Tuttavia, proprio all’estremità del Giappone, di fronte al mare, c’era un immenso promontorio roccioso che si prendeva gioco dei suoi tifoni e dei suoi tornado. Kogo finì con l’adombrarsene. Intensificò i suoi assalti, le navi che si trovavano sul mare affondavano, la costa fu devastata. Ma quando, esausto, Kogo dovette fermarsi, la roccia appariva intatta nella sua orgogliosa potenza. 
Furibondo, Kogo volle subito trasformarsi in questa roccia. E fu trasformato. Poté così a sua volta contemplare l’oceano da tutta la sua altezza e veder sfilare davanti a sé navi e barche, simili a gusci di noce. Aveva raggiunto il colmo della felicità. Almeno così credeva. 
Infatti, una mattina, fu svegliato da un colpo come di piccone ed ebbe la sensazione che un pezzo della sua carne si staccasse da lui. Che cosa stava succedendo? I colpi continuarono, e ogni colpo era accompagnato dalla stessa sensazione dolorosa. Ferito nell’orgoglio, Kogo si lasciò andare a una collera terribile e urlò al suo angelo custode: “C’è qualcuno che osa scalfire la mia potenza….. Voglio essere questo qualcuno!” “Con piacere”, rispose consenziente e con voce ironica l’angelo custode. 
E, nello stesso istante, Kogo si ritrovò, come agli inizi, spaccapietre, finalmente contento.

questa fiaba l'ho ascoltata -musicata, parlata e disegnata- al Conservatorio, in attesa di vedere un film, all'aperto. al Conservatorio la proiezione del film è sempre preceduta da un breve concerto e questo è stato singolare: mi sono ritrovata ad ascoltare un trio veramente bizzarro, il Trio chitarristico Trobairitz, tre signore dall'aspetto a suo modo fiabesco, capelli posture abbigliamento appartenenti a un'altra epoca, a un tempo non definibile cronologicamente, così come anche i loro strumenti, la loro età come forse anche il loro sesso.
la fiaba era accompagnata da disegni strepitosi, lievi e leggeri -e che no ho ritrovato in alcun modo- , raccontata in modo altrettanto leggero, non condita e appesantita come l'ho ritrovata io, con tratti appena accennati, sussurrati, più sottintesi che espliciti. pennellature e sfumature, un ritratto intelligente a dimostrazione di un'infelicità che a volte deve solo trovare la giusta prospettiva per riproporsi sotto altra e più meritevole forma.

venerdì 19 luglio 2013

Premio Mies van der Rohe 2013

una domenica mattina, in bici e in santa pace, mi sono recata alla Triennale.
ho visto un paio di mostre, deludenti, e poi di sfuggita questa esposizione che raccontava di questo premio.

Il Premio, nato per un’iniziativa congiunta della Commissione Europea e della Fundació Mies van der Rohe, riconosce l’eccellenza architettonica e valorizza l’importante contributo dei professionisti europei allo sviluppo di nuove idee e tecnologie, offrendo sia agli individui che alle istituzioni pubbliche l’opportunità di comprendere meglio il ruolo culturale svolto dall’architettura nella costruzione delle nostre città. Il Premio mira inoltre a supportare i giovani professionisti all’inizio della propria carriera. Ad ogni edizione biennale, le opere nominate, che devono essere state completate nei due anni precedenti, sono selezionate da un gruppo di esperti indipendenti, membri dell’Architects’ Council of Europe (ACE) e da altre associazioni nazionali di architetti. Per ogni edizione la Giuria seleziona due opere: a una è destinato il Premio e all’altra la Menzione Speciale; entrambi i riconoscimenti premiano le qualità concettuali, tecniche e costruttive dell’opera. La Giuria fa inoltre una selezione di progetti che verranno presentati nella mostra e nel catalogo realizzati in occasione dell’evento.  Nell’ambito del Premio 2013, sono state nominate in totale 335 opere, tra le quali la giuria, al primo incontro a Barcellona, ha selezionato le cinque finaliste, che sono elencate di seguito: 
Municipio, Gand, Belgio 
Architetti: Robbrecht en Daem architecten; Marie-José Van Hee architecten; 
Superkilen (parco urbano interculturale), Copenaghen, Danimarca
BIG Bjarke Ingels Group; Topotek1; Superflex; 
Harpa – Sala concerti e centro conferenze di Reykjavik , Reykjavik, Islanda 
Batteríid Architects; Henning Larsen Architects; Studio Olafur Eliasson; 
Casa per anziani, Alcácer do Sal, Portogallo
Aires Mateus Arquitectos; 
Metropol Parasol (spazio culturale e commerciale), Siviglia, Spagna
J. Mayer H. 
Subito dopo avere visionato queste opere, la giuria si è riunita per la seconda volta alla Triennale di Milano ed è stata scelta come opera vincitrice  Harpa, sala concerti e centro conferenze di Reykjavik progettata da Henning Larsen e Batteríið insieme all’artista plastico Olafur Eliasson. 

beh insomma, senza dilungarmi troppo, le foto di alcuni di questi posticini belli tanto premiati sono davvero singolari. io non capisco un accidenti, ma l'architettura moderna a volte mi folgora.
così, ignorante come sono, rimango attratta dalle belle forme.

Ghent, Belgium. Architects: Robbrecht en Daem architecten; Marie-José Van Hee architecten (photograph: Petra Decouttere)
City Hall, Ghent, Belgium
Superkilen
Copenhagen, Denmark, BIG Bjarke Ingels Group; Topotek1; Superflex (photograph: Superflex)
Superkilen, Copenhagen, Denmark
Harpa - Reykjavik Concert Hall and Conference Centre
Reykjavik, Iceland. Batteríid Architects; Henning Larsen Architects; Studio Olafur Eliasson (photograph: Nic Lehoux)
Harpa - Reykjavik Concert Hall & Conference Centre
House for Elderly People
Alcácer do Sal, Portugal. Aires Mateus Arquitectos (photograph: FG+SG)
House for Elderly People, Alcácer do Sal, Portugal
Metropol Parasol
Seville, Spain. J. Mayer H (photograph: David Franck)
Metropol Parasol, Seville, Spain



il vincitore del premio, la Sala concerti e centro conferenze di Reykjavik, mi piace moltissimo. è un posto blu, acquoso, leggero, luminoso, vetrato, riflettente, arioso, musicale. chissà se mi capiterà di visitarlo, di vederlo, di fotografarlo. ci sono tanti posti che so mi piacerebbero e che, nella mia vita, non vedrò mai.
Harpa Reykjavik Concert Hall and Conference Centre    harpa-reykjavik-concert-hall-and-conference-centre-1
"Harpa ha catturato il mito di una nazione che ha consapevolmente agito in favore della costruzione di un edificio ibrido culturale nel bel mezzo della Grande Recessione. L’iconico e trasparente “quasi mattone” impiegato appare come un gioco sempre diverso di luci e colori che avvia un dialogo tra la città di Reykjavik e la vita all’interno dell’edificio"

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giovedì 18 luglio 2013

una stanza tutta per sè

C'era un libro accanto a me e, nell'aprirlo, mi rivolsi quasi per caso a Tennyson. Ed ecco Tennyson che cantava: 

"È caduta una splendida lacrima
dalla passiflora al cancello. 
Ella arriva, la mia colomba, il mio tesoro;
ella arriva, la mia vita, il mio destino; 
La rosa rossa grida, 'Si avvicina, si avvicina'.
E la rosa bianca piange, 'È in ritardo';
la speronella ascolta, 'La sento, la sento'; 
e il giglio sussurra, 'L'aspetto'." 

Era questo ciò che gli uomini mormoravano ai pranzi prima della guerra? E le donne? 

"Il mio cuore è come un uccello canoro
che ha fatto il nido su un ramo bagnato; 
il mio cuore è come un albero di mele
dai rami curvi per i frutti abbondanti;
il mio cuore è come una conchiglia arcobaleno
che voga in un mare calmo;
il mio cuore di tutti questi è il più felice
perché il mio amore è giunto da me." 

Era questo ciò che le donne mormoravano ai pranzi prima della guerra? 

Tennyson interroga e Christina Rossetti risponde.

questo è un piccolo estratto dal primo capitolo de Una stanza tutta per sè di Virginia Woolf.
non c'è libro di questa autrice che io abbia letto che non mi abbia procurato una gran gioia e un grandissimo godimento nel leggerli.
Virginia Woolf ha il gran dono dell'intelligenza, della bella scrittura, del genio intellettuale e, per me sopra ogni altro, del fascino del mistero.
Gita al faro è stato per me un'esperienza, esperienza di altro, di un altrove, di una dimensione non umana, magica, ipnotica, inconscia, oltre la realtà. una lettura indimenticabile.
come descrive molto bene in questo saggio, encomiabile per chiarezza, scorrevolezza, bellezza, profondità e lucidità di vedute sull'indipendenza economica e intellettuale delle donne, la grande libertà che il sesso femminile ha potuto conquistare, grazie all'autonomia economica e alla conquista di spazi propri, è quella di una scrittura al femminile, una scrittura diversa e indipendente da quella maschile: autentica e, soprattutto, una senza risentimento.
la citazione critica su Jane Eyre di Charlotte Bronte ha un enorme peso di verità e di lucidità descrittiva:
Il libro si era aperto al capitolo dodici e il mio sguardo si fermò sulla frase: "Chiunque potrà biasimarmi, se crede". Perché biasimavano Charlotte Brontë? mi domandavo. E lessi di come Jane Eyre era solita salire sul tetto, mentre la signora Fairfax preparava le gelatine, per guardare, oltre i campi, il paesaggio lontano. E poi desiderava: (ed era per questo che la biasimavano) "allora desideravo un potere di visione capace di oltrepassare quei confini; capace di raggiungere il mondo indaffarato, le città, le regioni piene di vita di cui avevo sentito parlare ma che non avevo mai visto; allora desideravo più esperienza pratica di quanta ne possedessi; più rapporti con i miei simili, più conoscenza della varietà di caratteri di quanto fosse qui alla mia portata. Apprezzavo quanto c'era di buono nella signora Fairfax, e quanto c'era di buono in Adèle; ma credevo nell'esistenza di altri e più vivi generi di bontà, e quello in cui credevo, desideravo mirare.
Chi mi biasima? Molti, senza dubbio, e mi chiameranno scontenta. Non potevo farci niente: l'irrequietezza era nella mia natura; mi agitava fino al dolore a volte...
È inutile dire che gli esseri umani dovrebbero accontentarsi della tranquillità: hanno bisogno di azione; e la creeranno, se non riescono a trovarla. Milioni di essi sono condannati ad un destino più immobile del mio, e milioni si ribellano silenziosamente contro il loro fato. Nessuno sa quante ribellioni fermentano nelle masse di vita che popolano la terra. Si suppone generalmente che le donne siano molto calme: ma le donne sentono proprio come sentono gli uomini; hanno bisogno di esercitare le loro capacità e di un campo per i loro sforzi, proprio come i loro fratelli; soffrono per una costrizione troppo rigida, un'immobilità troppo completa, precisamente come ne soffrirebbero gli uomini; ed è meschino da parte dei loro più privilegiati simili dire che esse dovrebbero limitarsi a preparare budini e a fare la calza, a suonare il piano e a ricamare borse. È insensibile condannarle, o deriderle, se cercano di fare di più o di imparare di più di quanto la tradizione abbia decretato necessario per il loro sesso. 
In quei momenti di solitudine, non di rado sentivo la risata di Grace Poole... "
Questa è una goffa interruzione, pensai. È sconcertante imbattersi all'improvvisoin Grace Poole. La continuità viene turbata. Si potrebbe affermare, continuai, lasciando il libro accanto a Orgoglio e pregiudizio, che la donna che scrisse quelle pagine aveva in sé più talento di Jane Austen; ma basta rileggerle facendo caso a quel sobbalzo, a quell'indignazione, per capire che ella non riuscirà mai ad esprimere interamente il suo talento. I suoi libri saranno deformati e contorti. 
Scriverà con rabbia, quando dovrebbe scrivere con pacatezza. Scriverà insensatamente, quando dovrebbe scrivere saggiamente. Scriverà di se stessa, quando dovrebbescrivere dei suoi personaggi. È in conflitto con il suo destino. Come avrebbe potuto non morire giovane, limitata e frustrata?
e tramite l'osservazione di questa collera che interrompe il flusso narrativo, che fa irrompere la donna Charlotte, la sua rabbia e risentimento per un isolamento infelice, nella struttura narrativa della scrittrice Charlotte disturbandone la creatività, l'acutissima Virginia aggiunge:

Ma c'erano molte più influenze della collera a far deviare la sua immaginazione, allontanandola dal suo percorso. L'ignoranza, per esempio. Il ritratto di Rochester è tracciato al buio. Sentiamo su di esso l'influenza della paura; così come sentiamo costantemente la causticità, conseguenza dell'oppressione, la sofferenza sotterranea che cova sotto la passione, il rancore che contrae quei libri, per quanto splendidi, con uno spasmo di dolore. 
E poiché un romanzo ha questa corrispondenza con la vita reale, i suoi valori sono, fino ad un certo punto, quelli della vita reale. Ma è ovvio che i valori delle donne differiscono molto spesso dai valori creati dall'altro sesso; è naturale che sia così. Tuttavia sono i valori maschili a prevalere. L'intera struttura del romanzo del primo Ottocento, quindi, veniva eretta, se l'autore era una donna, da una mente leggermente allontanata dal proprio percorso, e costretta ad alterare la sua chiara visione, in ossequio a un'autorità esteriore. Basta sfogliare quei vecchi romanzi dimenticati e prestare orecchio al tono di voce in cui sono scritti, per indovinare che l'autrice stava affrontando delle critiche; diceva questo per aggredire, o quell'altro per placare. Riconosceva di essere "soltanto una donna", o protestava di essere "brava quanto un uomo". Affrontò quelle critiche come dettava il suo temperamento, con docilità e reticenza, o con rabbia e veemenza. Non importa se in un modo o nell'altro; stava pensando a qualcos'altro che non era il romanzo. Il suo libro va in pezzi. C'era una spaccatura nel mezzo. E pensai a tutti quei romanzi scritti dalle donne, che ora si trovano sparsi, come piccole mele butterate in un orto, nei negozi di libri usati di Londra. Era quella spaccatura nel mezzo che li aveva fatti marcire. L'autrice aveva alterato i suoi valori per rispetto delle opinioni altrui. 
Ma quanto deve essere stato difficile per loro non voltarsi né a destra né a sinistra. Che genio, che integrità saranno occorsi di fronte a tutte quelle critiche, in quella società esclusivamente patriarcale, per poter affermare la realtà, così come le donne la vedevano, senza timore. Solo Jane Austen ci è riuscita; ed Emily Brontë. È un'altra piuma, forse la più bella, del loro cappello. Scrissero come scrivono le donne, non come scrivono gli uomini. Fra tutte le migliaia di donne che scrivevano allora romanzi, furono le sole ad ignorare completamente gli incessanti ammonimenti dell'eterno pedagogo: scrivi questo, pensa quello. Furono le sole a rimanere sorde a quella voce insistente, ora brontolante, ora condiscendente, ora tiranneggiante, ora accorata, ora scandalizzata, ora arrabbiata, ora confidenziale, quella voce che non riesce a lasciare in pace le donne, ma deve star loro dietro, come un'istitutrice troppo coscienziosa, scongiurandole, come Sir Egerton Brydges, di essere raffinate; ricorrendo persino, nella critica letteraria, alla critica del sesso; esortandole, se volessero essere brave e vincere, come suppongo, qualche trofeo luccicante, a mantenersi entro certi limiti che il signore in questione ritiene convenienti: "... le scrittrici di romanzi dovrebbero aspirare all'eccellenza soltanto riconoscendo coraggiosamente le limitazioni del loro sesso". Così la questione è ridotta al nocciolo, e quando vi dico, cogliendovi alquanto di sorpresa, che questa frase non fu scritta nell'agosto del 1828 ma nell'agosto del 1928, converrete, credo, che per quanto ora possa farci sorridere, rappresenta una diffusa tendenza di pensiero - non voglio rimestare in quelle vecchie pozzanghere; prendo solo ciò che il caso ha fatto galleggiare fino ai miei piedi - che un secolo fa era assai più vigorosa e assai più esplicita. Nel 1828 ci sarebbe voluta una ragazza molto risoluta per non curarsi di tutte quelle umiliazioni e rampogne e promesse di premi. Avrebbe dovuto essere una specie di sovvertitrice per poter dire a se stessa: Oh, ma non possono comprare anche la letteratura. La letteratura è aperta a tutti. Io non ti permetto, per quanto custode tu sia, di cacciarmi via dal prato. Chiudete a doppia mandata le vostre biblioteche, se volete; ma non c'è nessun cancello, nessun lucchetto, nessun catenaccio che potete mettere alla libertà della mia mente. 


dice bene la Woolf, indipendenza economica, spazio e tempo per sé e, soprattutto, autonomia di pensiero, di stile, di strumenti espressivi sono gli ingredienti fondamentali affinché un romanzo al femminile sia credibile, scevro da incursioni e rancori personali, libero di esprimere una vita propria, ricca e comunicativa. una scrittura diversa, differenziata, come lo è la natura delle donne da quella degli uomini

basta entrare in una qualunque stanza di una qualunque strada per essere colpiti da tutta quella forza estremamente complessa della femminilità. Come potrebbe essere altrimenti? Le donne sono state sedute dentro casa per così tanti milioni di anni, che ormai anche i muri sono pervasi della loro energia creativa, la quale, infatti, ha talmente ecceduto la capacità di mattoni e malta che deve necessariamente legarsi alle penne, ai pennelli, agli affari e alla politica. Questa forza creativa, tuttavia, differisce enormemente dalla forza creativa degli uomini. E dobbiamo dedurre che sarebbe un vero peccato se venisse ostacolata o sprecata, perché è stata conquistata con secoli e secoli della più drastica disciplina, e non c'è niente che la possa sostituire. Sarebbe un vero peccato se le donne scrivessero come gli uomini, o vivessero come gli uomini, o somigliassero agli uomini, perché se due sessi non bastano, considerando la vastità e la varietà del mondo, come potremmo cavarcela con uno solo? Non dovrebbe l'educazione evidenziare e rafforzare le differenze, piuttosto che le somiglianze? Perché ci somigliamo già troppo...

come non darle ragione? esaltiamo la differenza tra i sessi, la diversità è la vera ricchezza di ogni uomo e di ogni donna, l'unica strada percorribile per la felicità, è la formula necessaria al dialogo, al confronto, alla creatività e alla bellezza di una vita propria, non mutuata dall'altro, non imitata, non presa a prestito, non simulata ma autentica. diversa e singolare.

Come posso incoraggiarvi ulteriormente ad affrontare la vita? Ragazze, vi direi, e per favore prestate attenzione perché la perorazione sta per cominciare, voi siete, secondo me, vergognosamente ignoranti. Non avete mai fatto una scoperta della minima importanza. Non avete mai fatto tremare un impero o condotto un esercito in battaglia. Non avete scritto le opere di Shakespeare, e non avete mai portato i doni della civiltà a una razza barbara. Qual è la vostra giustificazione? Potete anche dire, indicando le strade e le piazze e le foreste del globo brulicanti di abitanti neri e bianchi e nocciola, tutti affannosamente alle prese con il commercio e l'industria e l'amore, abbiamo avuto altro da fare per le mani. Se non fosse stato per opera nostra, su quei mari non ci sarebbero vele e quelle terre fertili sarebbero un deserto. Abbiamo partorito e allevato e lavato e istruito, forse fino all'età di sei o sette anni, i milleseicentoventitré milioni di esseri umani che, secondo le statistiche, vivono oggi, e per questo, pur riconoscendo che alcune sono state aiutate, ci vuole tempo. C'è del vero in quello che dite, non lo nego. Ma allo stesso tempo posso ricordarvi che dal 1866 esistono in Inghilterra almeno due college universitari femminili; che dopo il 1880 la legge permetteva a una donna sposata di possedere i propri beni; e che nel 1919 (il che significa ben nove anni fa) le è stato concesso il voto? Posso anche ricordarvi che da circa dieci anni ormai vi sono state aperte quasi tutte le professioni? Quando rifletterete su questi immensi privilegi e sul lungo periodo in cui li avete goduti, e sul fatto che ci devono essere in questo momento forse duemila donne capaci di guadagnare più di cinquecento all'anno in un modo o nell'altro, converrete che la scusa di mancanza di opportunità, preparazione, incoraggiamento, tempo libero e denaro non tiene più. Per di più, gli economisti ci dicono che la signora Seton ha avuto troppi figli. Dovete naturalmente continuare ad avere figli, ma, così dicono, a due o a tre, non a dieci o dodici. Perciò, con un po' di tempo a disposizione e un po' di cultura libresca nella testa - dell'altra ne avete avuta abbastanza, e vi mandano all'università in parte, sospetto, per essere diseducate - dovreste sicuramente intraprendere un'altra fase della vostra lunghissima, faticosissima e assai oscura carriera. Mille penne sono pronte a suggerirvi cosa dovreste fare e quale effetto avrete.

penso al mistero che sottende la vita questa donna, e forse tutte le vite. penso alla vitalità della sua scrittura, alla ricchezza del suo pensiero, all'immenso talento, alla vita, alla passione, alla dedizione e al desiderio che si respirano in queste pagine. e penso alla sofferenza mentale, al suo suicidio, al dolore di tutta una vita trascorsa, nonostante tutto questo inestimabile tesoro, nella disperazione di non avere un buon motivo per vivere.

lunedì 15 luglio 2013

sconcerto

Flavio Soriga.
ho cercato di salutarlo all'uscita dell'OUTOFF ma nemmeno mi ha visto.
volevo comunicargli un alleluia per l'intelligenza e l'allegria.
ma non m'ha vista. troppo preso da saluti e complimentoni.
ultima serata della Milanesiana, un dono venuto dal cielo.
prima Walter Siti, poi Nicolai Lilin (autore vendutissimo acclamatissimo dell'Educazione Siberiana)
il primo se la tira da premio Strega -fresco fresco- e riferisce i segreti -ricordo che il segreto è il tema portante della rassegna- dell'alcova genitoriale e dei suoi gesti di onanismo adolescenziale, almeno credo, come vessilli di diversità e unicità, al solito, rispetto alla volgarità dilagante globalizzata.
il secondo si sforza moltissimo: ma quanto si sforza di scrivere bene! troppi aggettivi, troppi tentativi di colpi di scena, troppi tentativi di biografia originale DOC. mi ha fatto pensare a me, ho pensato ascoltandolo: aiuto scrive come me. si sforza troppo, troppo di tutto. sottrarre, meglio sottrarre, l'essenziale e il non detto contano molto di più di tutto quel che ci si sforza di dire.
poi arriva Flavio Soriga. mai visto, mai sentito, mai niente.
poi arriva Paolo Fresu, molto sentito, molto conosciuto, molto di tutto.
cosa hanno in comune? sono sardi, si anche, uno di Berchida l'altro di Uta, sono complici, silenziosamente complici, e divertenti.
tirano fuori un'oretta scarsa di puro divertimento e godimento, tra parole e musica. uno legge le sue parodie esilaranti, l'altro improvvisa con 'sta tromba che sembra una propaggine della sua stessa carne.
ne viene fuori una delizia cabarettistica musicata jazzata sincopata che vale tutta la Milanesiana messa insieme.

Soriga, al contrario dei suoi predecessori, ai quali chiede scusa della sua umile presenza e per l'importanza dei quali si scusa con il pubblico per la sua umile presenza, è simpatico, scorrevole, veloce, immediato. una scrittura - e lettura - alla mano, senza enfasi, senza riccioli, senza eccessi. via liscio, molto ironico, anzi, diciamolo, entusiasticamente divertente.
magari alla lunga, come narratore -è autore di alcuni libri editi da Bompiani- in un romanzo non regge, magari ha idee banali e senza sostanza, magari scrive solo così e si lascia il libro a metà per noia e imbarazzo, ma per l'occasione si è dimostrato non solo all'altezza -ed è basso basso- ma decisamente superiore agli altri.
fa coppia con quel genio del suo amico, Paolo Fresu, che improvvisa con la tromba ed è un fenomeno. ma non solo per quel che sa suonare, direi soprattutto per come sa suonare.
entra, vestito (!), scarpe jeans e camicia, lungo e magro, ma dopo pochi minuti si toglie le scarpe -a vederle poi lì abbandonate sotto la sedia, direi trattasi di vecchie e logore scarpe stra-usate in tempo di cestinatura- e prosegue così per tutto il concerto, o non-concerto che dir si voglia. quel che mi impressiona sono, appunto i piedi. lunghi e magri, scavati e arcuati che, durante il lavoro delle mani sui tasti della tromba- altrettanto lunghe e magre e affusolate- si torcono e si piegano, si alzano e si inarcano, ora a punta come un ballerino, ora a martello come un ginnasta. questi movimenti mi imbarazzano. sono movimenti del corpo, che seguono o forse proprio incarnano la musica, la rendono viva e possibile, che avverto come molto intimi. mi sembra di assistere a una pratica privata, a un'espressione sessuale del corpo, al quale non dovrei, per pudore, partecipare.
mi compiaccio si della musica ma poi mi libero da questa sensazione di sconcerto (...) quando arriva la voce di Soriga ad alleggerire il tutto con il suo tono canzonatorio e sarcastico. per fortuna, mi dico, esiste gente così. così diversa da me, leggera, sottile, libera dalla zavorra del senso di colpa, almeno apparentemente per questa ora che mi stanno gioiosamente regalando.
alla fine della serata, contenta, ho scoperto che Elisabetta -Sgarbi - compiva gli anni.
un cancrino come me...sarà scorbutica e asociale come me? pare di si...


l'indisponibilità al conflitto

leggo su la Lettura del Corriere della Sera questa bella intervista tra Sandro Veronesi e Laura Morante sulla posizione verso i propri figli, se posizione ancora "edipica", educativa e rigorosa o, come sembra suggerire Veronesi, più disposta alla mediazione, al confronto e all'accettazione. accettazione più che nostra verso i nostri figli, dei nostri figli verso di noi. quel che non piace al padre moderno, quello che assolutamente non sa più fare, quello che evita accuratamente a costo di mandare per aria la famiglia, è quella inevitabile e dolorosa tortura di tollerare l'odio adolescenziale dei figli verso di sè. come dimostra più Veronesi della Morante, questo passaggio, quello del conflitto, è inaccettabile e intollerabile. il padre vuole essere complice del figlio, capirlo, affiancarlo, blandirlo, ma assolutamente non sa mettersi in posizione di argine, di limite, di negazione del permesso, perché assumere questi ruolo e posizione vuol dire scontrarsi, vuol dire essere giudicati, vuol dire essere separati e odiati. ma, come insegna tutta intera la psicoanalisi del mondo, questo significa solo essere odiati per il tempo necessario ad una crescita, ad una maturazione interiore, ad un superamento del modello di riferimento, per poi essere di nuovo amati.  anzi solo così saremo amati dai nostri figli, accettando ora il loro disappunto -e questo è solo un eufemismo, ovviamente- ma recuperando poi la loro riconoscenza perché solo attraverso il limite, l'imposizione del limite, del non possibile, sarà loro consegnato l'accesso al desiderio, l'insegnamento della passione e della dedizione. se siamo complici e diamo noi, ora, tutto per possibile, non ci sarà per loro nulla da guadagnare, cresceremo dei figli improntati al narcisismo e al godimento mortifero di tutto, di ogni cosa, cui poi non rimarrà che il vuoto abissale del nulla. 


Non siamo curiosi dei nostri figli
Sandro Veronesi si confronta con Laura Morante: "l'indisponiobilità al conflitto" incontra "l'importanza di maneggiare" chi amiamo.

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Pare che il rapporto più produttivo tra genitori e figli — produttivo in termini proprio storici, di civiltà — sia il conflitto. Allora la domanda è: siamo preparati a vivere questo conflitto, da genitori? Perché da figli viene naturale, si tratta di una strada inevitabile; ma almeno io mi trovo in difficoltà a percorrere questa stessa strada da padre, cioè a scontrarmi con i miei figli per il loro bene. Laura Morante, come te la cavi con questo problema?
«Non so come me la cavo. Peròmi ricordo che anni fa discutevo con un mio fratello col quale generalmente vado molto d’accordo, e ci fu una specie di scontro ideologico su come dovevamo comportarci con le nostre figlie, e io a un certo punto gli dissi: “Giacomo, ricordati che il peggiore dei genitori possibili è il genitore perfetto”. E infatti io rivendico la mia imperfezione».
Ma a te riesce essere imperfetta? Cioè, ti riesce non cercare di essere perfetta?
«Be’, certo, la tentazione di sfuggire la criticabilità è molto forte, c’è sempre. È naturale, è quasi un istinto. Però, in linea di principio io non soltanto accetto ma veramente rivendico la mia imperfezione. Penso che per un figlio sia terribile vedere ergersi di fronte a sé un genitore perfetto».
Ora ti dico una cosa che succede a me. Io di solito considero ogni potenziale punto di conflitto con i miei figli come un’occasione di ripensarmi, di liberarmi di convinzioni che risalgono magari a molti anni fa. Perciò va a finire che non pongo molti ostacoli alle inclinazioni dei miei figli, ma al contrario mi ritrovo a modificare le mie. Onestamente non so dirti se questo nasconda una mia mancanza di nerbo normativo, ma insomma ormai mi sono abituato a considerare i miei figli come una risorsa di «creazione di me», chiamiamola così. Il figlio che crea il padre, insomma, e non viceversa.
«Ma certo, i figli sono delle risorse, e non soltanto per le cose che esprimono consapevolmente, ma anche per altre più ipnotiche, più profonde. Io ricordo Eugenia, la mia prima figlia, quando aveva un anno e visse accanto a me la sua prima esperienza di un temporale. Ricordo l’emozione che provò, e quella sua emozione mi restituì intatta quella che avevo provato io. Devo dire che io sono strutturalmente polifonica, diciamo così, e infatti sono anche complicata nell’agire, e ho tendenza a sposare molti punti di vista. È proprio un vizio, quasi: non mi è mai riuscito di ammirare un paesaggio senza chiedermi come sia l’inverso, cioè il punto dove io mi trovo visto da quello che sto ammirando».
Ecco, ma questo non assomiglia un po’ a quella tendenza alla perfezione di cui parlavamo prima? Perché un genitore autoritario, severo, normativo, che tende a imporre il proprio punto di vista ai figli senza considerare il loro, sicuramente perfetto non è. E questo si dice che alla fine fa bene ai figli, stimolando la loro voglia di superarlo, di lasciarselo indietro e andare oltre. Ecco, a me non riesce di farmi ingombro per dar loro questo stimolo.
«E certo, ma io non dico che sia semplice, o anche solo che sia possibile: io dico che in linea di principio un genitore deve accettare di farsi anche un po’ odiare, perché sono convinta che l’ostacolo più grande, e non solo tra genitori e figli ma sempre, nei rapporti, sia la vanità. Purtroppo la vanità è una delle piaghe dell’umanità».
Cioè mi stai dicendo che forse questa mia indisponibilità al conflitto con i miei figli possa essere una forma di vanità?
«Sì, io penso che la vanità possa entrarci. Ora puoi anche definirla con una parola più amabile, però penso che in sostanza sia questo. A tutti fa piacere sentir dire “mio padre è un uomo meraviglioso” piuttosto che “mio padre è uno stronzo”. Ma è da dimostrare che sia più sano».
Già, ma come si fa a essere stronzi? Guarda che con i nostri figli si può anche pensarla allo stesso modo, non siamo così lontani. La cultura di riferimento, al contrario di quel che capitava con i nostri genitori, è la stessa. È molto più difficile essere stronzi con uno che ascolta la stessa musica che ascolti tu. Ho assistito all’orale dell’esame di terza media dimio figlio, l’altro giorno, e parlava di Andy Warhol, del «Giovane Holden», delle missioni Apollo sulla Luna. Quelle sono cose anche mie, come si fa a essere stronzi?
«Sì, hai ragione, non è per niente semplice. È per questo che parlavo di linea di principio».
Ma insomma, tu li hai avuti dei conflitti forti con le tue figlie?
«Sì che li ho avuti. Nel periodo proprio classico, il periodo adolescenziale. Diciamo che allora avevo un perpetuo senso di colpa perché mi ero separata da tutti e due i loro padri e questo mi metteva in una situazione molto attaccabile. E non osavo reagire come probabilmente avrei dovuto perché il senso di colpa, appunto, quello proprio rotondo, classico, me lo impediva. E in più ero una donna separata e perciò ero diventata un po’ tutto, per loro, e non c’era possibilità di fuggire. Non potevo mai deviare i colpi: arrivavano tutti a me».
Riguardando le cose retrospettivamente c’è qualcosa che hai fatto e che non rifaresti?
«Sì. Sicuramente sarei più attenta a non esporle così tanto alle mie vicissitudini personali. Credo di averle coinvolte un po’ troppo, ecco. Avrei potuto preservarle di più, facendo scelte più ponderate, soprattutto facendo passare più tempo, e credo che se potessi tornare indietro lo farei. Starei molto più attenta perché poi loro, avendo appunto questo rapporto così simbiotico con me, hanno proprio introiettato le mie sofferenze e le mie inquietudini. Ma a proposito dell’educazione non autoritaria mi è venuto in mente un episodio di quando ero ragazzina ed ero andata con mia madre in visita da una sua amica, che aveva due bambini piccoli, tipo di cinque e tre anni, educati con un sistema rigorosamente non-autoritario; per cui, mentre noi tre eravamo lì in salotto a conversare, quei due diavoli ne combinavano di tutti i colori: rovesciavano i libri della libreria, i cuscini dei divani, facevano tutta la confusione possibile nell’indifferenza serafica della madre. Io ero allibita, ma la madre continuava a parlare come se niente fosse. A un certo punto il bambino più grande, tutto sudato, ansimante, è salito in piedi sul tavolo attorno al quale eravamo sedute noi, ha tirato un gran sospiro e ha detto: “Che palle!”. E io questa cosa me la ricorderò sempre, perché quel bambino non riusciva proprio a stare senza i rimproveri della madre, ma lei non gliene dava».
È la cosa più crudele che abbia mai sentito. Ma sei sicura che fosse un metodo? Magari era semplicemente sadica.
«Non lo so se era un metodo, ma di sicuro non era un comportamento naturale. Da una parte ero ammirata davanti all’imperturbabilità di quella donna, ma dall’altra ero proprio sconvolta vedendo questo bambino, poverino, che cercava in tutti i modi uno scappellotto che non arrivava».
Tra l’altro io non credo proprio che si debbano seguire dei metodi per allevare i figli.
«Guarda, io ho sempre creduto che con i figli contino molto di più i gesti delle parole. Ho sempre pensato che il problema dimolte famiglie sia che si parla troppo, perché penso che la parola sia sempre un po’ fuorviante. Il gesto secondo me è infinitamente più importante per l’equilibrio affettivo. Parlo proprio di gesti semplici, primari. Quando le bambine erano piccole e io vivevo la mia vita travagliata, sentivo che la distanza tra me e loro aumentava quando, per ragioni anche contingenti, perché lavoravo eccetera, io non le toccavo. Bastava che ricominciassi a cambiarle, a dar loro da mangiare, a vestirle, a prenderle in braccio, il rapporto si ristabiliva immediatamente. Questi gesti qui, non necessariamente carezze o baci: gesti fisici. Toccare. Maneggiare».
Certo. I gesti dedicati. I gesti di contatto dedicati.
«E una delle cose che mi turbano della religione è tutto l’aspetto astratto che si porta appresso, questa venerazione della parola e la demonizzazione della carne. Io non credo affatto che la carne sia il demonio: semmai il demonio sta nello spirito, nelle parole. Ma la religione insiste a mortificare la carne, e questo mi turba molto».
Senti, David Foster Wallace dice da qualche parte, non mi ricordo in quale libro, che nei rapporti tra genitori e figli c’è sempre l’equivoco dell’amore, perché secondo lui i figli non desiderano tanto sentirsi amati dai genitori — quello lo danno più o meno per scontato —, quanto sentirsi apprezzati. Tu che cosa ne pensi?
«Posso dire un’altra cosa? Secondo me la base dell’amore è la curiosità, ma pochissimi sentimenti che noi chiamiamo amore poggiano su questa base. L’unico che ha dato una definizione molto precisa di questo, e infatti mi è rimasto impresso, è stato Flaubert, nell’Educazione sentimentale, quando a un certo punto, parlando del suo amore per Madame Arnoux, dice di Frédéric qualcosa come — vado a memoria: “Provava nei suoi confronti una curiosità dolorosa che non aveva limiti”. L’intuizione straordinaria di Flaubert è proprio questa: che alla base del sentimento amoroso deve esserci la curiosità. Io penso che quello che manca più di tutto ai figli è una reale, autentica curiosità nei loro confronti. Perché è tanto affascinante una delle prime lettere che Kafka ha scritto a Felice Bauer? Poi dopo è discutibile che lui l’abbia amata o no, come tutti sappiamo, però in questa lettera, che credo sia la prima che le perviene veramente, lui le descrive per filo e per segno ciò che lei ha fatto e detto quella prima sera in casa Brod, e il senso che avevano tutti i suoi gesti. Anche cose sgradevoli, perché a un certo punto le dice che si vergognava perché aveva ai piedi delle ciocie, evidentemente essendo entrata in casa con i piedi bagnati e avendo ricevuto in prestito quelle pantofole dalla signora Brod — e insomma teneva i piedi nascosti, e Kafka glielo racconta. Tutte queste cose, se io avessi ricevuto una lettera così, mi avrebbero fatto esultare. La straordinarietà di quella lettera è la curiosità di cui lui dà prova nei confronti di questa donna. Di fatto lui l’ha osservata costantemente — anche con crudeltà, perché la curiosità presuppone la crudeltà, così come l’arte, per esempio, presuppone la crudeltà. Però quella cosa lì è secondo me la cosa più toccante, più vivificante, più rassicurante: la cosa migliore che tutti noi possiamo ricevere».
C’è un problema però, secondo me, nel basare l’amore per i figli sulla curiosità, come dici tu: loro, i figli, generalmente si aspettano il tuo giudizio. Lo postulano, forse addirittura lo esigono — automaticamente, qualunque sia, temo, la natura della tua curiosità. E questo allora, data la congenita insicurezza che accompagna gli adolescenti e i ragazzi, può portare di nuovo all’intuizione di Wallace e cioè: sei curioso di me (dunque mi ami: ok, grazie), ma «come mi giudichi»? Mi approvi? Mi apprezzi?
«È vero, è un po’ come nella storiella del topolino e dell’elefante che giocano insieme: tu non sai di avere quel peso enorme, tu hai le tue, di insicurezze, e non tieni nel giusto conto quelle dei tuoi figli. Perché si continua a sentirsi figli, secondo me, anche al cospetto dei nostri figli».
Per concludere vorrei chiederti una cosa: tu di tutto questo parli in pubblico a Spoleto, con tua figlia Eugenia, al Festival «Istinto di conversazione». Sei proprio sicura di riuscirci?
«Non lo so. Vado così, alla ventura, non ho la minima idea di cosa potrà avvenire. Sono anche un po’ curiosa di vedere come va a finire, in verità,ma non mi fa paura, se è questo che intendi. Sono assolutamente aperta a tutto ciò che potrà venirne fuori, dato che non riesco proprio a immaginarmelo. Spero che non ci scontreremo»
No, questo no. Ma magari io avrei paura di scoprire, lì, sul palco, di non avere più tutta la lucidità e la parlantina che ho adesso, di ritrovarmi a balbettare.
«Questo sì, è possibile. Io ho soggezione delle mie figlie, e di sicuro sarò un po’ trattenuta, avrò timore di dire delle cose che le dispiacciano, o di essere troppo retorica. Sicuramente mi sentirò un po’ — ecco — io, giudicata. E riguardo alla retorica genitori-figli mi viene in mente una cosa detta da Monicelli che è perfetta per finire — in un’intervista alla televisione, tanti anni fa: intervistavano i personaggi del cinema sulla paternità, Gassman, mi ricordo, Tognazzi, e le risposte erano tutte un po’ retoriche. Quando arrivò il turno di Monicelli, che per la retorica aveva quella cronica, meravigliosa repulsione, ciò che disse fu: “Guardi, secondo me la migliore cosa che un padre possa fare per i suoi figli è sparire”».
Sandro Veronesi

venerdì 12 luglio 2013

la grande bellezza

c'è l'uomo che apre le porte dei palazzi perchè è amico delle principesse.
è un uomo misterioso, elegante e con il passo claudicante che - non si sa come - ha con sé una valigetta con le chiavi dei più bei palazzi di Roma, del bello inarrivabile, misterioso, ancestrale, inaccessibile a tutti gli altri. è una specie di custode della "grande bellezza". è lui la chiave per la grande bellezza, l'unico pieno, seppure sfuggente, nel grande vuoto che anima tutto il film.

La Grande Bellezza è un film di Paolo Sorrentino, interpretato da Toni Servillo e, insieme a molti altri,  per un breve ma intenso tratto, da Sabrina Ferilli.
il film ha echi e richiami felliniani indiscutibili ma anche un codice personale indiscutibile.
ho letto molti articoli, anche su la Lettura del Corriere della Sera, e mi sembra possano dire molto meglio di me del valore di questo film, di cui ho goduto molto, almeno fino a tre quarti del film, trovando invece intollerabile un finale inutile e noioso. un gran bel film con un protagonista memorabile che poteva finire in gloria con il ballo di una festa -una delle tante- di matrimonio e il grande Jep che si delizia illudendosi all'idea, nostalgica e tragica, che ci sia ancora qualcosa di bello che rimanga da fare...
le scene delle feste sono travolgenti, le immagini di Roma fanno pensare al luogo più bello immaginabile , e inimmaginabile, al mondo, l'ironia, l'intelligenza, il gusto e la parola tagliente di Jep sono irresistibilmente attraenti: la verità che aleggia in questo film è così penetrante quanto insopportabile.
la vita si svolge sul bordo di una terrazza che da sul Colosseo, si nutre di lusso e di ricchezza, ma la voragine è lì, il vuoto, il nulla, il buco nero che ci risucchiano verso il non essere sono solo un passo oltre. o forse ci siamo già dentro.
l'intelligenza di Jep, tutta l'intelligenza del mondo non servono a niente, nel vuoto ci nuotiamo dentro.
solo, se lo sappiamo, intelligentemente, non facciamo finta che sia qualcos'altro.
intelligenza è solo consapevolezza ma non salvezza. è l'attimo in cui si può vedere la bellezza che ci circonda, goderne con leggerezza, ma se ne siamo capaci, per poi nuovamente inabissarci nella stupidità e nella vacuità che quotidianamente ci abitano.
"Il privilegio di avere la mia età è che posso permettermi di non fare le cose che non ho voglia di fare“.
un film inesorabile.


IL POTERE DELLA FRIVOLEZZA
di Emanuele Trevi - da la Lettura del Corriere della Sera
Nessuna storia, del resto, per quanto pretenda di essere originale e addirittura inaudita, potrebbe essere comprensibile senza la presenza di un archetipo. Perché qualcosa ci interessi davvero, deve stimolare allo stesso tempo il nostro desiderio di novità e il suo contrario, vale a dire la nostra memoria. Esattamente come fa Jep Gambardella, il fatuo e impeccabile protagonista della Grande bellezza di Paolo Sorrentino. Toni Servillo ne ha cavato fuori una delle sue interpretazioni più memorabili. Ma quella vecchia canaglia noi la conosciamo bene. E anche se ci secca ammetterlo, la sua versione della realtà rappresenta un punto di vista unico, e ancora illuminante. Proprio perché Jep è un parassita, un uomo inutile. Se si trova in cima alla piramide sociale, è alla maniera di un turacciolo che galleggia sulla superficie del mare.
Jep è un mondano, il re dei mondani. È un infallibile esperto di una delle scienze più complesse e raffinate che esistano, la scienza della frivolezza. Non la frivolezza individuale che ognuno coltiva all’interno di sé, come ingrediente del carattere e parte necessaria, anche se inconfessabile, del destino. No, la frivolezza di cui Jep è insieme l’anatomista e il sacerdote è un legame collettivo, una malattia epidemica, un linguaggio capace di cementare le relazioni fra i singoli. Non è senza importanza che Jep sia quella che una volta si sarebbe definita una «grande firma» di un importante quotidiano. La lieve coloritura professionale gli si addice come l’eleganza dei suoi completi di lino. Quella del giornalista mondano è la perfetta incarnazione moderna del custode della frivolezza. In lui trovano una sintesi suprema vecchie e onoratissime professioni, figlie o serve del privilegio e della ricchezza: la spia, il cortigiano, il poeta di epigrammi, il nottambulo. Tra tutti gli dei antichi, è Ermes il protettore ideale di questo tipo d’uomo, di quest’ombra sociale. 


E' LO SQUALLORE CHE MI COMMUOVE
intervista a Paolo Sorrentino di  Alessandro Piperno - da la Lettura del Corriere della Sera

«Dopo un libro del genere all’autore non resta che scegliere tra due opzioni: o spararsi in bocca o stendersi ai piedi della croce». È una battuta di Barbey d’Aurevilly. La scrisse dopo aver letto À rebours di Huysmans. La propongo a Paolo Sorrentino. Anzi, gliela sbatto in faccia. Gli chiedo se non si possa dire altrettanto di lui, e soprattutto di Jep Gambardella, l’insuperabile eroe de La grande bellezza.
«Be’» sorride Sorrentino «per me non saprei, ma sono certo che per Jep esista una terza via».
«La terza via di Jep è lasciare tutto così com’è» dice Sorrentino. «Del resto il film finisce con Jep che scrive la prima frase del nuovo romanzo. Non sapremo mai se riuscirà a scrivere anche la seconda, la terza, la quarta, e così via».
Tu che dici, ce la farà?
«Direi di no. Se lo conosco non ce la farà. Jep mi somiglia: è un dissipatore. Anche a me capita di trovare un buon incipit e di fermarmi lì. Ho i cassetti pieni di incipit promettenti».
Quindi anche la riscoperta della vocazione di Jep è l’ennesima patacca?
«Forse sì. Lui non vuole rompere con quel mondo, con quella vita. E Dio solo sa se lo capisco».
Anche tu sei invischiato con la mondanità?
«Parlavo del film. Del mondo del film. Di solito riesco a staccarmi abbastanza presto da un film. Stavolta no. Se mi chiedessi che film mi piacerebbe girare adesso, ti direi: il sequel de La grande bellezza. Che so, Jep molla il romanzo, torna a Roma e ricomincia da dove ha lasciato».
Uno dei segni della sopraggiunta maturità artistica è la perdita di interesse per la trama: l’ellissi è la più ambiziosa delle figure retoriche.
«In me la ricerca ossessiva di un plot è quasi evaporata. E pensare che quando ho cominciato questo mestiere ne ero così ossessionato. Ora sento il plot come un ostacolo. Prima di dirottare l’idea su un film avevo pensato di fare di Jep l’eroe di un libro. Nei romanzi (almeno per come li concepisco) si può essere molto più liberi. Solo facendo i primi sopralluoghi, le immagini hanno preso il sopravvento sui personaggi e sull’intreccio».
La grande bellezza è un titolo ironico?
«Mi dispiacerebbe se qualcuno lo intendesse così. Non volevo puntare il dito sulle volgarità di un certo milieu! Volevo raccontare la fatica di vivere. Tanto più nel privilegio, nell’agiatezza. Ecco, diciamo che la fatica di vivere, questo titanico tirare a campare, ha una sua bellezza. Persino nel vuoto che attanaglia i personaggi, e che in fondo attanaglia anche me, c’è bellezza. Alla fine mi piacerebbe che passasse questo piccolo pensierino: che la vita è una gran fatica ma che non si può dire che non sia bella».
Mi torna in mente la scena del film in cui il marito della scrittrice progressista nuota in piscina contro una corrente artificiale: nuota, si sbraccia, e non avanza di un centimetro.
Non è un caso se nel film ricorre una famosa battuta di Flaubert. Erano gli anni febbrili della Bovary quando il giovane Gustave confessò all’amante il desiderio di scrivere un «romanzo sul niente». Avrebbe dovuto attendere un’altra quindicina d’anni, e alla fine quel romanzo l’avrebbe scritto:L’educazione sentimentale. Quello sì che è un romanzo sul niente. La storia di una non-vita. Un libro stagnante (come le nostre vite), che ancora oggi fatica a trovare un pubblico: non fa piacere a nessuno immedesimarsi in un individuo così sprovvisto di qualità e ambizioni, che frequenta solo persone come lui.
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Vorrei rassicurare Sorrentino: La grande bellezza non è un film magnifico nonostante i suoi difetti. È un film magnifico in virtù dei suoi difetti: squilibri, divagazioni, false partenze, volgarità, avanspettacolo, scorciatoie retoriche, sentimentalismi…
Sei attratto dalla volgarità?
«La parola “volgarità” non mi convince, e non mi piace. Più che altro mi attrae lo squallore. Ogni tanto sono tentato di gettare un occhio giudicante e censorio sulla volgarità, ma questo non avviene mai con lo squallore. Lo squallore mi commuove. Nasconde sempre un dolore, una malinconia. Non c’è niente di amabile nella volgarità tout court, che so, Bossi in canottiera e bretelle. Mentre le scene che mescolano squallore e tristezza m’inteneriscono. Forse perché mi riguardano. Sento che potrei esserne l’ignaro protagonista».
Uno dei colpi di genio de La grande bellezza è che Jep Gambardella, a dispetto delle apparenze e del suo ruolo in società, è un uomo buono, a suo modo premuroso. È come se l’idea della propria miseria lo spingesse a guardare gli altri con misericordia. L’indolenza, la passione nel dissiparsi non sembrano provenire dalla paura del fallimento, bensì dall’intuizione della propria irrilevanza e della gratuità della vita. Come tutti i veri cinici Jep è un sentimentale in pensione. Come tutti i veri moralisti Jep è un immoralista. Ecco perché i sodalizi di Jep sono così memorabili: i duetti mattutini (si fa per dire) con la domestica; gli affettuosi pasti con la direttrice della rivista di gossip per cui Jep lavora; le ciarle insensate con il marito della donna amata; le scorribande notturne con la spogliarellista (una Ferilli in forma magnanesca). Persino prima di umiliare pubblicamente la scrittrice progressista, Jep la mette in guardia almeno un paio di volte (per inciso, si tratta di un monologo che, per intensità e disperazione, non è secondo a quello finale de L’uomo in più). Toni Servillo è il più grande attore italiano vivente perché è capace di questa pietà. Il suo Jeb Gambardella è una specie di Lebowski: uno che sta lì per riscattarci tutti. Da qui l’eloquenza impareggiabile, una sentenziosità degna di Oscar Wilde. Jep parla in nostra vece. Siamo contenti che almeno lui sappia cosa dire.
«Hai presente quando qualcuno ti dice una cosa che ti prende in contropiede? Là per là non sai che rispondere. Poi non fai che ripensarci. Te ne vai a letto tutto incazzato ed ecco che finalmente, a bocce ferme, la battuta arriva. Ti maledici per non averci pensato al momento giusto. Ecco, a me piace mettere in bocca ai miei personaggi la risposta perfetta. Sai perché adoro Céline? Perché lui ha sempre la battuta definitiva. È vero, questo nella vita avviene di rado, ma perché non farlo avvenire al cinema?».
Raddrizzare le gambe storte della vita: una delle ragioni sociali dell’arte. L’arte ti offre la seconda chance che tutti invochiamo. E ti permette di lavorarci su in santa pace.
A giudicare dai protagonisti dei tuoi film direi che te la intendi bene con individui a dir poco ambigui… Da Tony Pisapia, passando per Andreotti fino a Jep Gambardella. Non mi pare che nessuno si segnali per civismo e dirittura morale.
«Quando devo scegliere il protagonista di un film la sua moralità non mi interessa, e neppure la sua fedina penale. Di norma mi interessa chi sa fare veramente bene una cosa».
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È per colpa di Fellini allora se nel film ci sono tutti quei prelati? Gli chiedo. Io, ad esempio, sono romano: la mia famiglia, per causa di forza maggiore, è qui da qualche secolo, e ti assicuro che a Roma i preti non ci sono più.
«Ma scherzi?», ride. «Sono ovunque. Proprio ieri ero qua sotto sullo scooter: una decina di preti in bicicletta, con tanto di tonaca e di cappello circolare, ostruivano il passaggio. Una scena degna di De Sica. Vivo da qualche anno in questa città e mi sembra immensa e misteriosa. Ci sono luoghi nel centro storico — chiese, piazzette, vicoli — che, pur essendo antichissimi, sembrano completamente privi di identità, svincolati dal contesto come la lounge di un aeroporto. Non conducono da nessuna parte. Sono disabitati. Non servono a niente e a nessuno. Capisci quanto tutto questo sia eccitante per chi fa cinema! Insomma come vedi il mio sguardo su Roma è provinciale. La parrucchiera del Minnesota in vacanza a Roma in confronto a me è una donna di mondo, una spregiudicata».
Da qui allora il passatismo? Lo sguardo ostinatamente rivolto al passato?
«Sai, mi è rimasta impressa la risposta che diede un grande scrittore (non ricordo più quale) a chi gli chiedeva perché scrivesse libri. “Cerco il padre” fu la risposta. Si tratta di una sintesi perfetta del mio lavoro. È vero, sono un nostalgico. Il presente non mi interessa, non mi smuove. Provo nostalgia per un’epoca che non ho vissuto. Forse perché ho perso mio padre quando avevo solo sedici anni. Tutto quello che faccio è un tentativo di conoscere mio padre nella deprimente consapevolezza che non ce la farò mai».