bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 31 ottobre 2016

Considero l'eleganza un valore di tipo morale


Considero l'eleganza un valore di tipo morale... è un fatto interiore che si riflette anche all'esterno, è un equilibrio che impone anche delle regole dure, non c'entra niente con l'educazione. 
G. Gastel

di contro la mostra di Giovanni Gastel mi dice poco.
estetizzante.
è chiaro che Gastel, nipote di Luchino Visconti, è un'altra persona rispetto a Eugene Smith.
è chiaro quindi che la fotografia sia, in questo caso, un esercizio di stile, non di indagine sulla vita.
è chiaro che Gastel utilizzi tecniche recenti, le rielaborazioni pittoriche, gli sdoppiamenti e le stratificazioni, fino al ritocco digitale e che Smith vada di bianco e nero con un'analogica.
è chiaro anche che la fotografia che apprezzo somigli poco a quella di Gastel e che, nel mio caso, la vita domini sullo stile, è chiaro.
mi è chiaro anche che pure Smith abbia messo in posa i suoi soggetti, abbia lavorato sulla sua fotografia, di natura etica direi, ma manipolandola per ottenere il risultato che più gli piaceva.
Gastel ha talento ed eleganza, inoltre leggo nelle sue interviste che l'espiazione della sua immensa ricchezza deve essere stata una croce non indifferente.
però l'effetto ai miei occhi, e nei miei modi, è lampante. la mostra di Smith la riguardo due volte, quella di Gastel la scorro veloce, molte delle sue foto mi sono anche note, sono già nei miei occhi, le ho viste al Mia Fair e nelle riviste di moda.
è chiaro alla fine quanto sia manipolabile anche la mia testa, la prima mostra la reputo migliore, e forse è ingannevole quanto la seconda, la seconda la giudico un bell'artefatto, ma di certo non ne fa mistero, e non gode della mia attenzione. davvero la verità è un pregiudizio come un altro. 


Lo stile è un'operazione a togliere.
Giovanni Gastel




La fotografia non può morire, cambia.
Giovanni Gastel

Dal 23 settembre al 13 novembre al Palazzo della Ragione Fotografia a Milano sarà presente la mostra di Giovanni Gastel. L'esposizione sarà articolata in quattro sezioni, ciascuna dedicata a un decennio di attività artistica del fotografo, sviluppando da un lato la sua vita professionale e dall'altro il trend di quegli anni, al fine di comprendere e connotare al meglio i singoli scatti seguendo l'evoluzione professionale dell'artista. GIOVANNI GASTEL è’ un’icona della fotografia Italiana e internazionale. Un’origine importante in una delle famiglie più antiche e storiche, nipote del grande regista Luchino Visconti, cresce in un contesto permeato d’arte e di grandi personaggi della scena internazionale. Vive tra Milano e Parigi, l’affermazione del made in Italy in cui si delinea il suo stile inconfondibile: poeticamente ironico ma sempre permeato, come nell’arte, dal gusto per una composizione equilibrata. Nel 2002, nell’ambito della manifestazione La Kore Oscar della Moda, riceve l’Oscar per la fotografia. Molte le mostre: Milano, Venezia, New York, Parigi e i libri pubblicati anche di poesia, l’altra passione dell’artista, che continua tuttora a lavorare nel suo studio milanese. E’ membro permanente del Museo Polaroid di Chicago e dal 2013 è Presidente dell’Associazione Fotografi Professionisti.

sabato 29 ottobre 2016

usate la verità come pregiudizio

La fotografia è una piccola voce, nel migliore dei casi. Tuttavia qualche volta – solo qualche volta – una fotografia o una serie di fotografie possono farci prendere coscienza di un avvenimento. Molto dipende dall’osservazione; alcuni possono trarre un’emozione capace di farli pensare. Alcuni – forse molti – fra di noi possono venir provocati a usare la ragione, a riportare sulla strada giusta qualcosa che era sbagliato e possono addirittura consacrarsi alla ricerca di una cura per una malattia. Altri possono forse provocare più comprensione e più compassione per quelle vite che sono estranee alle nostre. La fotografia è una piccola voce. È una voce importante nella mia vita, ma non l’unica. Io credo nella fotografia. Se è ben concepita, talvolta funziona.
Eugene Smith




sono veramente contenta di aver visto questa mostra, la consiglio a chiunque abiti a Milano.
e perchè no, anche a quelli che non ci abitano.
Eugene Smith è incredibilmente espressivo, le sue foto mi parlano.
leggo di un carattere difficile, di un forte spirito polemico, di una ricerca ossessiva estenuante del risultato voluto.
io recepisco dalle sue foto un'umanità devastante, la sua e quella di chi ritrae.
vedo il medico e mi commuovo
vedo le foto dei suoi due bambini che camminano verso la luce e mi viene da piangere
vedo l'infermiera e stramazzo
vedo la pietà della madre giapponese con il suo gesù cristo e mi sento male
vedo la guerra e mi impensierisco
vedo il jazz e vorrei saperne di più
vedo il capitalismo industriale e mi incazzo.

com'è che una macchina fotografica in quelle mani fa quell'effetto?
e nelle mani di un altro no.
è lo sguardo, lo sguardo dentro i nostri occhi.



Getto il mio amore dalla finestra e mi chiedo chi lo accoglierà – ho preso tutto con grazia e con destrezza di mano, cullando segretamente tutto ciò che ho ricevuto dagli sconosciuti donatori. Qual è il motivo di questo fascino? Sembra che io non smetterò mai di fotografare dalla finestra, questo è il teatro di ogni emozione del mondo.
Eugene Smith




Dal 22 settembre al 4 dicembre 2016, il Centro Culturale di Milano inaugura la sua nuova sede nel cuore della città, in Largo Corsia dei Servi 4, con una mostra dedicata a W. Eugene Smith (1918-1978), uno dei più grandi maestri della fotografia di reportage. L’esposizione, ideata da Camillo Fornasieri, direttore del CMC, curata da Enrica Viganò, con il patrocinio della Regione Lombardia e del Comune di Milano, presenta 60 original print in grado di ripercorrere la carriera del fotografo americano, attraverso i suoi cicli più famosi, realizzati tra il 1945 e il 1978, provenienti dalla collezione privata di H. Christopher Luce di New York. 
La rassegna documenta i “saggi fotografici” di Eugene Smith, ovvero i suoi reportage di racconto sociale o di denuncia, nei quali ha abbracciato i periodi della depressione, della guerra, della ricchezza del dopoguerra e quello della disillusione, dalle fotografie scattate sui teatri della seconda guerra mondiale, dalle battaglie nel Pacifico fino a Okinawa, dove venne gravemente ferito, alla serie del Country Doctor (1948), commissionatagli dalla rivista Life, che racconta la vita quotidiana del dottor Ernest Ceriani, un medico di campagna. Il percorso continua con le serie Nurse Midwife (La levatrice) del 1951, in cui segue le vicende di Maude Callen, una levatrice di colore, per testimoniare le difficoltà nell’esercitare il suo lavoro nel profondo sud degli Stati Uniti e, al contempo, per approfondire temi connessi alla discriminazione razziale. Nel 1951, Life pubblica il suo reportage condotto in Spagna, a Deleitosa, un piccolo centro contadino di non più di 2.300 abitanti, sull’altipiano occidentale dell’Estremadura: un quadro di una società rurale arcaica, in preda a gravi difficoltà economiche dovute al pesante regime franchista. Chiudono la rassegna, gli scatti su Minamata (1972-75), la città giapponese devastata dall’inquinamento di mercurio che la Chisso Corporation versava nelle acque dei pescatori e che portava gli abitanti a soffrire di una terribile malattia nervosa. In mostra si troverà la fotografia più famosa di questo ciclo, definita la Pietà del Ventesimo Secolo, che raffigura la bambina Tomoko mentre fa il bagno tra le braccia della madre.
(http://www.spreafotografia.it/news/3472/mostre/le-fotografie-di-w-eugene-smith-in-mostra-al-cmc-centro-culturale-di-milano-22-settembre-4-dicembre-2016/)

venerdì 28 ottobre 2016

passaggio a livello

ricordo bene. si arrivava dalla superstrada, si faceva la provinciale.
mi ricordo ogni cosa, angolo, luogo.
mi ricordo le curve.
le svolte, i semafori.
rifacessi quella strada, oggi, mi verrebbe un turbamento, ma non credo mi capiterà.
spesso, molto spesso, facevo quella strada, circa 50 minuti da Milano, e l'avanzata si arrestava.
al passaggio a livello.
mi ricordo quel disagio insinuante: sono a pochi metri e non posso arrivare.
devo aspettare che passi il treno.
soste anche lunghe, anche 5, forse 10, minuti.
o no?
o ricordo male?
si aspettava.
era l'attesa prima della meraviglia, del luogo amato, del ristoro desiderato, della pienezza raggiunta.
perchè questa mattina mi è venuto in mente?
non ci pensavo da anni.
anni e anni di dimenticanza.
improvvisamente questa mattina mi torna in mente il ricordo struggente di Sangiano e di quel passaggio a livello che arrestava la corsa verso casa.
credo che il riferimento nasca dal terremoto. di nuovo.
non riesco a guardare le immagini, non riesco a leggere le notizie sul giornale.
se guardo sale un'onda di angoscia. mi si spezza il respiro, a volte si fa sentire un'extrasistole.
forse ho pensato al mio borgo, come quelli dell'Italia centrale che vengono giù come birilli, forse ho pensato a quel che si è amato e non c'è più e ho pensato che questo mi è intollerabile.
allora devo aver pensato a Sangiano ma non al paese, alla mia casa, ma a quel che mi teneva in sospeso prima di raggiungerla.
quella sospensione è quel che mi salva, sono in attesa di arrivare, mi tengo ancora sul quel confine di speranza, ben sapendo che, dopo, non c'è più niente.

martedì 25 ottobre 2016

rimaniamo incerti quale sia la Città e quale l'ombra.


"..i vicoli tortuosi e sguscianti come anguille che alla fine ti portano a una grande sogliola, a una piazza con una chiesa al centro, incrostata di santi, che ostenta nel cielo le sue cupole simili a meduse. Qualunque meta tu possa prefiggerti nell’uscire di casa, sei destinato a perderti in questo groviglio di calli e callette che ti invitano a percorrerle fino in fondo, ti lusingano e ti ingannano, perché in fondo c’è quasi sempre l’acqua di un canale." 
Iosif Brodskij

mosso molto mosso
"uscii da sotto il portico di piazza San Marco e passai in rassegna le quattrocento finestre. C’era un deserto assoluto, non un’anima. Le finestre ad arco correvano nel solito ordine ossessionante, come onde idealizzate. Questo spettacolo mi ha sempre ricordato il Colosseo, dove, per usare le parole di un mio amico, qualcuno inventò l’arco e non riuscì più a fermarsi."  
 Iosif Brodskij

Venezia, simile a Tiro per perfezione di bellezza, ma inferiore per durata di dominio, giace ancora dinanzi ai nostri sguardi come era nel periodo finale della sua decadenza: un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto all'infuori della sua bellezza, che qualche volta ammiriamo il suo languido riflesso nella laguna, rimaniamo incerti quale sia la Città e quale l'ombra.
John Ruskin
piace parecchio
"La strana imbarcazione giunta a noi tale e quale dai tempi delle ballate, e nera come sono, fra tutte le cose al mondo, soltanto le bare, ricorda tacite e delittuose avventure nello sciacquio notturno; rievoca ancor più la stessa morte, e il feretro, e il tetro corteo, e l’ultimo viaggio silente."
Thomas Mann

qualche effetto interessante lo si vede, soprattutto sull'acqua, molto sulla luce. il movimento sottrae il tempo alla foto, isola lo spazio dallo scorrere delle epoche, elimina dettagli e definizioni quindi la possibilità di una collocazione temporale precisa. 

ma è solo un gioco di prestigio, e dura poco l'inganno, fotografia è un'altra cosa.

l'aspetto più interessante della mostra alla Fondazione Stelline di Milano, dedicata a Roberto Polillo e alle sue foto su Venezia (autore noto soprattutto per le sue foto dedicate al mondo del jazz, il padre Arrigo è noto critico jazzista, e che verranno esposte al Base in occasione del prossimo JazzMi, rassegna jazz a Milano dal 4 al 15 Novembre), sono le citazioni letterarie su Venezia.
si sposano con le foto, forse danno loro il senso.

“Ed ecco, egli rivide l'ineguagliabile approdo, l'allucinante composizione di architetture fantastiche che la Serenissima offre allo sguardo incantato del navigatore in arrivo [. . .] e, guardando, si disse che giungere a Venezia per terra, dalla stazione, era come entrare in un palazzo dalla porta di servizio, e che solo così per nave, dal mare aperto, bisognava accostarsi alla città fra tutte la più inverosimile.” Thomas Mann

lunedì 24 ottobre 2016

you


dici a me?
no, a me no.
sorry, non condivido l'entusiasmo.
il mondo delle blogger, della street fashion, dell'apparenza, della celebrità a basso costo, senza meriti e senza talento, è motivo, piuttosto, di grande preoccupazione.
Chiara Ferrragni non mi dice molto, e nemmeno le glorie di tutto l'esercito di blogger che spopolano sul web, tanto meno Sex and the City, ancora meno Bridget Jones, portate come icone rappresentative di una femminilità di successo mediatico, non pariamo poi di Tim Cook e le sue espressioni trionfali sulle meraviglie digitali che ci aspettano ma che guadagnano solo il mio sarcasmo. tutta roba presentata a una mostra al palazzo della Triennale di Milano. 'You - The digital fashion revolution'. 
è, o meglio era, un'esposizione che, con il patrocinio del Comune di Milano, gratuita e aperta al pubblico dal 7 al 13 ottobre, illustrava per la prima volta nella storia il cambiamento, così dicono, che i protagonisti del digitale, i web influencer, attuano nel mondo della comunicazione, della moda, del lusso, della fotografia.
il terrore mi assale ma di questa roba ne mastico le conseguenze tutti i giorni, quel che vendono questi blogger influencer è la più deleteria e pericolosa visone del mondo possibile, quella che affascina migliaia di giovani ovvero la possibilità di costruirsi a poco prezzo e a poca fatica un futuro di successo. la gloria. la risonanza mediatica, i soldi, il lusso.
ripenso a un bello spettacolo al Teatro Grassi, Elvira di Jouvet recitato dell'eccelso Toni Servillo, che esordisce, alla prima battuta con una verità eterna: quel che arriva facilmente non è mai bene.
il valore della fatica lo insegnano i padri, il padre da sempre ha questa funzione, indicare la via che, con sacrificio, porta al desiderio, alla sua realizzazione quindi alla felicità.
non c'è desiderio senza fatica, non c'è lavoro senza studio e dedìzione. il resto è destinato, rapidamente alla polvere di chi fa e di chi ne fruisce.
l'evaporazione del padre porta a questo, alla glorificazione mediatica del godimento senza limiti, migliaia di pagine web dedicate a foto di strada e gonnelline plissettate, tacchi e formule per nuovi cappellini, e il consenso delirante di milioni di utenti. quanta gente vedo perdersi dietro i soldi facili dei Corona o dell'ultima blogger che si inventa, tristemente, perfino scrittrice. quante ragazze ho sentito chiedermi dopo una lezione su psichiatria e psicoterapia qual è la via più rapida per arrivare alla professione, una professione che senza altra possibilità richiede moltissimi anni di applicazione. quanti ragazzi ascolto esaltati dall'idea di un successo a portata di mano che eviti levatacce, perdita di ore di sonno, frustrazioni e fallimenti, ma massacrati e ingannati, destinati a cibarsi si della negazione, ma quella definitiva e depressiva di non approdare a nulla.
immagine vuota, celebrazione fino a se stessa, fama come valore, non come progetto.
se non ci pensano più i padri, molto impegnati a fare come le madri e cambiare i pannolini e non perdersi una sola partita di calcio e accudire e diventare sempiterni amici di gioco perfino in competizione su playstation e ultimi modelli di i-pad, ci penserà uno stato di ferro a creare ostacoli, a porre i limiti, i confini, i perimetri e mettere difficoltà e dare valore al sacrificio.
ed ecco le valutazioni, quelle imposte ormai dallo stato, in svizzera e molte altre nazioni ti dicono quel che dovrai diventare dalla terza elementare, ti testano dalla nascita in poi. ecco i test per entrare alle università, la selezione che non è stata fatta dai padri la fa lo stato padrone, tu sei valido e tu no, ormai chi avrebbe voluto intraprendere una strada non la può più percorrere, forse il prossimo anno, chi lo sa.
non esiste libero desiderio, il desiderio è fatica.
non esiste strada facile
non esiste successo a buon mercato
non esiste soddisfazione continua, pulsione senza castrazione
non esiste progetto a basso costo e validazione mediatica universale
il web è luogo immondo, senza etica e senza legge, fa morti e feriti, fa illusi e mortificati.
attrezziamoci, il tempo di faticare non è finito, per nessuno.


venerdì 14 ottobre 2016

indivisibili

vorrei essere sintetica ed essenziale.
mi piacerebbe avere due parole, come in una poesia, due parole capaci di dire tutto.
vorrei evitare la trama ed il senso.
vorrei evitare le spiegazioni sul significato.
le interrogazioni sull'andamento.
vorrei trovare un segno.
non ce l'ho.
INDIVISIBILI è un film straziante.
le due protagoniste sono la materia della vocazione artistica, armonia e dissenso.
la storia del film, si si certo si pensa molto a Garrone di Reality e di Gomorra e molta parte di iconografia e ambientazione viene da lì, è dedicata alla corporeità della differenza e al dolore della separazione.
due volti uguali e diversi, l'umore e l'amore che passano da un corpo all'altro, il sentimento del vivere diventa materia, materia e corpo, sangue, vene in comune e desiderio di unicità. 
come si conciliano l'essere uno e diventare due? come si affronta una separazione quando si condividono il sonno il bagno il sesso, ogni istante della vita? qual è il limite possibile del condividere, quando siamo pronti ad affrontare un tempo solo per noi? 
le parti si confondono di continuo, una sembra forte l'altra fragile poi tutto cambia e di nuovo tornano il coraggio e la paura, la ragione e la pulsione, reciproche, specchiate, riflesse.
questo film mi ha scossa, sono rimasta piena di lacrime dentro, ho sentito qualcosa scorrermi all'interno, ho capito tanto tutto, ho cercato dentro di me. sono grata a Edoardo De Angelis e alle gemelle Fontana di essersi dati così. a me.
lo scandalo è che eravamo in sei in sala, che c'è solo l'Apollo a proporlo, che nessuno ne sa niente, che avrebbe potuto rappresentarci all'Oscar e che tra una settimana non ce ne sarà più alcuna traccia.
ci sono momenti di intensità ineguagliabile, scene di un'autenticità imbarazzante, ho pensato veramente di assistere alla vita, mi sono dimenticata di essere al cinema.

lunedì 10 ottobre 2016

go. go. go.

mi hanno fregata, eppure mi fidavo.
Magda Poli gli ha dato 8,5 in una breve recensione sul corriere.
pensavo ci fosse una certa intesa tra noi due, Magda, come hai potuto farmi questo?
metafisica? in scena istintualità e spirito? spettacolo sorprendente per intensità, lievità, colore e ritmo? un vento fresco che disvela il legame profondo tra il poeta e il regista?
forse ho visto un altro spettacolo, io ero al Teatro dell'arte di Milano a vedere go. go. go. di Sokurov e mi sono annoiata parecchio.
penso che quando qualcosa ci vuole piacere per un attaccamento ideologico ce lo facciamo piacere senz'altro, ma pensavo anche che questa giornalista non fosse impantanata in questa faccenda vecchia come il mondo.
lo spettacolo è francamente brutto, noioso, slegato, mal recitato, scontato, banale, confuso.
vivo ormai nella convinzione che i testi teatrali sian già stati tutti scritti, a partire dai classici greci fino Beckett e poco altro. nel mezzo ci stanno alcuni geni ai quali sarò eternamente grata ma alle rappresentazioni teatrali attuali concedo l'invenzione di altri strumenti espressivi che non sono la scrittura di testi drammaturgici piuttosto l'impiego del corpo, della musica, dell'arte visiva multimediale.
un moderno che scrive un testo teatrale è destinato al ridicolo, per qualche motivo non è più tempo per le parole. 
di solito schivo abilmente proposte teatrali in cui avverto la possibilità di incappare in queste trappole mortali, questa volta mi sono lasciata fregare, causa la fiducia.
i due uomini topo protagonisti già sono una caricatura, dicono frasi banali svuotate di senso figurarsi di sorpresa, guardano il pubblico immaginandolo buono da mangiare, leccano la terra per cibarsi di capelli, narrano di tutti gli affreschi e i testi di Dante di cui si sono saziati.
in mezzo alla scena c'è l'altare del godimento, contiene il grana ambito dai due disgustosi personaggi.
in fondo alla scena scorrono scene di Roma di Fellini, peraltro non il suo film migliore, ma immagino sia il tributo alla cultura ormai sepolta del secolo scorso.
una signora sguaiata che recita da cane, temo la nipote di Anna Magnani, entra in scena senza nessun buon motivo e nulla da dire, un signore distinto, l'unico che salverei, fa il poeta Iosif Brodskij e recita poesie fuori contesto come se la poesia piazzata così potesse nobilitare il testo teatrale o far da testimonianza della spiritualità.
una strana folla abita il palcoscenico, non è un coro, non è una voce, è una massa che mediamente recita e dice male.
lo spettacolo non suggerisce nulla, non costruisce nulla, non implica nè comunica nulla se non l'immensa supponenza di poter narrare la bruttura del nostro tempo attraverso un'ora di vuoto cosmico, di parole senza presa, di immagini ormai archeologiche, polverose e sbiadite tanto sfruttate dal tempo e da tutta la più triviale narrazione che prevede nel topo l'incarnazione della spazzatura vivente.
il pubblico mi è sembrato freddo e dubbioso.
io? 
abbindolata.


venerdì 7 ottobre 2016

l'altro sguardo

c'era una gran folla martedì in Triennale all'inagurazione della mostra L'altro sguardo.
e c'era questa donna che vagava in questa bolgia e che non ho potuto fare a meno di notare.
era lì, come un monumento alla disperazione femminile.
un urlo di dolore.
forse era proprio nel posto giusto al momento giusto, una mostra dedicata al talento femminile nella fotografia, era da fotografare forse?, una mostra dedicata all'altro sguardo, potrei dire anche quello che le donne impietosamente pongono su di sé.
mi aveva già dato prova della sua inutile esuberanza, di quelle fastidiose lesive del prossimo aggressive, invadenti, quando mi aveva spintonato per entrare dentro, quando era evidente che fossimo tutti in coda, un gentile ragazzo filtrava le entrate per evitare che la calca dentro diventasse intollerabile.
mi spinge, mi urta, mi si piazza davanti, parla a voce altissima, ha molta pressa di farsi notare.
me la ritrovo poco dopo, issata nel centro di una delle sale, al cellulare, che parla ancora a voce altissima sembra ancora una volta che l'esigenza che lo sguardo si posi su di lei sia un'emergenza, come respirare.
avrà 60 anni ed è vestita come una ventenne.
molto nuda, veste un top leggero che lascia nude le braccia, tiene appoggiata una giacca di pelle ma in modo strategico in modo che si vedano le spalle nude, un gonna corta, le gambe fuori, un tacco vertiginoso su sandali sado maso, unghie laccate quasi nere, la faccia come un gatto, completamente rifatta.
una donna che, se me la immagino fisiologicamente dedita ai suoi 60 anni, avrebbe potuto meritare l'appellativo di attraente e in forma, così acconciata era l'immagine della peggiore degenerazione possibile, quella oscena che sfiora il ridicolo, o, secondo me, la tragedia.
era come l'urlo di Munch, l'orrore del tempo oltre, una tragedia materializzata in cerone e giacca di pelle che dispiega l'angoscia dell'inarrestabilità del tempo, dello sfiorire delle opportunità del corpo.
il paradosso è che un accampamento così è inguardabile, talmente è scoperta la depressione che l'attraversa e che tradisce il richiamo disperato, non dell'altro sguardo, ma dello sguardo dell'altro.
guardami guardami guardami ancora come avessi vent'anni, se non mi guardi desiderandomi, io muoio, io sono nulla.
era un ossimoro, mi travesto da giovane per non sembrare vecchia e così travestita tradisco tutti i miei dolorosi anni.

era nel posto giusto all'ora giusta al tempo giusto.
questo nostro tempo disperato che non insegna più nulla ma tutto toglie.
e le donne ancora sembrano proprio non imparare nulla.




giovedì 6 ottobre 2016

posizione attuale dell'anima

Da qualche tempo
il Signor Cogito
porta l’anima
sulla spalla

questo indica
uno stato di allerta

posizionare
l’anima sulla spalla
è un’operazione delicata
dovrebbe svolgersi
senza la fretta sconveniente

di scene rese note
da guerre
evacuazioni
città assediate

l’anima amava assumere
svariate forme
adesso è una roccia

ha conficcato gli artigli
nella spalla sinistra del Signor Cogito
attende

forse abbandonerà
il corpo del Signor Cogito
nel sonno

o nella piena luce del giorno
in piena coscienza
avrà luogo il commiato
breve come il tintinno
di uno specchio incrinato

per ora
siede sulla spalla
pronta al volo

Zbigniew Herbert
L'epilogo nella tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti.
Adelphi.



è come se qualcuno mi facesse segno con la mano dall'ultimo binario dell'universo. (dice l'autore).
accipicchia, le parole (dico io).