bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

martedì 29 novembre 2016

Ottavia

Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città - ragnatela. C'è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c'è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s'intravede più in basso il fondo del burrone. Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno.Tutto il resto, invece d'elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d'acqua, becchi del gas,girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi,teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.Sospesa sull'abisso, la vita degli abitanti d'Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge.

Le città sottili.

sabato 26 novembre 2016

Isaura

Isaura, città dai mille pozzi, si presume sorga sopra un profondo lago sotterraneo. Dappertutto dove gli abitanti scavando nella terra lunghi buchi verticali sono riusciti a tirar su dell'acqua, fin là e non oltre si è estesa la città: il suo perimetro verdeggiante ripete quello delle rive buie del lago sepolto, un paesaggio invisibile condiziona quello visibile, tutto ciò che si muove al sole è spinto dall'onda che batte chiusa sotto il cielo calcareo della roccia. Di conseguenza religioni di due specie si danno a Isaura. Gli dei della città, secondo alcuni, abitano nella profondità, nel lago nero che nutre le vene sotterranee. Secondo altri gli dei abitano nei secchi che risalgono appesi alla fune quando appaiono fuori della vera dei pozzi, nelle carrucole che girano, negli argani delle norie, nelle leve delle pompe, nelle pale dei mulini a vento che tirano su l'acqua delle trivellazioni, nei castelli di traliccio che reggono l'avvitarsi delle sonde, nei serbatoi pensili sopra i tetti in cima a trampoli, negli archi sottili degli acquedotti, in tutte le colonne d'acqua, i tubi verticali, i saliscendi, i troppopieni, su fino alle girandole che sormontano le aeree impalcature d'Isaura, città che si muove tutta verso l'alto.

venerdì 25 novembre 2016

Fedora

Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello d'un'altra Fedora . Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per 1'altra, diventata come oggi la vediamo. In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro. Fedora ha adesso nel palazzo delle sfere il suo museo: ogni abitante lo visita, sceglie la città che corrisponde ai suoi desideri, la contempla immaginando di specchiarsi nella peschiera delle meduse che doveva raccogliere le acque del canale (se non fosse stato prosciugato), di percorrere dall'alto del baldacchino il viale riservato agli elefanti (ora banditi dalla città), di scivolare lungo la spirale del minareto a chiocciola (che non trovo più la base su cui sorgere). Nella mappa del tuo impero, o grande Kan, devono trovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccole Fedore nelle sfere di vetro. Non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo presunte. L'una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più.


giovedì 24 novembre 2016

Isidora

All'uomo che cavalca lungamente per terreni selvatici viene desiderio d'una città. Finalmente giunge a Isidora, città dove i palazzi hanno scale a chiocciola incrostate di chiocciole marine, dove si fabbricano a regola d'arte cannocchiali e violini, dove quando il forestiero è incerto tra due donne ne incontra sempre una terza, dove le lotte dei galli degenerano in risse sanguinose tra gli scommettitori. A tutte queste cose egli pensava quando desiderava una città. Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c'è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi.

io e Filippo

nel giro di poche settimane l'ho incontrato ovunque.
è chiaro che lui è molto interessato.
è chiaro, è il suo mestiere.
ma è altrettanto chiaro che sono molto interessata pure io.
ho perfino pensato di essere spesso nel posto giusto e al momento giusto.
visto che c'è anche lui.
insomma se c'è lui è una roba figa.
anche ieri sera, per Edipo Re e Edipo a  Colono al Franco Parenti, era lì.
che abbia una moglie?
sembrava.
e anche a BookCity all'incontro con Bailly sulla Frase Urbana.
e, sempre a BookCity, alla Triennale, per la giornata sul fotogiornalismo e l'inaugurazione della mostra FotoStorie legata a La Lettura.
perfino al Danae Festival per uno spettacolo di danza e luce, proprio niente male, all'Out Off, New Horizon.
naturalmente al MiTo per il concerto inaugurale alla Scala, memorabile e bellissimo, seduto nel palco centrale.
ovvio.
in quel caso c'era anche Sala ma non voglio montarmi la testa, seppure lo abbia incontrato ancora, il sindaco, a JazzMi in occasione di un gradevolissimo concerto su Chet Baker a Casa Verdi.
porta un loden verde e, spesso, le Clarks.
che dire.
secondo Elisabetta Sgarbi è il miglior assessore alla cultura che possa vantare Milano da molti anni a questa parte.
insomma sono molto dentro al giro e prima o poi mi presento.
ave Filippo Del Corno.

lunedì 21 novembre 2016

Nidaa Badwan, 100 giorni di solitudine

sono a BookCity e alla Sala Buzzati del Corriere.
è domenica mattina, le 11.
sono venuta per sentirla parlare, la sua storia mi aveva molto incuriosita quando la lessi sul corriere un anno fa.
parla questa lingua pazzesca che è l'arabo, mioddio com'è dura, è un muro di vocali aspirate e aspre, a volte mi domando se ci sono delle parole dietro a quegli spigoli.
invece lei sorride e ride, è vestita di nero, si adatta al lugubre novembre, dice anche di essere stata malata a lungo a causa del clima italiano, invece colorata, seppure sola, era molto più bella.
di fatto bella è.
è un'artista.
le sue foto, di narrazione della sua scelta di sottrazione dal mondo, sono incredibili, caravaggesche a tratti ma, devo dire, in certe inquadrature, mi ricorda perfino Vermeer.
luce e colore, ombra e armonia.
oggetti semplici, macchina da scrivere, vestiti arrotolati, cipolle e uova, scale a pioli.
e lei.
una prigione di libertà, un atto politico anche se all'inizio dice: la politica non mi riguarda.
scansa, o forse non lo sa, la riguarda eccome, il suo è stato un atto politico, Ulrike Meinhof ce lo diceva: "il privato è politica, l'educazione dei figli è politica, le relazioni umane sono politica perchè mostrano se l'individuo è libero o oppresso, se può agire in modo consapevole o no, se può agire liberamente o no".
qualcuno, semplicemente stupido, in sala mette in dubbio la sua veridicità: ma come, a Gaza le ragazze sono libere e felici. qualcuno, ignorante, alza la voce e aggredisce. vuoi vedere che loro sanno, noi sappiamo, e chi invece è nato e cresciuto a Gaza non sa? arroganza senza limiti, lei per un attimo si confonde, poi riprende, ha la sua narrazione da fare, oltre la stupidità umana. qualcuno, il giornalista inviato del Corriere in Israele, ricorda a questi geni che nei loro begli alberghi ci sono i privilegi, che il mondo visto dalla reception di lusso non è come quello delle strade della striscia di terra più sanguinaria e sanguinante della storia, turismo imbecille pieno di boria, di soldi, di supponenza.
Nidaa sa, sa quel che è lei, e le sue foto sono una testimonianza preziosa di una solitudine coraggiosa.





Gaza, la stanza chiusa
Gli autoritratti di Nidaa Badwan
di Davide Frattini

Il 19 novembre del 2013 Nidaa Badwan ha chiuso la porta della camera e non è più uscita per quattordici mesi. Il giorno prima i miliziani di Hamas l’avevano fermata mentre aiutava un gruppo di giovani a preparare una mostra. 
«Perché porti quei pantaloni larghi? Devi indossare il velo non quello cappello colorato di lana. Sei strana, chi sei?». 
«Un’artista». 
«Che vuol dire? Che cos’è un’artista e soprattutto che cos’è un’artista donna?». 
La stanza dell’isolamento, della prigionia autoimposta, è piccola nove metri quadrati, una sola finestra, una lampadina appesa ai fili elettrici. Le pareti sono colorate: adesso una è blu-verde oceano, quella di fronte coperta con un arcobaleno di cartoni per le uova. Cambiano come cambia l’ispirazione di Nidaa e soprattutto la luce naturale. «A volte devo aspettare ore per trovare i contrasti che sto immaginando», racconta. A quel punto lo sfondo è già allestito: strumenti musicali (un oud, una chitarra rotta), una vecchia macchina per scrivere, una cucitrice, gomitoli di lana, una scala di legno da imbianchino. Nidaa indossa il costume, risistema l’inquadratura e scatta: autoritratti dove il volto quasi non si riconosce, composizioni che a Marion Slitine, specialista francese di arte contemporanea palestinese, ricordano «le nature morte di Jean-Baptiste-Siméon Chardin, i chiaroscuri di Caravaggio, le scene teatralizzate di Jacques-Louis David». Per Nidaa sono le uniche scene che vuole vedere. Non ha lasciato la stanza neppure durante i cinquanta giorni di guerra tra Israele e Hamas l’estate scorsa. La famiglia è scappata da questo villaggio nella parte centrale della Striscia e si è rifugiata verso la città di Gaza. La ragazza, 28 anni, è rimasta sotto i bombardamenti. L’opera realizzata in quelle settimane la mostra mentre si rovescia in testa un secchio pieno d’acqua e vernice rossa, un macabro «ice bucket challenge» per raccontare il sangue attorno a sé. «Questo spazio — dice mentre accarezza la macchina fotografica — mi ha dato la libertà che fuori non potevo trovare. Libertà dal grigiore e dalla bruttezza di Gaza, dall’assedio israeliano, dalle imposizioni degli uomini di Hamas». La prima foto che ha scattato sembra rivolta a loro: imbraccia l’oud e impone con il dito di piantarla a un gallo combattivo. La seconda ringrazia la madre che con il padre, i due fratelli, le tre sorelle non l’ha mai abbandonata: «Nei primi mesi di autoreclusione ho pensato di suicidarmi. La mamma ha cominciato a lasciare davanti alla porta, oltre al cibo, piccoli compiti: i pomodori da tagliare, un’insalata da preparare». Nell’inquadratura sbuccia le cipolle, piange. Alla fine di gennaio gli amici l’hanno convinta a uscire. Avrebbe dovuto partecipare all’inaugurazione della sua mostra «Cento giorni di solitudine», portata a Gerusalemme Est e in Cisgiordania dal Centro culturale francese. Gli israeliani non le hanno concesso il permesso di lasciare la Striscia, gli organizzatori hanno cercato di allestire un collegamento via Skype dalla sede a Gaza. Nidaa — nata ad Abu Dhabi dov’erano emigrati i genitori, tornati a Deir al-Balah nel 1996 — ha accettato: «È saltata l’elettricità, niente evento. Lo stesso problema a casa. Così uso la luce naturale: è più affidabile e non posso interrompere la relazione tra il sole e la mia stanza». Da allora ha lasciato la camera altre due volte. Quando è per strada adesso tira su il velo appena qualcuno si avvicina, porta gli occhiali scuri e tiene una mano davanti agli occhi: «Voglio guardarmi intorno il meno possibile per non rovinare le visioni che mi aspettano nella mia stanza».
(http://27esimaora.corriere.it/articolo/gaza-la-stanza-chiusagli-autoritratti-di-nidaa-badwan/)

giovedì 17 novembre 2016

Erano state mangiate dal corpo dei mariti, dei padri, dei fratelli, a cui finivano sempre più per assomigliare

Di passaggio in passaggio, senza rendermene conto, mi sentii prima sospinta verso un’adesione imbronciata, poi verso una rinnovata ammirazione per lei. Ma sì, sarebbe stato bello se si fosse rimessa a studiare. Tornare ai tempi delle elementari, quando lei era sempre la prima e io sempre la seconda. Ridare senso allo studio perché lei sapeva dargli senso. Tener dietro alla sua ombra e perciò sentirmi forte e al sicuro. Sì sì sì. Ricominciare. 
A un certo punto, lungo la strada verso casa, mi tornò in mente l’ibrido di sofferenza, spavento, disgusto che le avevo visto in faccia. Perché. Ripensai al corpo in disordine della maestra, a quello sgovernato di Melina. 
Senza una ragione evidente, cominciai a guardare con attenzione le donne lungo lo stradone. All’improvviso mi sembrò di essere vissuta con una sorta di limitazione dello sguardo: come se fossi in grado di mettere a fuoco solo noi ragazze, Ada, Gigliola, Carmela, Marisa, Pinuccia, Lila, me stessa, le mie compagne di scuola, e non avessi mai fatto veramente caso al corpo di Melina, a quello di Giuseppina Peluso, a quello di Nunzia Cerullo, a quello di Maria Carracci. L’unico organismo di donna che avevo studiato con crescente preoccupazione era quello claudicante di mia madre, e solo da quell’immagine mi ero sentita incalzata, minacciata, temevo tuttora che essa s’imponesse di colpo alla mia. In quell’occasione, invece, vidi nitidamente le madri di famiglia del rione vecchio. 
Erano nervose, erano acquiescenti. Tacevano a labbra strette e spalle curve o urlavano insulti terribili ai figli che le tormentavano. Si trascinavano magrissime, con gli occhi e le guance infossate, o con sederi larghi, caviglie gonfie, petti pesanti, le borse della spesa, i bambini piccoli che le tenevano per le gonne e che volevano essere presi in braccio. E, Dio santo, avevano dieci, al massimo vent’anni più di me. Tuttavia parevano aver perso i connotati femminili a cui noi ragazze tenevamo tanto e che evidenziavamo con gli abiti, col trucco. Erano state mangiate dal corpo dei mariti, dei padri, dei fratelli, a cui finivano sempre più per assomigliare, o per le fatiche o per l’arrivo della vecchiaia, della malattia. Quando cominciava quella trasformazione? Con il lavoro domestico? Con le gravidanze? Con le mazzate? Lila si sarebbe deformata come Nunzia? Dal suo viso delicato sarebbe schizzato fuori Fernando, la sua andatura elegante si sarebbe mutata in quella a gambe larghe, braccia scostate dal busto, di Rino? E anche il mio corpo, un giorno, si sarebbe rovinato lasciando emergere non solo quello di mia madre ma quello di mio padre? E tutto ciò che stavo imparando a scuola si sarebbe disciolto, il rione sarebbe tornato a prevalere, le cadenze, i modi, tutto si sarebbe confuso in una mota nerastra, Anassimandro e mio padre, Folgóre e don Achille, le valenze e gli stagni, gli aoristi, Esiodo e la sboccatezza proterva dei Solara, come del resto era accaduto nei millenni alla città, sempre più scomposta, sempre più degradata? 
Mi convinsi di colpo che senza accorgermene avevo intercettato i sentimenti di Lila e li stavo sommando ai miei. 
Perciò aveva quell’espressione, quel malumore? S’era accarezzata la gamba, il fianco, come una sorta di addio? 
Si era tastata, parlando, come se sentisse i confini del suo corpo assediati da Melina, da Giuseppina, e ne fosse spaventata, disgustata? Aveva cercato i nostri amici per bisogno di reagire? 
Mi ricordai il suo sguardo, da piccola, sulla Oliviero caduta dalla cattedra come una pupazza rotta. Mi ricordai il suo sguardo su Melina che mangiava lungo lo stradone il sapone molle che aveva appena comprato. Mi ricordai di Lila quando raccontava a noi bambine l’omicidio, il sangue lungo la pentola di rame, e sosteneva che l’assassino di don Achille non era un uomo ma una donna, come se avesse sentito e visto, nel racconto che ci faceva, la forma di un corpo femminile spezzarsi per necessità d’odio, per urgenza di vendetta o di giustizia, e perdere la sua costituzione.

siamo nella Storia del nuovo congnome, siamo a casa di Elena Ferrante.
e ancora mi sento spiazzata da questo stralcio di letteratura.
sottolinea pensieri sempre presenti sul corpo delle donne, lo declina in modo straordinario.
siamo il corpo delle nostre madri, forse di tutte le madri del mondo, siamo un corpo che testimonia la storia delle nostre antenate, oppure siamo capaci di diversificarci, di uscire da quella traccia e fare di noi un corpo nuovo? fuori dai solchi della miseria e del degrado, emancipate dalla cultura e dalla fatica dello studio, verso una nuova era?
la storia del cognome sarà storia antica? perderemo le tracce dei nostri padri, gli aberi genealogici si sfalderanno, non troveremo più i significanti della nostra discendenza ora che i cognomi dei padri si perderanno nelle nuove normative giuridiche che prevede anche l'acquisizione del cognome della madre? il cognome del padre dobbiamo viverlo solo come un'imposizione imperialista e maschilista del sesso dominatore e usurpatore o contiene la storia dei nostri significanti familiari? 
certo la storia del nostro corpo è segnata da quello delle nostre madri. è in quel seno, in quella piega, in quella ruga, in quel ventre, in quel vestito, in quello stile, in quel modo di camminare e di parlare che siamo cresciute e abbiamo imparato, o no, il valore della femminilità.
chi sono?
che donna sono?
come si fa a essere una donna?
sembrano domande scontate.
vi assicuro.
non lo sono affatto.
le donne si perdono dietro al proprio corpo e alla sua immagine, si perdono in abissi di dolore e di esistenze perdute mai vissute vituperate smarginate sfregiate, non dagli acidi o dagli abusi degli uomini, soprattutto a causa degli sfregi che si sono inflitte, cicatrici di ferite mai ricomposte.

domenica 13 novembre 2016

più o meno, il jazz è sempre stato come quel tipo d'uomo che non vorresti che tua figlia frequentasse



se le immagini di Venezia sfuocate e annullate non mi avevano convinto, quelle sul Jazz mi hanno entusiasmata.
al Base di Milano, solo fino al 16 novembre, sono esposte le foto di Roberto Polillo.
sono strepitose e narrano la storia, davvero entusiasmante, del jazz.
è esattamente l'immagine del jazz che mi porto dentro, certamente condizionata senza saperlo da queste immagini prima di dare loro un nome, ma anche per una corrispondenza tra l'atmosfera che percepisco ascoltandolo e quel che si imprime su queste pellicole.
ombre, fumo, buio, squarci di luce e, soprattutto, atmosfera di complicità e godimento.
come un'esperienza singolare ma condivisa, ognuno speciale ma tutti in ascolto l'uno dell'altro.



Al Base di Milano va in scena il Jazz: la mostra “Swing, Bop & Free! Il Jazz degli anni '60” presenta i ritratti dei musicisti che hanno scritto la storia dell’età d’oro del jazz, Louis Armstrong, Duke Ellington, Miles Davis, Charles Mingus, John Coltrane - giusto per citare qualche nome - immortalati da Roberto Polillo nell’intimità di un caffè, sul palco durante le prove e i concerti, al loro arrivo negli aeroporti o a passeggio per le città. Un racconto in 100 fotografie, scattate tra il 1962 e il 1974, che il fotografo milanese dedica al padre Arrigo, direttore sin dal 1965 della rivista Musica Jazz, tra i più autorevoli critici musicali e organizzatore di importanti concerti jazz in Italia, ma anche in Svizzera e sulla Costa Azzurra. La mostra, realizzata dal Teatro dell'Arte e Ponderosa Music & Art in collaborazione con Blue Note Milano e Base nell’ambito del JAZZMI, il Festival del Jazz che invaderà Milano nei primi giorni di novembre con un ricco calendario di appuntamenti, viene inaugurata il 4 novembre alle ore 19 in via Bergognone 34. Per tutte le informazioni www.jazzmi.it.

venerdì 11 novembre 2016

tutti quanti, tutti quanti, tutti quanti voglion fare il jazz

(gli aristogatti)
certo, anche io.
procedo bene, ma vedo che i prossimi concerti sono ormai in esaurimento, mi limiterò ai concerti minori.
d'altronde i costi non sono proprio da ridere, rispetto alle occasioni di MiTo qui i concerti non vanno in promozione.
ad oggi JazzMi mi ha dato due prove eccellenti ed una dubbia. e una incomprensibile.
Istanbul Sessions al Santeria Social Club mi ha vista ultima in classifica in quanto ad età media dei partecipanti ma tra i primi in quanto a perplessità sul genere, giusto un po' di Istanbul ma molto poco di jazz, ammesso che basti un sax per dire jazz. i ragazzi non la finivano più di suonare ma l'ultima mezz'ora era francamente un boato più rockettaro che altro con una batteria fuori controllo.
splendido, sabato, il trio alla Sala Verdi con le musiche di Chet Baker.
splendido il quintetto di Cazzola al teatro dell'Arte questa mattina con un omaggio alla divina, Billie Holiday.
grande bellezza e incanto, il jazz è raffinato ed elegante, lo penso in bianco e nero come nelle foto di Polillo al Base, ed è un fine afflato di intesa tra i suoi partecipanti, sembra di spiare un'intesa privata ed eccitante, una complicità senza parole.
ieri sera mi sono spinta, spendendo una cifra non indifferente per poi stare in piedi, al teatro della Triennale per un concerto intitolato Junun, un progetto multietinco di Jonny Greenwood dei Radiohead,  che coinvolge il regista Paul Thomas Anderson, il musicista israeliano Shye Ben Tzur e il gruppo indiano dei Rajasthan Express, il tutto preceduto dal documentario di ben 50 minuti (non esplicitato dal sito di jazzmi infatti la presentazione ha creato brusio e sorpresa in sala) del suddetto regista. tutto molto bello, musica basata su ritmi incalzanti, un suonare insieme, quel senso rassicurante di India che cura l'anima, turbanti in testa, l'israeliano ispirato che conduce il gruppo, islam e misticismo, musica globale...ma il jazz?



mercoledì 9 novembre 2016

prosit

come quando ho letto della vittoria dei leave.
mi si serrano i denti, ho come la sensazione che mi accada qualcosa alla bocca, denti che cadono.
e un tonfo alla mia valvola mitralica che diventa un po' più insufficiente.
e, inoltre, credevo che Veronesi fosse immortale, con il suo credo assoluto, ateo e razionalista, nella scienza si sarebbe meritato di assurgere al mito dell'eternità. forse se l'è guadagnata lo stesso, ma la scienza si è inquinata caro Umberto, si sporca le mani di atti immorali e dannosi per l'umanità, si fa spesso terreno di coltura per la perversione, portatrice dell'assenza del limite.
ad ogni modo la mia valvola svalvola, Trump presidente è il nero che cala sul mondo, americani coglioni, come molti altri d'altronde, coglioni tutti, adesso ci divertiamo, sono in molti a stappare lo champagne, Putin esulta, Assad e Erdogan ballano, Orban se la ride, Marine Le Pen ghigna, e il mondo segue l'Italia centrale, sprofonda sotto le faglie telluriche.
cin cin, al futuro del mondo.

sabato 5 novembre 2016

e fai come se nulla fosse, quando invece tutto è in atto, presente, lì nella stanza povera e un po’ buia

Arrivò il 12 marzo, una giornata mite, già primaverile. 
Lila volle che andassi presto nella sua vecchia casa, che l’aiutassi a lavarsi, a pettinarsi, a vestirsi. Mandò via la madre, restammo sole. Si sedette sul bordo del letto in mutande e reggiseno. Accanto aveva l’abito da sposa, che pareva il corpo di una morta; davanti, sul pavimento a esagoni, c’era la conca di rame ricolma d’acqua fumante. 
Mi chiese a bruciapelo: «Secondo te sto sbagliando?». 
 «A far che?». 
 «A sposarmi». 
 «Pensi ancora alla storia del compare di fazzoletto?». 
 «No, penso alla maestra. Perché non mi ha voluto far entrare?». 
 «Perché e una vecchia bisbetica». 
 Stette zitta per un po’ a fissare l’acqua che brillava nella conca, poi disse: 
 «Qualsiasi cosa succeda, tu continua a studiare». 
 «Altri due anni: poi prendo la licenza e ho finito». 
 «No, non finire mai: te li do io i soldi, devi studiare sempre». 
 Feci un risolino nervoso, poi dissi: 
«Grazie, ma a un certo punto le scuole finiscono». 
 «Non per te: tu sei la mia arnica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine». 
 Si alzo, si tolse mutande e reggiseno, disse: 
«Dai, aiutami, che senno faccio tardi». 
Non l’avevo mai vista nuda, mi vergognai. Oggi posso dire che fu la vergogna di poggiare con piacere lo sguardo sul suo corpo, di essere la testimone coinvolta della sua bellezza di sedicenne poche ore prima che Stefano la toccasse, la penetrasse, la deformasse, forse, ingravidandola. 
Allora fu solo una tumultuosa sensazione di sconvenienza necessaria, una condizione in cui non si può girare lo sguardo dall'altra parte, non si può allontanare la mano senza riconoscere il proprio turbamento, senza dichiararlo proprio ritraendosi, senza quindi entrare in conflitto con l’imperturbata innocenza di chi ti sta turbando, senza esprimere proprio col rifiuto la violenta emozione che ti sconvolge, sicché ti obblighi a restare, a lasciarle lo sguardo sulle spalle di ragazzo, sui seni coi capezzoli intirizziti, sui fianchi stretti e le natiche tese, sul sesso nerissimo, sulle gambe lunghe, sulle ginocchia tenere, sulle caviglie ondulate, sui piedi eleganti; e fai come se nulla fosse, quando invece tutto è in atto, presente, lì nella stanza povera e un po’ buia, intorno il mobilio miserabile, su un pavimento sconnesso chiazzato d’acqua, e ti agita il cuore, ti infiamma le vene. 
La lavai con gesti lenti e accurati, prima lasciandola accoccolata nel recipiente, poi chiedendole di alzarsi in piedi, e ho ancora nelle orecchie il rumore dell’acqua che sgocciola, e m’è rimasta l’impressione che il rame della conca fosse di una consistenza non diversa da quella della carne di Lila, che era liscia, soda, calma. 
Ebbi sentimenti e pensieri confusi: abbracciarla, piangere con lei, baciarla, tirarle i capelli, ridere, fingere competenze sessuali e istruirla con voce dotta, distanziarla con le parole proprio nel momento di massima vicinanza. Ma alla fine rimase solo il pensiero ostile che la stavo mondando dai capelli alle piante dei piedi, di buon mattino, solo perché Stefano la sporcasse nel corso della notte. La immaginai, nuda com'era in quel momento, avvinta al marito, nel letto della nuova casa, mentre il treno sferragliava sotto le loro finestre e la carne violenta di lui le entrava dentro con un colpo netto, come il tappo di sughero spinto dal palmo dentro il collo di un fiasco di vino. E mi sembrò all'improvviso che l’unico rimedio contro il dolore che stavo provando, che avrei provato, era trovare un angolo abbastanza appartato perché Antonio facesse a me, nelle stesse ore, la stessa identica cosa. L’aiutai ad asciugarsi, a vestirsi, a indossare l’abito da sposa che io - io, pensai con un misto di fierezza e sofferenza - avevo scelto per lei. La stoffa diventò viva, sul suo candore corse il calore di Lila, il rosso della bocca, gli occhi scurissimi e duri. Alla fine si infilò le scarpe da lei stessa disegnate. Pressata da Rino, che se non le avesse calzate ci avrebbe sentito una specie di tradimento, se ne era scelto un paio col tacco basso, per evitare di sembrare troppo piu alta di Stefano. Si guardò allo specchio sollevando un po’ il vestito. 
 «Sono brutte» disse. 
 «Non è vero». 
 Rise in modo nervoso. 
 «Ma si, guarda: i sogni della testa sono finiti sotto i piedi». 
 Si giro con un’espressione imprvvisa di spavento: «Cosa mi sta per succedere, Lenù?».

sono già al secondo, dall'amica geniale sono passata, senza che passasse un solo minuto, alla storia del nuovo cognome.
Lila e Lenù sono le mie nuove amiche. e sono mie, solo mie.
io poi delle amiche non so sempre bene cosa farmene, entrano ed escono dalla mia vita, non mantengo rapporti costanti e secolari, le persone non cambiano con me e le lascio tutte indietro.
dietro di me.
non ho voglia di raccontarmi e non ho la pazienza di spiegarmi.
sono una creatura solitaria, amo stare sola, faccio quasi tutto da sola, fermo restando che passo la mia vita ad occuparmi, e ad ascoltare per ore e giornate intere, gli altri.
ebbene, due amiche così posso permettermele e me le tengo strette. sono perfette per me e la mia solitudine.
penso che in realtà siano una persona sola, non le penso divise, sono i pensieri di una stessa mente; forse è Elena Ferrante la mia amica. la giostraia di questo gioco letterario.
io sento che non sono divise, sento che sono una, solo parlano in due.
la scrittura della Ferrante è misteriosa, come lei.
non dice mai fino in fondo, non spiega, non trova giustificazioni, fa passaggi inaspettati e a volte inconcludenti.
geniale.
geniale perché per tutto il libro pensi che l'amica geniale sia Lila ed ecco la smentita, è di Lenu' che si parla. ma ci sarà tempo per essere smentiti ancora.
il passo che ho citato è stupefacente, il turbamento per la nudità di Lila è strepitoso, è la scoperta della femminilità e il suo segreto riflessi in uno specchio, sono le parole di Lenù con il corpo di Lila. sempre due in una.
una possibilità impossibile, nella vita.
ma nel romanzo, si.

venerdì 4 novembre 2016

il gioco dell'evoluzione poteva essere condotto in molti modi

c'è una storia da raccontare.
ed è bellissima.
io non sono capace, al Mudec si.
la mostra sull'Homo Sapiens è un racconto sulla nostra storia e mai l'avevo letta così.
avverto un bel turbamento, una specie di giramento di testa, nel sapere come si sono svolte le cose, tali per cui questa razza, quella del Sapiens, è sopravvissuta e poi è cresciuta e poi si è sviluppata fino al dominio del mondo.
perché noi non eravamo l'unica eventualità possibile, di opzioni ce n'erano altre, tipo i Neanderthal, ma a loro non è andata bene.
a noi si.
e sembra che in alcuni momenti, in particolare dopo un'esplosione vulcanica apocalittica che ha modificato parte della crosta terreste e tutto il suo habitat, di Sapiens ne fossero rimasti davvero pochi in giro. eppure, solo noi siamo qui. gli altri no, si sono estinti.
insomma, c'era un'umanità alternativa a questa, ma non ce l'ha fatta. 
veniamo dall'Africa e siamo stati la terza ondata migratoria, altri ci hanno preceduto alla conquista delle terre. giunti in medio oriente, andiamo a destra o a sinistra? verso l'Europa o verso l'Asia? abbiamo raggiunto i nostri predecessori e, con questi cugini, ci siamo anche incrociati, ibridati, ma niente, alla fine solo noi siamo rimasti.
alla terra, dico, poteva andare meglio con gli altri?
un passo dopo l'altro siamo andati in Asia, in Oceania, in Europa e pure in America passando dallo scomparso stretto di Bering. anche lì, che storia ragazzi, dall'Asia ci siamo inoltrati in America passando per una terra che era abitata da mammut e che poi è stata totalmente sommersa.
ma intanto abbia fatto questo giro, poi i ponti dietro sono crollati..
quando Cristoforo Colombo ha fatto capolino sulla nuova terra- buongiorno, c'è nessuno?- non ha trovato mostri a due teste ma se stesso, qualcuno che era arrivato ai Caraibi da un'altra strada. ma sempre un Sapiens era, solo aveva già aperto l'ombrellone e si era già accomodato per il cocktail in riva al mare. -salve buongiorno, ci siamo già visti?-
siamo una sola razza dunque, siamo Sapiens, le modificazioni antropometriche che oggi ci distinguono sono acquisizioni davvero molto recenti rispetto alla storia dell'uomo, sono adattamenti superficiali che tradiscono un'apparente diversità. di fatto siano un'unica razza, un gruppo continuo.
sembra poi che sia avvenuto un miracolo, quello paleolitico, quando l'uomo ha cominciato a simbolizzare, ad astrarre, a inventare mondi possibili ma immaginari. nasce l'intelligenza simbolica e con essa l'arte, la pittura, la scultura, i monili, la musica, gli abiti, la conservazione dei defunti.
è chiaro che siamo a un punto di svolta.
emerge che il Sapiens è molto creativo, e anche molto aggressivo.
eccoci qua, siamo noi con le nostre pulsioni primarie. 
qualcuno pensa alla femminilità e la rappresenta.
qualcuno pensa alla virilità e la rappresenta.
cosa manca?
la parola, il linguaggio, altra storia incredibile, altra questione fondante.
leggo che le lingue si vanno perdendo, un'estinzione velocissima e senza ritorno, che sarà di noi e dei simboli che abbiamo creato?
e cosa accade in quella parte del mondo, il medio oriente, che è stato il crocevia obbligatorio di tutte le stirpi africane, sapiens e le altre prima di noi, che hanno conquistato il mondo emerso? proprio lì, ora come sempre, si sono svolte le guerre più sanguinose e violente.
da lì siamo passati, da lì ci siamo  moltiplicati, dopo aver vissuto nomadi di caccia e poi stanziali di agricoltura, dopo aver cominciato ad allevare bestiame e poi esserci insediati nei primi centri protourbani, da lì abbiamo cominciato a trasformare gli ecosistemi, a conservare il cibo, a commerciare, a scrivere, e a navigare.
a conquistare, a combattere, a prevalere.
e ora da lì vengono i profughi. scappano dalla guerra madre, la madre di tutte le guerre, ancora in fuga non per conquistare, solo per sopravvivere agli uomini Sapiens che tutti noi siamo, ma trasformati dalla cultura e dalla religione, dai simboli e dalle appartenenze.

al Mudec, presto, un'incredibile storia ci attende.