bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

martedì 22 novembre 2011

Oh la nerezza è assassina

Hai detto che la rabbia sarebbe tornata
proprio come l’amore.
Ho una sembianza nera che non
mi piace. È una maschera, me la provo.



Anne Sexton era pazza, instabile infelice erotomanica e ricchissima di parole, e le sue poesie sono un coacervo di follia e di densità nera, nera come il fondo senza fine. irresistibile, si desidera cadere.
non voglio parlare di lei ma quella nerezza, maschera nera che non mi piace, a volte ce l'ho addosso, in questi giorni sono tormentata dalla consapevolezza della cattiveria che esiste in ognuno di noi, il lato oscuro, il lato impietoso, crudele e abissale, quello che sbaglia, fa male, errori enormi. non sono esente, faccio cose di cui mi pento terribilmente e non so come rimediare.
mi leggo un po' Hanna Arendt, uno spunto da un libro leggibile di Carofiglio "Le perfezioni provvisorie", e mi spiega che la redenzione possibile dall’aporia dell’irreversibilità – non riuscire a disfare ciò che si è fatto, anche se non si sapeva, e non si poteva sapere ciò che si stesse facendo, è nella facoltà del perdonare. Il rimedio all’imprevedibilità è la facoltà di fare e mantenere promesse.
è di sollievo crederci ma credo che non basterà a schiarire la nerezza, a eludere la sembianza.
Gli uomini, anche se devono morire, sono nati non per morire ma per incominciare.

domenica 20 novembre 2011

la poesia dal cielo scende a noi con azzurra chiarezza nello sguardo

secondo me è stato un furto, ma lui lo ha definito un regalo.
io i libri li regalo.
e così me lo sono preso, rubandolo dal tavolo strabordante di libri.
un bell'effetto scenico, un segnale inequivocabile per chi entra, questo sono io o questo è come appaio io.
sono stata attratta dal titolo: Poesie. tanto basta. autore: Fëdor Ivanovič Tjutčev.
io questo signore non lo conosco, ora so quello che ho letto in giro sul web.
quello che so ora, dopo averle lette tutte in una mattina precoce e silenziosa d'autunno, è che Fëdor Ivanovič Tjutčev -sempre amato questi nomi russi impronunciabili- è un poeta russo appartenente alla tradizione del romanticismo europeo, soprattutto tedesco.
quello che so è che la sua poesia è densa di cadenze retoriche e solenni della poesia settecentesca, di immersioni notturne e abissali nella natura nordica, di rinascite mattutine brillanti e speranzose nelle lande desolate dell'anima, di cadute spaventose e di resurrezioni disperate, di contrasti accesi tra l'ordine e il caos.
insomma, mi sono incamminata lungo questo andamento, un po' troppo manicheo per i miei gusti, ma quando trovo anche solo una poesia che mi piace, a me sembra di aver trovato un tesoro.
questa mi piace, l'ho letta e riletta, e mi sembra che il sorriso mite di sfioritura che riflette il sacro pudore della sofferenza appartenga all'azzurra chiarezza della poesia.


SERA D'AUTUNNO
Nella chiarezza v'è delle autunnali
sere un tenero, un misterioso incanto:
lo splendore degli alberi sinistro,
il languido frusciare delle foglie
porporine, il velato e calmo cielo
sopra la terra triste e desolata,
e, annunzio delle prossime bufere,
un brusco, freddo vento qualche volta,
un mancare e sfinirsi - e quel sorriso
mite di sfioritura, su ogni cosa,
che in essere senziente noi chiamiamo
sacro pudore della sofferenza.

Fëdor Ivanovič Tjutčev - 1830

venerdì 11 novembre 2011

quando non rimane che l'esercizio del potere

non voglio, non posso entrare nei dettagli, nessuno capirebbe, solo chi lavora in un reparto, in un reparto di psichiatria. ma forse nemmeno. infatti oggi mi sono sentita sola.
mi è sembrato di capire lucidamente e quello che ho capito non so se fosse condivisibile.
siccome lucida lo sono raramente, sono emozionata tutta la mia vita, un inferno che mi rende per lo più stupida, se sono lucida per un momento ho il diritto di non parlare e di sentirmi sola come un cane.
la paziente stava male, da giorni settimane mesi. indubbiamente. un chiarore acido che tesse i bruciori d’inferno degli atomi e il conato torbido d’alghe e vermi.
ma la paziente non delirava era presente e lucida, parlava chiaramente, chiedeva chiaramente, vedeva ancora più chiaramente tutte le lacune e le mancanze, le inadempienze e gli errori clamorosi, l'inutilità e le incongruenze.
un ricovero nato sull'inganno, che rompe un'alleanza terapeutica, già fragilissima, tra il medico e il suo paziente e che fa esplodere una rabbia incontenibile: sono stata tradita e questo sistema fa schifo, il reparto fa schifo, voi fate schifo, gli psichiatri sono una merda.
vede subito la mia collega paranoica quanto o più di lei, vede le sue intransigenze e la sua durezza. vede la sua non-cura, la noncuranza e il suo solo bisogno di affermare il suo potere, la squalifica subito: lei, dottoressa, è superba, cattiva, arrogante e non sa parlare con i pazienti. e con lei, quindi, non voglio più parlare. lei non capisce niente.
vede che i medici dell'ospedale non parlano con i medici del territorio: voi non sapete comunicare tra di voi, non sapete nemmeno di cosa stiamo parlando.
la paziente, seppure con le sue modalità impulsive e distruttive che descrivono il suo malessere, ci ha messo tutti in scacco: siamo nudi, impotenti. in sostanza abbiamo sbagliato, questo ricovero è inutile, si deve ricominciare da capo, umilmente, in un posto che non sia qui. oppure qui, se ne siamo capaci, cambiando strategia, atteggiamento, modalità, approccio.
quale medico sa ammettere la propria inadempienza, umilmente? ho sbagliato e la paziente ha solo ragione.
forse un medico non lo sa fare, non è chiamato a farlo, ma uno psichiatra si. psiche è la nostra cultura.
oggi ho assistito a una débâcle, la psichiatria, o forse la medicina in genere, non sa ammettere il proprio errore e quando è in un angolo sa solo esercitare il suo potere. il camice del medico contro la paura del paziente, imporlo e fare scempio di sè.
forse sono lucida, forse sono emozionata come sempre.

martedì 8 novembre 2011

Pina: dance dance otherwise we are lost

non so nemmeno se riesco a scrivere. sono bloccata da un eccesso. il pensiero è così denso che sono certa di non poterlo dipanare. vorrei dire tutto e allo stesso tempo niente.

capolavoro.

Pina 3D, regia di Wim Wenders.
racconta di Pina Bausch, coreografa tedesca di grandissima fama scomparsa nel 2009, della sua danza, dei suoi ballerini, del suo lavoro sul corpo e sulle emozioni.
visualizza il teatro-danza che, a partire dagli anni Settanta, ha rivoluzionato la concezione della danza contemporanea, seguendo gli artisti della leggendaria compagnia Tanztheater Wuppertal sulla scena e fuori, nella città di Wuppertal, il luogo che per 35 anni è stato la casa e il cuore della creatività di Pina Bausch.
ma queste sono cazzate.
notizie.
qui c'è una densità atomica, c'è una genialità esplosiva, c'è una potenza espressiva che mi ha ipnotizzata dal primo fotogramma all'ultimo. danza solo danza, dal primo fotogramma all'ultimo, ballerini, di tutte le razze, di tutte le età, di tutti i sessi. corpo e materia del corpo. mente e suggestione della mente. vita e intesità della vita.
ricerca.
Pina Bausch era un genio, indubbiamente, un'artista profondissima, una creatrice immensa, una plasmatrice del corpo, una maga delle emozioni, un'inventrice del movimento, una poetessa dell'immagine corporea. 
Pina Bausch era, anche, e soprattutto, un'analista. nel film emerge chiaramente il lavoro di ricerca personale, sulla domanda e sul desiderio, che ha saputo intraprendere con ogni suo singolo ballerino, con grande intelligenza, grande capacità intuitiva e ancora maggiore forza di suggestione. una psicoterapia che passa dal corpo, un linguaggio diverso, con un potere espressivo enorme, con una carica emotiva incontenibile.
Pina guardava, osservava i suoi ballerini, parlava poco ma sapeva parlare. e poi tacere. era suggestiva e magnetica, a partire da ogni sua singola osservazione i suoi ballerini, ad un ad uno, sono cresciuti, hanno cercato, hanno sondato, hanno sofferto, hanno avuto paura, hanno aperto le loro domande, e hanno danzato. hanno ballato sui loro dubbi, nel pieno della loro ricerca, della reinvenzione di se stessi e della rivisitazione della loro nudità.
Wenders è magistrale nella narrazione di questa ricerca e nella sua composizione pittorica filmica.
danza è ovunque, ovunque, in una piscina, in uno spazio vuoto, in uno spazio industriale, nelle vie della città, sulle teleferiche, sulle spiagge, nei canyons, attraverso le vetrate e nei ruscelli. ovunque è danza. la danza narra della vita, si vive danzando, si parla danzando, si ama danzando. e danzando si soffre.
la danza è anche teatro, immagini di un cuore rosso pulsante, di aliti di respiro, di acqua che riflette la luna, di un caffè dove si patisce la vita, di uomini che incontrano le donne, di donne che si affidano agli uomini, di incontri impossibili ed eterni, di momenti dolorosi e bellissimi.
la danza di Pina è anticonvenzionale, anti estetica, in contrasto con tutta la tradizione rigidamente ossessiva e paranoica della danza. i suoi ballerini non sono belli. le donne sono alte e basse, giovani e vecchie, lunghe e ossute, spettinate, senza cura e senza trucco. la nudità non è oggetto, ma soggetto, bianca scavata segnata rugosa e spigolosa. non c'è osservanza delle regole e dei canoni, c'è solo ricerca. una ricerca che arriva dritta al centro, rigorosa, spietata, senza vergogna. è una danza etica.
ipnotizzata ed emozionata, ho bevuto e mi sono cibata di questo film, di questo tempo, questo spazio in tre dimensioni come se a ballare fossi io. come se a soffrire fossi io, ed ero io, come se ad amare fossi io, ed ero io.



"Continuate a cercare"

domenica 6 novembre 2011

Chiarore acido che tessi i bruciori d’inferno degli atomi



Esistere psichicamente

Da questa artificiosa terra-carne
esili acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
- soli che urtarono fili di ciglia
ariste appena sfrangiate pei colli -
da questo lungo attimo
inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,
da tutto questo che non fu
primavera non luglio non autunno
ma solo egro spiraglio
ma solo psiche,
da tutto questo che non è nulla
ed è tutto ciò ch’io sono:
tale la verità geme a se stessa,
si vuole pomo che gonfia ed infradicia.
Chiarore acido che tessi
i bruciori d’inferno
degli atomi e il conato
torbido d’alghe e vermi,
chiarore-uovo
che nel morente muco fai parole
e amori.

Andrea Zanzotto
da “Vocativo”

io dico: che linguaggio. che intreccio di nulla ed essere, psiche ed esistenza.
si viene da un chiarore d'uovo, attraverso un non luglio, non autunno, un lungo attimo inghiottito dal vento, vivendo di esili acuminati sensi, e sussulti e silenzi, siamo bruciori d'inferno degli atomi e poi ci sciogliamo in morente muco, conato di vermi. o viceversa. nascita e morte indistintamente si confondono. creazione e dissoluzione, dilatazione e contrazione dell'essere.
ma solo psiche
da tutto questo che non è nulla
ed è tutto ciò ch’io sono.
si è così, esisto psichicamente e per questo mi districo dal nulla da cui provengo e diverrò.
anche io ho il mio linguaggio, solo mio.
ed è fonte della mia identificazione e anche della mia solitudine.