bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

martedì 5 novembre 2013

Sacro Gra

nella sala, forse a dir tanto, eravamo in 10.
93 minuti di documentario di Gianfranco Rosi. 
un susseguirsi di immagini surreali, inverosimili e improbaili eppure vere. 
intorno al grande raccordo anulare si consumano vite impensabili, eppure siamo a Roma, Roma capitale d'italia, Roma della grande bellezza di Sorrentino. 
un racconto lento e dettagliato, a volte solo filmato, a volte anche parlato, ma non come un'intervista. nessuna domanda, i personaggi parlano, tra sè o con qualcun altro, e così narrano le loro vite ai confini della realtà. per tutto il film, attonita, mi sono domandata perchè premiare questo oggetto, seppure pregiato e onorevole, con un premio come quello della mostra del Cinema di Venezia. 
non lo so. 
veramente non lo so. ormai è un vezzo dei giudici di Venezia premiare l'improbabile, il difficile, il meno godibile, l'impegnato a scapito del bello. deve essere ormai un punto di onore. 
credo che questa posizione irrigidita  vada solo a scapito dei buoni film italiano e internazionale, e quindi non voglio sentire lamentele sugli incassi milionari, in tre giorni di ponte, del sole a catinelle di Checco Zalone. 
ad apprezzare Sacro Gra eravamo in dieci, punto e basta, non c'è niente altro da aggiungere. 
e non è un capolavoro, sia chiaro, non è un capolavoro da difendere a tutti i costi, oltre i gusti grezzi e grossolani degli italiani, è un documentario originale e curioso, uno sguardo veloce sull'inverosimiglianza della vita, sull'involuzione penosa delle città, sulla bizzarria che produce l'abbandomo sociale.
guardandolo, e facendomi domande, ho ripensato a un articolo di Sandro Veronesi letto su La lettura del Corriere della Sera. il suo punto di vista è molto particolare, va al di là delle mie capacità di pensiero, è una riflessione interessante che mi affascina moltissimo ma che, comunque, non modifica la mia opinione sul film e sull'entità del premio che ha ricevuto. è un punto di vista urbanistico che guarda Roma come città chiusa e involuta che, nella sua crescita e sviluppo, ha badato molto al controllo, alla centralizzazione, all'evocazione e conservazione della memoria storica senza saper guardare al futuro e alla periferia: un fallimento dell’urbanistica novecentesca che si ritrova, all’inizio del secolo successivo, confinata in una penosa, diroccata irrilevanza.

Roma e le altre città chiuse
...
Oggi tocca al cinema europeo, anzi italiano, portare avanti questo discorso con due film apparentemente lontani ma intimamente legati dall’implicito assunto che li sostiene. I due film sono La grande bellezza di Paolo Sorrentino e Sacro Gra di Gianfranco Rosi; l’assunto è che, quando si parla di città (e cioè di noi), a ogni segno tracciato (o non tracciato) su un foglio corrisponde sempre la deportazione di un certo numero di esseri umani in un determinato destino, e questo — attenzione — anche quando non esiste nessuna intenzione di deportarceli. Accenno appena al mio personale giudizio su questi due film, che considero due capolavori, non perché esso abbia importanza nel discorso che sto facendo, ma per evidenziare che prima di rimuginarci sopra in questo modo li ho pienamente goduti per quello che sono, cioè due opere cinematografiche per me di gran pregio. Detto questo, è interessante osservare che entrambi rappresentano Roma, non come pura ambientazione ma come organismo complesso e spesso abnorme che interagisce con le vicende narrate, le condiziona e le definisce. 
Nel film di Sorrentino si tratta della Roma antica, magnificente, languida e immortale, la cui struggente bellezza, per l’appunto, appaga fino a stordire. 
In quello di Rosi è la Roma invisibile e inguardabile che si è abbarbicata alla più grande autostrada urbana d’Europa, quel Grande Raccordo Anulare che doveva esserne la buccia e che invece, poiché la città ha continuato a crescere anche al di là di quel recinto, ne rappresenta solo uno strato imperscrutabile. 
Ora, sappiamo bene che l’atteggiamento urbanistico destinato alla Roma monumentale è sempre stato — nel migliore dei casi — quello della sua conservazione: un’immobilizzazione del tempo e dello spazio che si fa museo perenne della sua gloria: di conseguenza — ecco l’assunto — la retroguardia umana che si ostina a popolarla si ritrova a sprofondare nelle sabbie mobili delle terrazze panoramiche, e a lanciare trenini «che non vanno da nessuna parte». Immobile e sterile lo spazio, immobili e sterili gli uomini.
Invece il concetto della cosiddetta viabilità tangenziale, che alla fine degli anni 40 ha ispirato la progettazione del Grande Raccordo Anulare, ha a che fare con il dinamismo e con lo sviluppo. Per questo il tracciato è stato collocato ben oltre quelli che all’epoca erano i confini della città, in pieno Agro Romano: un anello destinato a farsi argine e margine della crescita governata dal pianificatore. In un dialogo a distanza con le strade consolari che vi prendono origine, il cerchio che lo descrive è stato centrato sul Miliario Aureo dell’Urbe antica, cioè proprio là dove Jep Gambardella getta il suo sguardo colmo di ozio e di rimorso — ma nessun pensiero è stato rivolto alle vite umane che sarebbero state intercettate dal suo perimetro, poiché non di insediamento si stava parlando, bensì di mera infrastruttura: e tuttavia i personaggi reali che risplendono nel film di Rosi — mignotte, sottoproletari, castellani, coatti, comparse, pescatori — vivono e lavorano lungo il Raccordo senza mai percorrerlo, come fosse un quartiere. Il pianificatore che ha disegnato il margine li ha condannati alla marginalità; il suo intento esclusivamente infrastrutturale, alla non-esistenza. Siamo agli antipodi di qualunque utopia novecentesca, e dunque anche della città mentale: dalle città invisibili di Calvino (libro-cult di Nicolò Bassetti, l’ideatore del progetto di esplorazione metropolitana che ha ispirato Gianfranco Rosi) si passa alla città involontaria. E proprio l’involontarietà, allora, che affratella i disgraziati di Rosi e i parassiti di Sorrentino, diventa l’ultimo cerchio della dannazione urbana, ben peggiore della cattività denunciata dai film hollywoodiani — dalla quale, almeno, foss’anche solo nel lieto fine di un blockbuster, si può sempre scappare. 
Da questa Roma, invece, quella immortale che non dà più frutti e quella mai nata che si riproduce ciecamente, quella dei pastori senza gregge e quella delle pecore senza pastore, non si può scappare: la vita che ci si vive, nessuno l’ha voluta. Il degrado che vi si produce, nessuno lo considera. Dal mito del controllo si passa direttamente a quello dell’abbandono. Resiste tuttavia un lampo d’utopia, negli episodi per me più belli di questi due film, i più simbolici ed evocativi: quello della miracolosa dimostrazione che la natura dà a Gambardella di poter ancora colonizzare il vuoto splendore del suo habitat, e quello dell’eroe solitario che combatte il punteruolo rosso, le cui larve s’insediano nelle palme dell’Agro Romano e ne divorano ogni tessuto fibroso fino alla loro completa distruzione. Quando un immenso stormo di fenicotteri rosa s’impossessa delle terrazze di Roma e vi riporta la vita che i suoi abitanti non riescono più a generare, e quando l’entomologo illustra il sistema che ha escogitato per scacciare il micidiale parassita riproducendo il suo stesso grido di terrore, questi due film che dovrebbero essere studiati nelle facoltà di Architettura individuano l’unico possibile antidoto contro l’entropia urbana: il radicale rovesciamento dell’approccio, spostando l’ingegno umano là dove non è mai stato applicato e affidandosi alla natura dove esso non produce più nulla. Se ci pensate, è qualcosa di molto simile a ciò che da anni sta predicando Renzo Piano sul rapporto tra centri e periferie: smettere di considerare gli uni il luogo dell’identità e le altre quello dell’anonimato, e concepire, e progettare, e produrre un flusso inverso di energia vitale — architettonica, economica, sociale, culturale e, perché no, estetica — che per una santa volta non abbia come obiettivo la crescita, la speculazione o l’aumento del Pil, ma ciò di cui in passato noi italiani siamo stati i depositari, e che oggi invece ci manca: l’armonia. Il che potrebbe farci smettere di comportarci con le nostre città come il punteruolo rosso con le palme da dattero.

Sandro Veronesi

Nessun commento: