bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

domenica 18 ottobre 2009

visioni. e prigioni.



Ho visto uno spettacolo: Double Vision.
nasce dall’incontro artistico tra la Carlson, che ha segnato l’evoluzione della danza contemporanea degli ultimi trent’anni, e il giovane gruppo Electronic Shadow.
Non so cho di voi ha avuto la fortuna di vederla, molto tempo fa, in Undici onde o Underwood. un vedere attraverso la forza del ricordo in un gesto artistico assolutamente originale. un movimento, quello della Carlson, quasi autistico a mio parere, una gestualità ripetitiva quasi ossessiva che fa ampio uso delle braccia e un suo comunicare un'interiorità attraverso un costante slancio verso lo spazio circostante e il successivo riassumerlo dentro di sè. un gesto che, non a caso, non ha trovato proseliti o gruppi o singoli all'altezza della sua impronta orginaria. quel gesto è della Carlson e con lei morirà. irripetibile. un gesto che non apre al mondo, caso mai un gesto che racconta di un mondo interiore. quando l'ho vista, ormai venti anni fa, o forse di più, mi aveva colpita in modo accecante.

rivederla oggi mi ha fatto un'impressione diversa. in questo spettacolo, double vision, Carolyn Carlson attraversa il “mondo che si vede”, la creazione della natura, il “mondo che si produce”, quello dell’uomo, della civilizzazione, delle metropoli, e il “mondo che si immagina”.

Grazie all’uso della tecnologia digitale il palcoscenico diventa un flusso di immagini che si fonde con i movimenti della coreografa. il doppio sta nel movimento danza e nella scenografia e il loro riflesso in uno specchio. a tratti, soprattutto nella prima parte, l'effetto è notevole. sembra di essere nel regno dei ghiacci, nel profondo di un vulcano, nell'abisso dell'oceano. sembra di essere dentro qualcosa. qualcosa di vivo.



poi l'effetto si stempera in immagini già viste, già fatte, già raccontate.
l'uomo e la sua fissità nella meccanizzazione.



il finale, quello del ritorno alla percezione personale e all'"immaginazione dell'anima" dopo la perdizione nella reiterazione destrutturante del reale cittadino, non si sostiene da solo, non ha autonomia espressiva e si avvale di parole scritte in uno sfondo senza sostanza.



la Carlson si muove imprigionata nel suo gesto, creando suggestione solo nel suo iniziale fondersi con il flusso della natura, ma perdendo ogni potere di convinzione nel successivo svolgersi della narrazione.
soprattutto lei è sola. questo si percepisce, o, almeno, io percepisco.
è rimasta sola. non c'è più nessuno con lei.
e l'avvalersi della tecnologia, delle immagini su schermo, degli strumenti postmoderni di video e foto fisse ripetitive e ossessionanti, di tableau vivant, tutto questo mi dice che siamo slittati dal piano dell'arte a quello della sua rappresentazione, della sua commemorazione. la danza e la sua unicità si sono esaurite, sono già "morte" con lei, ora che tenta di perpetuarsi attraverso altro, ma altro da sè, altro dalla sua arte.
è un tentavivo di comunicare che ha abdicato. ha reso le armi alla tecnologia e ha perso l'immenso potere della sua originaria primordiale forza istintiva.
è difficile per tutti dirsi che è finita.

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