bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 23 novembre 2018

un supplemento dell'essere

La logica mercantile si faceva via via più pressante, imponeva un ritmo frenetico. I prodotti muniti di codici a barre passavano dal nastro trasportatore al carrello con un bip discreto che in un secondo faceva sparire il costo della transazione. Gli articoli di cartoleria per l’inizio della scuola comparivano sugli scaffali prima ancora che i bambini andassero in vacanza, i giocattoli di Natale all’indomani di Ognissanti, i costumi da bagno a febbraio. Il tempo delle cose ci risucchiava, ci costringeva a vivere sempre con due mesi d’anticipo. Le persone accorrevano alle «aperture straordinarie» della domenica, a quelle «prolungate» fino alle undici di sera, il primo giorno di saldi costituiva un avvenimento che rimbalzava sui media. «Fare un affare», «approfittare delle promozioni» erano principi indiscutibili, un obbligo. Il centro commerciale, con il suo ipermercato e le sue gallerie di negozi, diventava il luogo principe dell’esistenza, quello della contemplazione inesauribile degli oggetti, del godimento calmo, senza violenza, protetto da guardie giurate dai muscoli forti. I nonni vi accompagnavano i nipoti per vedere capre e galline esposte nelle loro lettiere inodori sotto la luce artificiale, attrazioni che sarebbero state rimpiazzate il giorno dopo da specialità bretoni o da collane e statuette in serie di una cosiddetta «arte africana», tutto ciò che restava della storia coloniale. Per gli adolescenti – soprattutto quelli che non potevano contare su nessun altro strumento di distinzione sociale – il valore personale era stabilito dai vestiti, dalle marche, L’Oréal perché io valgo. E noi, accigliati detrattori della società dei consumi, cedevamo alla tentazione di un paio di stivali che, come un tempo i primi occhiali da sole, la minigonna, i pantaloni a zampa d’elefante, davano la breve illusione di sentirsi una creatura nuova. Più che il possesso, era quella sensazione che le persone cercavano tra i bancali di Zara e di H&M, una sensazione procurata, immediatamente e senza sforzo, dall’acquisto delle cose: un supplemento dell’essere. 

E non invecchiavamo. Nessuna delle cose che avevamo attorno durava abbastanza per diventare vecchia, sostituita in fretta e furia dal modello più recente. La memoria non aveva il tempo di associare gli oggetti a delle fasi dell’esistenza. 

Di tutte le novità il «telefono cellulare» era la più miracolosa, la più sconcertante. Non avremmo mai immaginato che un giorno ci saremmo trovati a passeggiare con un telefono in tasca e a fare chiamate in qualunque posto e in qualunque momento. Ci faceva specie che le persone parlassero da sole per la strada, con il telefono all’orecchio. La prima volta che dalla borsa sentivamo squillare la suoneria mentre ci trovavamo su un treno, in metropolitana, o alla cassa di un supermercato, sobbalzavamo, cercavamo febbrilmente il tastino verde con una specie di vergogna, di disagio, il nostro corpo di colpo portato al centro dell’attenzione degli altri, e rispondevamo pronto, sì, e altre parole non destinate a chi ci stava attorno. D’altro canto, quando di fianco a noi si alzava la voce di uno sconosciuto che rispondeva a una chiamata, ci infastidiva essere schiavi di qualcuno che considerava nulla la nostra esistenza e ci infliggeva l’insignificanza del quotidiano, la banalità di preoccupazioni e desideri che fino ad allora erano rimasti confinati nelle cabine telefoniche o negli appartamenti. 

Il vero coraggio tecnologico consisteva nel tentare di «capirci qualcosa» di computer, chi ci trafficava godeva di un’intelligenza diversa, nuova, di un accesso di grado superiore alla modernità. Si trattava di un oggetto imperioso che esigeva riflessi rapidi, gesti della mano di una precisione inusuale, e proponeva in un inglese incomprensibile tutta una serie di «opzioni» tra le quali bisognava scegliere senza indugi – un oggetto implacabile e malefico che ci nascondeva, andandola ad archiviare nei suoi anfratti più reconditi, la lettera che avevamo appena scritto e ci faceva sentire costantemente persi, spaesati. Un oggetto che umiliava. Contro il quale ci si esasperava, «e adesso cosa gli prende?!». Di quello smarrimento ce ne si sarebbe presto dimenticati. Compravamo un modem per avere internet e un indirizzo di posta elettronica, ammirati e stupiti di poter «navigare» in tutto il mondo su AltaVista. C’era nei nuovi oggetti una violenza nei confronti del corpo e dello spirito che l’uso cancellava in fretta. Diventavano leggeri. (Come al solito i bambini e gli adolescenti li utilizzavano senza esitazioni, con facilità.) La macchina da scrivere, il suo ticchettio e i suoi accessori, il bianchetto, i trasferibili e la carta carbone ci sembravano ormai appartenere a un’epoca lontana, impensabile. Eppure, nel tornare con la mente a qualche anno prima, quando ci ripensavamo in un bar nell’atto di chiamare chicchessia dal telefono di fianco alla toilette, di scrivere una lettera a P. battendola su un’Olivetti, dovevamo riconoscere che l’assenza del cellulare e della mail non avevano alcun peso sulla felicità o sulla sofferenza.


nessun peso sulla felicità o sofferenza.
questo è un pensiero lucido. ma forse è già sorpassato.
questi oggetti, questi strumenti del Game come lo definisce Baricco, sono fattori cruciali delle nostre giornate, e sono loro, ormai, la nostra memoria. sono loro a definire i nostri Anni, oggi. 
gli oggetti sono, esistono, al posto nostro.
anche se io, come Annie Ernaux, credo in altro. io sono fuori dal Game.

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