bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 24 novembre 2014

la frontiera del giornalismo

L’ultima frontiera del narcisismo beota

di Claudio Magris

IL COMMENTO 
Tempi senza gloria per i detectives, gli investigatori che scoprivano, con pazienti ricerche e sottilissime deduzioni, gli autori dei delitti più efferati, anche quando avevano abilmente celato ogni traccia ed eliminato ogni indizio. Oggi invece un’infermiera sospettata di aver assassinato 38 pazienti in un ospedale romagnolo si fa fotografare ridente con il telefonino accanto al cadavere di una degente, consegnando all’eternità e agli inquirenti una ebete infamia. Immagine perfetta dell’imbecillità oltre che dell’atrocità del male. Il male non è solo crudele; è stupido, «una banale medusa» scriveva Joseph Roth, prendendo a schiaffi gli spiriti gregari affascinati dalla trasgressione ed eccitati dai divieti, magari pure dal divieto di gettare immondizie dai finestrini dei treni. Non occorre commentare la mostruosità del fatto.

 Quella donna che si fa fotografare è un esempio estremo di quel narcisismo beota che sembra diffondersi sempre più, sia fra i delinquenti - gli stupratori che si eternizzano mentre compiono il loro delitto - sia fra gli ipodotati innocui, che sentono il bisogno di comunicare sulla rete a conoscenti e sconosciuti che cos’hanno mangiato la sera prima, chi hanno aiutato per strada, quale maglietta hanno acquistato. Trionfa l’aspirazione a un’eternità da cesso, una paradossale democratizzazione del culto della personalità; ognuno vuole che si sappia tutto di lui o di lei, come il Capo Carismatico vuole che si sappia quando prende in braccio per trenta secondi un bambino. Ognuno è in adorazione delle proprie esternazioni e secrezioni, chiede l’eternità per il proprio calzino e per il numero di cucchiaini di zucchero che mette nel caffè. Cani, diceva Federico II ai suoi soldati che fuggivano, volete vivere in eterno?

23 novembre 2014 | 08:40
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ah però, Claudio Magris, che commento, no? tagliente, sarcastico e, sopratutto, definitivo.
quando l'ho letto ieri sul giornale sono rimasta molto colpita dal testo, dalle parole, dal giudizio.
sono andata a sentirlo a BookCity, l'ho ascoltato parlare delle diversificazioni dell'espressione letteraria, ovvero, in pratica, della sua esperienza, in qualità di scrittore, come giornalista. ha iniziato giovanissimo, a 17 anni, sul Messaggero Veneto, ma attualmente, e da anni ormai, scrive sul Corriere della Sera.
ed eccolo qui. 
ciò che ascoltato da lui, lo devo dire, in quella lezione non corrisponde a quel che ho letto sul giornale e riportato qui.
intendiamoci, sono molto in linea sull'osservazione di fondo, o meglio di sottofondo, dell'articolo, la denuncia di una comunicazione urgente e immediata, per lo più senza senso se non, in questo caso, mostruosamente immorale e oscena, che vorrebbe eternizzare il momento ma, siccome è volta ad ogni singolo momento, non solo non eternizza proprio niente ma squalifica proprio tutto. una mercificazione di ogni atto, una pornografia diffusa, anzi pervasiva, inarrestabile, inquinante, nauseabonda, rivoltante. anche senza il cadavere sullo sfondo. 
a dirla tutta quel che si vede in quell'immagine dell'infermiera con aria esultante, di una gioia quasi infantile, ritratta vicino al cadavere di un'anziana signora (presunto cadavere si legge sull'articolo del collega del Corriere che riporta la notizia, ancora si stanno facendo delle indagini) è l'esatta concretizzazione, la precisa corrispondenza in un'immagine di quel che si produce con selfie ininterrotti, come orgasmi multipli, e commenti postati ovunque, disponibili a chiunque e volutamente a cani e porci, è esattamente il tentativo annaspante di nullificare l'inevitabile morte ma, inconsapevolmente, facendo della morte, del godimento mortifero, il vero unico compagno, sostenitore, e ispiratore di questi atti sconsiderati e ripetuti all'infinito, senza mai reale piacere né soddisfazione. una foto in allegra compagnia della morte, ed ecco il nostro tempo immortalato per i posteri.
ma, come dire, da un favoloso scrittore e saggista, nonché giornalista, come Claudio Magris, che mi ha insegnato, in quella lezione, che giornalismo significa immergere le parole nello sporco per mantenerle pulite, fonte creativa che deve saper resistere al tempo facendosi verità nel tempo, riflessione nell'atto di scrivere, ascolto, caritatevole, degli altri, non mi aspettavo un'intrattenuta veemenza di questa portata.
la nostra infermiera non la immagino malata di narcisismo beota ma di perversione che si nutre dell'ultimo respiro. la faccia esultante è data dal godimento infantile della somministrazione della morte, come medicina senza scampo di una vita malata, prima di tutto la sua. il male si dimostra ancora una volta banale, come diceva la Arendt, nasce da una quotidianità senza senso, che necessita, anche ma mi sembra il minore dei mali, di una divulgazione virtuale. ma qui non siamo malati del comandamento odierno della condivisione imperativa del colore delle mutande, qui siamo ben oltre, siamo nell'abisso dell'angoscia che nell'esalazione del cadavere trova il suo naufragio e anche il suo sostentamento. 
non siamo nella democratizzazione del culto della personalità (frase buona per berlusconi e casi affini), qui siamo nell'immondizia della perdita di senso, nella disancora dal senso, nella convulsione che scardina la tenuta della legge e del desiderio. siamo nel vuoto simbolico. 
inoltre siamo ancora nel regno delle ipotesi, ci sono ancora indagini in corso, siamo ancora nel dubbio e nella domanda. io scrivo su un blog del piffero, Magris sul Corriere della Sera, credo davvero che l'asprezza del commento, anche un po' fuori tema, andava pensato e ripensato e riflettuto e maturato, francamente, di più, rimandando l'urgenza dell'indignazione. credo. 

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