bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

domenica 21 aprile 2013

l'Ingravallo pensiero

a me, il pensiero molisano di Ingravallo, don Ciccio, l'investigatore di Gadda nel Pasticciaccio brutto de via Merulana, a me...me piace.
don Ciccio è brutale, schietto, cupo, viscerale. nero.  intelligente e intuitivo.
la Liliana è morta, morta ammazzata, e male anche, sgozzata con un coltello da parte a parte, un taglio che le ha mozzato a metà il collo...una scena...una violenza. e perchè mai? don ciccio indaga, in molisano, indaga e cerca indizi. Liliana aveva un pensiero fisso, una psicosi come dice nel testo. non aveva avuto figli dal marito, lei bella e ricca, lei nata per essere madre, lei fertile, lei tutto...frustrata a morte, proprio a morte?, nel suo unico desiderio: la maternità. ma guarda, una ha tutto quel che la vita può dare, ma è sempre una cosa che manca, sempre quella che non si ha. ma guarda..."di che è mancanza questa mancanza, cuore, che ha un tratto ne sei pieno?" scrive Luzi.
bene,il mio don Ciccio, tosto e scuro come sempre, ci pensa su, ci pensa a sta cosa della mancanza, a sta cosa della fertilità, a sta cosa del pensiero gamico, a sta cosa della donna e dell'uomo, a sta cosa del senso dell'unione fertile, a sta roba della fissazione che aliena, che fa impazzire, che fa morire...e quante di queste follie ci sono in giro, per il mondo, e a casa propria...

Ingravallo pensava: pensò perfino che il Natale, che il Presepe, che la Befana... coi loro bimbi, con le loro strenne, coi magi... con quella raggera di fili d’oro sotto al Bambino...paglia al presepe, luce della divina scaturigine... potessero aver addensato, come in un nembo mentale, certe fissazioni malinconiche della signora: 12 gennaio. La povera testatrice [Liliana ha lasciato un testamento olografo], in quel punto, non doveva avere tutti i sentimenti a posto. Mannaggja: eppure...eppure aveva mantenuto le disposizioni prese: nulla aveva mutato, nemmeno in seguito, in febbraio, in marzo: nemmeno una sillaba. Perciò anzi aveva affidato il testamento a don Corpi, raccomandandogli di «nasconderlo e dimenticarlo».
Formula enigmatica: già chiara a don Ciccio, però: dimenticarlo quanto la durata di sua vita, come bramasse di vedere sepolto al più presto quel turpe elenco di averi: quelli che soltanto nell’ultimo smarrimento di sé le era conceduto di disperdere: quelli che la riconducevano a ogni nuovo giorno verso gli obblighi e verso le ragioni inani del vivere, mentre già l’anima tendeva a una sorta di espatrio (la cara anima!) dal paese inutile verso matemi silenzi. La città e le genti avrebbero conosciuto il futuro. Lei, Liliana...
Oblioso dei banchi e dei gridi, con brevi ali di opale, nell’ora dolce, quando ogni commiato è necessario e ogni già tepido muro trascolora nella notte, Ermes apparitole nella sua vera essenza avrebbe alfine risguardato alle porte, con tacito imperio: quelle da cui ci si parte, alfine, fabulando popolo ad urbe, a discendere, discendere, in una più perdonabile vanità. «Evasi, effugi: spes et fortuna valete: nil mihi vobiscum est: ludificate alios:» al museo lateranense: un sarcofago: Liliana aveva ritenuto chella frase: lo aveva pregato di tradurla. Quel dare, quel regalare, quel dividere altrui! pensò Ingravallo: operazioni, a suo modo di vedere, tanto disgiunte dalla carnalità e in conseguenza dalla psiche della donna (femminuccia, credeva lui di certuna, borghesuccia) che tende viceversa a introitare: a elicitare il dono: a cumulare: a serbare per sé o per i figli, bianchi o neri, o caffelatte: o comunque a sciupare e a dissolvere senz’altrui donare, mandando a fumo centomila carte nel culto di sé, del proprio collo, del proprio naso, dei lobi o dei labbri, mai però e don Ciccio si accaniva, in una maniera di prestatuito delirio mai però in onore delle concorrenti: e tanto meno delle rivali più giovani.
Quel buttare, quel dissipare come petali al vento o come fiori nel ruscello tutte le cose che più contano, le più tenute a chiave, le lenzuola! contrariamente alle leggi del cuore umano che, se regala, o regala a parole, o regala il non suo, finirono di rivelargli, a don Ciccio, l’alterazione sentimentale della vittima: la psicosi tipica delle insoddisfatte, o delle umiliate nell’anima: quasi, proprio, una dissociazione di natura panica, una tendenza al caos: cioè una brama di riprincipiar da capo: dal primo possibile: un «rientro nell’indistinto». In quanto l’indistinto soltanto, l’Abisso, o Tenebra, può ridischiudere alla catena delle determinazioni una nuova ascesi: la rinnovata sua forma, la rinnovata fortuna. Valevano ancora a Liliana, era pur vero, le potenti inibitive e, più, le coibitive della Fede: gli enunciati formali della dottrina: il simbolo operava come luce, come certezza.
Irradiata nell’anima. così rimuginava Ingravallo. I dodici lemmi avevano avuto per effetto di incanalare la di lei psicosi verso l’imbuto di un testamento olografo perfettamente legale. Il bilancio della morte era chiuso al centesimo. Al di là del confessore, e notaro, i limpidi spazi della Misericordia. O, per altri, l’ignota libertà del non essere, gli evi liberi.
La personalità femminile brontolò mentalmente Ingravallo quasi predicando a se stesso che vvulive dì?... ‘a personalità femminile, tipicamente centrogravitata sugli ovarii, in tanto si distingue dalla maschile, in quanto l’attività stessa della corteccia, int’ ‘o cervello d’ ‘a femmena, si manifesta in un apprendimento, e in un rifacimento, d’ ‘o ragionamento dell’elemento maschile, si putimme chiamarle ragionamente, o addirittura in una riedizione ecolalica delle parole messe in circolo dall’uomo ch’essa ci ha rispetto: da ‘o professore, da ‘o commendatore, da ‘o dottore de ‘e femmene, da l’avvucate ‘e lusso, o da chillo fetente d’ ‘o balcone ‘e palazzo Chigge. La moralità individualità della donna si rivolge per addensamenti e per coaguli affettivi al marito, o al facente funzione, e dai labbri dell’idolo dispiccica l’oracolo quotidiano della sottintesa ammonizione: ché uomo non è, che non si senta Apollo nel sacello delfico. La qualità eminentemente ecolalica della di lei anima (il concilio di Magonza, nel 589, le concesse un’anima: a un voto di maggioranza) la induce a soavemente farfallare d’attorno al perno del coniugio: plastile cera, chiede dal sigillo l’impronta: al marito il verbo e l’affetto, l’ethos e il pathos.
Donde, cioè dal marito, il lento e greve maturare, il discendere doglioso dei figli. Mancandole i figli, sentenziò Ingravallo, il marito cinquantottenne decade senza suo demerito a buon amico ma di gesso, a ornamento piacevole della casa, a delegato e segretario generale della confederazione dei sopramòbili, a mera immagine ovvero cioè manichino di marito: e l’uomo in genere (nel di lei apprendimento inconscio) è degradato a pupazzo: un animale infruttifero, con un testone finto da carnevale. Un arnese che non serve: uno sdipanato succhiello.
È allora che la povera creatura si dissolve, come fiore o corolla, già vivida, che renda al vento i suoi petali. L’anima dolce e stanca vola verso la crocerossa, nell’inconscio «abbandona il marito»: e forse abbandona ogni uomo in quanto elemento gamico. La personalità di lei, strutturalmente invida al maschio e solo racchetata della prole, quando la prole manchi accede a una sorta di disperata gelosia, e, nel contempo, di sforzata “sympatia” sororale nei confronti delle cosessuate.
Accede, potrebbe credersi, a una forma di omoerotia sublimata: cioè a una paternità metafisica. La dimenticata da Dio, e Ingravallo smaniava oramai di dolore, di rancura accarezza e bacia nel sogno il ventre fecondo delle consorelle. Guarda tra i fiori de’ giardini i bambini delle altre: e piange. Si rivolge alle monache e agli orfanatrofi pur di avere la «sua» creatura, pur di «fare» anche lei il suo bambino. Intanto gli anni chiamano, dalla lor buia caverna. 
La carità educatrice, d’anno in anno, ha surrogato la fiala soave dell’amore.

2 commenti:

monteamaro ha detto...

Non sapevo che il personaggio Ingravallo, fosse di origine Molisana, scusa ma la cosa mi inorgoglisce. Del "Pasticciaccio" vidi il film col grandissimo Pietro Germi, ne è passato di tempo ma lo ricordo bene. Fotografia fedele di quegli anni: Povertà, questurini quasi a misura d'uomo se pensiamo agli uomini in divisa dei nostri giorni, miseria estrema in sacche di benessere, e la voglia di uscirne fuori ad ogni costo. Che dirti, come sempre grazie del tuo "scavare!"

Rossa ha detto...

devi ascoltarlo questo audiolibro, devi devi devi, ti piacerà. molisano e di saldissimi principi, il nostro Ingravallo.