ha ragione Rofrano (http://maxrofrano.blogspot.com/2011/03/tchaikovsky-in-monastero.html), è diversa la traduzione italiana dall'originale francese.
ma andrebbe rispettata.
des hommes e dex dieu. di uomini e di dei.
in questo film sono molti gli dei, quello cristiano, quello musulmano e gli dei della spada e della morte.
i musulmani del villaggio dividono il loro cibo con i monaci, questi leggono e citano il corano e partecipanno attivamente alla vita della comunità. persino un fondamentalista islamico minaccioso, con turbante e seguaci aggressivi, si placa dopo un' irruzione al monastero, quando il priore chiama gesù con il nome Isa ibn Maria, l'appellativo che gli spetta con reverenza nella tradizione coranica. gli dei della morte sono fino all'ultimo dietro le nuvole e alla fine dietro la nebbia si perderanno, ma sembrano, per un attimo, condividere il rispetto della diversità quando la diversità non giudica ma condivide l'esperienza della fede.
traduzione italiana: uomini di dio.
“Gli uomini non fanno mai male, così completamente e allegramente- dice Luc, il frate medico della comunità- come quando lo fanno per convinzione religiosa”, citando Pascal.
questi uomini, cristiani cistercensi in nome delle fede possono andare ben oltre la loro stessa natura. quello che ho visto io e’ che gli uomini di dio hanno paura. e anche senza bisogno delle scene che lo esplicitano, questo sentimento si coglie, molto bene, in molti di loro. ho sempre pensato che la fede consenta di andare oltre la paura della morte che, poi, io credo, sia il punto nodale della vita di tutti noi, paradossalmente, forse. ogni percorso analitico finisce per andare dritto su questo punto, l’angoscia di morte, la pulsione di morte, la paura della morte. gli uomini di dio hanno paura. ne parlano tra loro, ne parlano con il priore, ne parlano. hanno paura ma restano. in questa piccola comunita’ che racchiude in se’ tutti gli elementi di qualsiasi convivenza, la forza della coesione, in nome della fede o dell’amore o dell’amicizia o del senso civico umanitario o della condivisione democratica di ruoli diritti e doveri, qualcosa, consente di superare la paura e di restare. tutto, come dice Rofrano, dice nel film che quella e’ la meta, tutto nel discorso dell’analisi, dice che quello è il luogo del parlare. tutto dirige verso quel punto, il punto del non senso. vedo questa storia come la storia di un’analisi, di un discorso sulla paura e della motivazione a restare oltre se stessi e i propri limiti. è l'immanenza che conduce alla trascendenza, senza la superbia del martirio, con la consapevolezza di non avere altra scelta se non quella dell'aderenza al proprio credo quotidiano.
la scena della musica, del lago dei cigni a sottofondo dell'ultima cena, non e’ la mia preferita. rispetto al pudore dei sentimenti, e all’umilta’, al decoro e al garbo delle emozioni, questa scena e’ quasi scomposta. l’irruenza di una musica cosi’ spudoratamente romantica e irresistibilmente sentimentale come si giustifica in un mondo di microspostamenti dell’anima, di contenimento di ogni eccesso, di giustificazione di ogni esistenza, anche la piu’ violenta? la mia scena preferita e’ l’ultima. accompagnata dalla lettera di testamento morale e civile del priore, di accoglimento delle differenze, di compenetrazione delle fedi e di accettazione dell’ineluttabile, la scena si sposta dalle fotografie del monastero dell’Atlante –luogo di incommensurabile bellezza, almeno questo l’ho visto di persona- ormai abbandonato e abitato e invaso solo dalla neve e dal vuoto dell’assenza del canto liturgico, al cammino lento faticoso asmatico e inesorabile verso un punto lontano. tutti camminano sotto le neve, immersi dalla neve, ammutoliti dalla neve, uomini di dio, uomini cristiani e uomini musulmani, verso un punto indefinito ma centrato fissato fino all’ultimo, fino alla scomparsa di ogni elemento umano, fino alla permanenza dell’unico elemento di continuita’ della vita, l’amore e il suo indelebile ricordo.
Grazie Rofrano.