bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

domenica 20 marzo 2011

di uomini e di dei


ha ragione Rofrano (http://maxrofrano.blogspot.com/2011/03/tchaikovsky-in-monastero.html), è diversa la traduzione italiana dall'originale francese.
ma andrebbe rispettata.
des hommes e dex dieu. di uomini e di dei.
in questo film sono molti gli dei, quello cristiano, quello musulmano e gli dei della spada e della morte.
i musulmani del villaggio dividono il loro cibo con i monaci, questi leggono e citano il corano e partecipanno attivamente alla vita della comunità. persino un fondamentalista islamico minaccioso, con turbante e seguaci aggressivi, si placa dopo un' irruzione al monastero, quando il priore chiama gesù con il nome Isa ibn Maria, l'appellativo che gli spetta con reverenza nella tradizione coranica. gli dei della morte sono fino all'ultimo dietro le nuvole e alla fine dietro la nebbia si perderanno, ma sembrano, per un attimo, condividere il rispetto della diversità quando la diversità non giudica ma condivide l'esperienza della fede.
traduzione italiana: uomini di dio.
 “Gli uomini non fanno mai male, così completamente e allegramente- dice Luc, il frate medico della comunità- come quando lo fanno per convinzione religiosa”, citando Pascal.
questi uomini, cristiani cistercensi in nome delle fede possono andare ben oltre la loro stessa natura. quello che ho visto io e’ che gli uomini di dio hanno paura. e anche senza bisogno delle scene che lo esplicitano, questo sentimento si coglie, molto bene, in molti di loro. ho sempre pensato che la fede consenta di andare oltre la paura della morte che, poi, io credo, sia il punto nodale della vita di tutti noi, paradossalmente, forse. ogni percorso analitico finisce per andare dritto su questo punto, l’angoscia di morte, la pulsione di morte, la paura della morte. gli uomini di dio hanno paura. ne parlano tra loro, ne parlano con il priore, ne parlano. hanno paura ma restano. in questa piccola comunita’ che racchiude in se’ tutti gli elementi di qualsiasi convivenza, la forza della coesione, in nome della fede o dell’amore o dell’amicizia o del senso civico umanitario  o della condivisione democratica di ruoli diritti e doveri, qualcosa, consente di superare la paura e di restare. tutto, come dice Rofrano, dice nel film che quella e’ la meta, tutto nel discorso dell’analisi, dice che quello è il luogo del parlare. tutto dirige verso quel punto, il punto del non senso. vedo questa storia come la storia di un’analisi, di un discorso sulla paura e della motivazione a restare oltre se stessi e i propri limiti. è l'immanenza che conduce alla trascendenza, senza la superbia del martirio, con la consapevolezza di non avere altra scelta se non quella dell'aderenza al proprio credo quotidiano.
la scena della musica, del lago dei cigni a sottofondo dell'ultima cena, non e’ la mia preferita. rispetto al pudore dei sentimenti, e all’umilta’, al decoro e al garbo delle emozioni, questa scena e’ quasi scomposta. l’irruenza di una musica cosi’ spudoratamente romantica e irresistibilmente sentimentale come si giustifica in un mondo di microspostamenti dell’anima, di contenimento di ogni eccesso, di giustificazione di ogni esistenza, anche la piu’ violenta? la mia scena preferita e’ l’ultima. accompagnata dalla lettera di testamento morale e civile del priore, di accoglimento delle differenze, di compenetrazione delle fedi e di accettazione dell’ineluttabile, la scena si sposta dalle fotografie del monastero dell’Atlante –luogo di incommensurabile bellezza, almeno questo l’ho visto di persona- ormai abbandonato e abitato e invaso solo dalla neve e dal vuoto dell’assenza del canto liturgico, al cammino lento faticoso asmatico e inesorabile verso un punto lontano. tutti camminano sotto le neve, immersi dalla neve, ammutoliti dalla neve, uomini di dio, uomini cristiani e uomini musulmani, verso un punto indefinito ma centrato fissato fino all’ultimo, fino alla scomparsa di ogni elemento umano, fino alla permanenza dell’unico elemento di continuita’ della vita, l’amore e il suo indelebile ricordo.

Grazie Rofrano.

giovedì 17 marzo 2011

Croma - VERDE

il verde evoca la natura, la campagna, l'ecologia. ma pare non sia sempre stato cosi', prima del settecento la natura non veniva definita come vegetazione ma come l'insieme di quattro elementi: aria, terra, acqua e fuoco. per questo la natura possedeva quattro colori, il bianco dell'aria, il nero della terra, il verde dell'acqua e il rosso del fuoco. quindi il verde della natura si confondeva tra gli altri, apparteneva all'acqua, percepita come verde per millenni. poi, straordinariamente, l'acqua e' diventata blu.
l'aspetto piu' interessante del verde e' la difficolta' di reperire in natura i coloranti verdi. allora l'uomo, per tingere o pitturare di verde, si e' adoperarato nella mescolanza di due colori, il blu e il giallo. il colore della natura, in natura, non si trova.
le difficolta' per creare il verde, e ancor piu' per fissarlo, spiegano perche' questo colore e' stato spesso attribuito, sul piano simbolico, a cio' che e' mutevole: la gioventu', la fortuna, l'amore, la speranza, il gioco, il caso e anche i soldi.
verde e' mancanza di stabilita'. e, a me, non piace, ma queste fotografie si anche se alcune di quelle che avrei voluto postare non le ho trovate...

 Paulo Whitaker
 Harry Gruyaert
 Steve McCurry
 Steve McCurry
 Paolo Pellegrin

per me il verde e' un colore esterno, ambientale, non mi appartiene, non lo vesto e non lo sogno.
di verde io ricordo il raggio, da un film di Eric Rohmer che mi colpi' molto, molti anni fa.

 Il raggio verde
di Lucio Piccolo
Da torri e balconi protesi
incontro alle brezze vedemmo
l'ultimo sguardo del sole
farsi cristallo marino
d'abissi... poi venne la notte
sfiorarono immense ali
di farfalle: senso dell'ombra.
Ma il raggio che sembrò perduto
nel turbinio della terra
accese di verde il profondo
di noi dove canta perenne
una favola, fu voce
che sentimmo nei giorni, fiorì
di selve tremanti il mattino.

martedì 15 marzo 2011

Mart, Modigliani e Mountains…e Molte Parole

 
“Quasi tutte le parole scritte, dette, ascoltate, udite per caso dal 1989. ”
Douglas Gordon.
parole scritte ovunque. mi piace da matti questa cosa, ma proprio tanto.
sali per le scale di questo luogo d’arte contemporanea chiamato MART (Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto), strutturalmente interessante, culturalmente densissimo, e leggi.
parole e frasi, testi murali in caratteri tipografici bembo, futura bold, palatino, times italic, lunghezze e colori diversi.
sono attraenti questi richiami al discorso della vita.
“So cosa vuoi”
“C’è qualcosa che dovresti sapere”
“Sei cambiato”
“Andra’ tutto bene”
“Apri la bocca, chiudi gli occhi”
“Ogni volta che mi pensi, muori un poco”
“Ho scoperto la verita'”
“Ti perdono”
“Le cose semplici che vedi sono tutte complicate”
“Tu ricordi piu’ di quello che io so”
a volte la frasi sono d'angolo, iniziano su un lato, finisco sull'altro. quante frasi nella vita, sono costruite sugli spigoli!?
era da tempo che volevo venire in questo posto, ci sono passata rientrando a Milano.
 
ho visto le sculture di Modigliani e sono rimasta fredda come le facce tribali delle sue donne. dopo la potenza espressiva di Rodin, che ho appena avuto la fortuna di vedere a  Legnano, capisco la differenza tra il desiderio di penetrare la mente con un oggetto il cui movimento sfonda il tempo e lo spazio e la costruzione di un oggetto puramente plastico, architettonico, isolato nell’ossessione di un artista, come Modigliani, appunto.
questi volti sono divinizzati, niente di umano, sono maschere primitive.

ho visto il Dolomites Project di Olivo Barbieri e sono uscita calda come le sue fotografie. queste immagini delle dolomiti sono incandescenti. bruciano. mi danno un senso di vertigine, solitudine e potenza. accanto alla mostra fotografica gira un video, con un rumore continuo di sottofondo, un rumore inquietante, di silenzio e di vuoto che rimbomba nell’universo.
sono uscita ipnotizzata, barcollando, piccola piccola.
e' onnipotente la natura, e spesso torna a ricordarcelo.

domenica 13 marzo 2011

cortecce

Cavalese.
Cermis.
Trentino.
in un bosco di betulle. 10 marzo 2011.



giovedì 10 marzo 2011

notte appesa


c’è quella falce di luna.
è lì che mi guarda o forse mi guida.
appesa nel cielo. e sotto, una stella, penso venere, appesa alla falce di luna.
temo si sia tutti appesi l’uno all’altro. come quella falce e la sua piccola venere appesi nel buio crepuscolare del cielo, in questa nottata senza senso.
guido in automatico, autostrada, torno a milano, nella voragine.
nessuno può intuire il peso che ha per me questo rientro.
si lo so, sono nel rientro verso l’affermazione, sono nella terapia del mio io, sono nella ricerca del mio consenso. non dove non lo trovo, altrove, come molti mi insegnano.
sono nel giusto, e nel doveroso, nel rientrare a milano questa notte. lo so.
è “solo” l’interruzione di una breve vacanza, ma, da questo punto di vista, quella della ricerca del desiderio, e della fatica dell’assegnazione di senso, sono sempre stata in vacanza. e questa interruzione, un concorso durante le mie ferie, ha un valore simbolico. c’è qualcosa che non ce l’abbia?
però io sento un male, sento che mi hanno strappata, che se per una settimana frammento una  dimensione che mi impoverisce tornarci è un soffocamento. come sempre sono divisa, come sempre se devo sostenere una domanda devo rinunciare a una risposta.
lascio la montagna ed entro in autostrada, sono già stanca dopo solo mezz’ora. coda. vicino a bergamo segnalazioni dicono: attenzione fumo in carreggiata. un camioncino va a fuoco, un rogo impressionante, passo vicino e sento un’ondata di calore dentro l’abitacolo dell’auto, anche solo procedendo così distante e così veloce. sono turbata da questo rogo, a lato, nel nulla. sono io, io che sono in guerra, io che torno a milano, al mio dovere, io che mi consolo dei miei insuccessi, io che torno vicino a chi non mi ama, sono io che vado a fuoco.
lo so, nessuno lo capisce quanto mi costi questa notte di non senso.
sbaglio uscita e ci metto mezz’ora in più a tornare a casa. sono quasi le 21, odio guidare con il buio.
cerco distrazioni, scrivo, di creature di neve, poi studio. poi dormo, male, e mi sveglio, presto.
cerco distrazioni, faccio colazione e cerco poesie della merini, e studio ancora.
ma a un certo punto le distrazioni non funzionano più. le distrazioni non fermano il tempo, non lo allungano, solo lo ingannano. vado, e sono agitata, emozionata. ogni prova per me è un incendio, come il camioncino di ieri sera.
fiamme di emozioni batticuore incertezze e dubbi. non avrò mai la pace dei giusti.
com'è andato l'esame? non lo so, certo un vero e proprio esame, mica un colloquio informativo.
prima di entrare penso di andarmene. è un attimo no?
anche ieri sera guidando pensavo che uscire di strada, fuori, o contro un guard rail, andare in fumo, è un attimo.
veramente un attimo.
ho parlato concitata, solo verso la fine ero io. alla fine ero io, al meglio di me, propositiva e interlocutoria.
ma solo dopo.
io dopo. arrivo sempre dopo, in tutto, sempre dopo l’incendio, prima ci si brucia, prima mi ustiono.

lunedì 7 marzo 2011

creature di neve


intanto, per cominciare, l'orizzonte e' netto. bianco della neve, blu del cielo.
colori vividi. il blu e' blu, non la variante anemica e comatosa di milano.
blu. e non sfuma nel grigio, grigio smog, grigio asfissia.
la linea di demarcazione e' indubitabile. un orizzonte senza indugi.
e tra queste due liberta' di colore svettano gli alberi. verdi. brillanti di verde.
quasi vedessi la luce e le sue rifrazioni oggi per la prima volta.
lungo la via del bosco, cosi' chiamano questa pista del cermis che attraversa per intero un bosco innevato, leggo, in numerose postazioni con cartelli che lo descrivono, che gli alberi sono le colonne del mondo. quando verranno distrutti tutti, il cielo ci franera' addosso.
la definizione mi piace, e' pulsante di vita e saggezza, e osservo questi pilastri viventi con riconoscenza.


piano mi addentro con gli sci e piano entro in una storia, in un racconto, davvero inaspettato.
la luce si infiltra tra gli alberi, la giornata e' spettacolare, una luce e un sole caldi che rendono la relta' inconfutabile.
ma nel bosco la luce filtra soltanto, si insinua dove puo', e la realta' si sfuma anch'essa, si popola di nuove creature che non appartengono alla sfera del reale.
mi fermo attratta dai giochi di luce e mi accorgo che nevica. lo dico: ma qui nevica!!
il bosco, gli alberi, i rami sono carichi di neve e il vento muovendo le fronde lascia cadere la neve come nevicasse. all'inizio la sensazione e' solo fisica, epidermica, la sento cadere addosso, ma poi la vedo.

in ogni fenditura di luce la neve brilla, si anima, si intensifica, svanisce e ricompare in infinite gocce dense di gelo, e' viva. nevica ma di una neve che non ho mai visto, una neve invisibile che si mostra solo attraverso le creazioni giocose della luce. che sia una magia?
guardo oltre, verso gli alberi piu' avanti di qualche metro, e la luce e il vento costruiscono un altro incantesimo. dagli alberi mossi dal vento si staccano figure di neve, creature dalle forme molteplici, lunghe, sinuose, morbide e veloci. assumono la forma che l'albero imprime loro nel momento in cui si staccano e poi avanzano danzando modellate della spinta del vento. sono una due, dieci...il bosco si muove e cammina, viene verso di me, me che ho la fortuna di trovarmi qui in questo momento.
sono in una fiaba del silenzio e del ghiaccio, sono in un incanto, una malia della regina delle nevi che mi ipnotizza con le sue divinazioni e travestimenti di bagliori e freddo.
e come le credo, con infinita devozione, se non ci credessi non avrei piu' speranza.




giovedì 3 marzo 2011

riconoscimento

è possibile, è proprio successo, che un'osteopata, solo toccando e osservando il mio corpo abbia capito che l'origine del mio malessere e della mia spalla dolente e drammaticamente malfunzionante sia il mancato riconoscimento.
riconoscimento non è una parola scontata, non è una descrizione popolare o una motivazione inflazionata. non è un luogo comune non è un'intuizione scontata.
chi dice riconoscimento sa quello che dice, non può esser un caso, una coincidenza.
all'osservazione, diretta sul mio corpo, delle mie contrazioni e risonanze durante il colloquio l'ostepata ha individuato la mia malinconia e poi scartato una serie di ipotesi possibili. aiutata da me a individuare nel lavoro e nelle relazioni iterpersonali i fattori di scardinamento del mio umore, non si è accontentata.
non è il lavoro in sè, mi dice, non è così semplice. il lavoro le piace, il lavoro è passione, il problema è il riconoscimento.
poichè ci sono anni di psicoterapia alle spalle durante i quali su questo tema ho già dato l'anima, è piuttosto sconcertante che tutto questo dolore si possa leggere sul mio corpo palpandolo e analizzando la natura della mia contrattura patologica di collo e spalle.
il problema non è solo sul lavoro, le dico, si riflette anche più incisivamente nelle relazioni con gli alttri. e molto è già stato filtrato e scorporato e anche depurato dal dolore. ma molto ancora rimane. e lo porto addosso. lo porto simbolicamente -banalmente direi- sulle spalle.
prima si concentra sull'analisi della mia postura, postura da medico e soprattutto da psichiatra. la mia parte destra è tutta anteroversa, la spalla guida la scrittura, e io scrivo moltissimo, a mano. mentre parlo avverte un affaticamento, ed è vero anche questo, parlare mi stanca moltissimo, mi sfianca e mi sfiata, soprattutto quando parlo per lavoro. mentre parlo le spalle si contraggono e si fanno carico. e anche mentre ascolto, sono in tensione verso l'altro.
poi si sposta sulla valutazione della mia reazione al mancato riconoscimento, che, fisicamente, si traduce in contrattura e dolore.
prima la descrive infantile. punto i piedi come i bambini per avere quello che non si può avere. no dai, non nel lavoro.
poi mi definisce presuntuosa. no dai, non nel lavoro, anzi, sono fin troppo umile.
infine decreta che il riconoscimento lo vivo come dovuto.
lasci stare mi dice, bisogna cambiare strada per avere ciò di cui ha bisogno.
vero. bisogna cambiare strada, nel lavoro e con gli altri, non si può avere ciò che non viene riconosciuto,  anche se è dovuto.

intanto la spalla mi fa male, come sempre, come dovuto.