bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 21 aprile 2014

Vivian Maier: 100.000 foto

in certe inquadrature del film sembra un uomo.
è infagottata, si cela, si cela nelle forme, nei nomi, non si cela nelle foto.
anzi si fotografa spesso, ma, interessante, quasi sempre nei riverberi, nei riflessi di uno specchio, o  a figura intera, o con rimandi multipli nelle infinite ripetizioni di specchi che si specchiano, o nelle fessure di un pezzo di vetro o in uno specchietto retrovisore. oppure come un'ombra sul terreno, come a dire, io ci sono, sono io che fotografo, sono io la parte più importante della foto, io sono la foto.
la mia sensazione, dominante, è che questa donna, Vivian Maier, fosse frammentata, incapace di tenersi insieme in un'unica dimensione o immagine di sè.
un'immagine allo specchio che non ritrova tutti i pezzi, si frantuma e non si ricompone.
nel film, cui penso di continuo, la ricostruzione della sua storia è contradditoria, con tratti chiari e altri decisamante oscuri. amante dei bambini, fece la bambinaia tutta la vita, perversa e cattiva con i bambini. amata dalle sue datrici di lavoro ma solo per i primi anni del suo impegno, poi licenziata, allontanata. dai racconti di chi la assunse emerge chiaramente la bizzarria dei comportamenti, il mistero, la follia dell'immagazzinare tutto in forma ossessiva, la sua inaccessibilità, e, alla fine, la sensazione di non poter proseguire un rapporto di lavoro. Vivian portava tutti alla percezione di qualcosa di malato in lei, di disturbante che conduceva all'abbandono.









la domanda in sala, dopo il film, era: perchè non fece vedere le sue foto? sembra ne fece decine di migliaia, rullini non sviluppati ammassatti in decine di scatole. perchè le teneva per sè? come se fosse ovvio per tutti la necessità del commercio, dell'esposizione di sè, della fama, della notorietà, del riconoscimento. penso che a questa donna, che misconosceva il proprio sesso, la propria appartenenza, probabilmente ossessionata da qualche forma di abuso o di violenza subita in passato, collezionista di tutto, dalle foto, ai gionali impilati a centinaia nelle sue camere di servizio e tutti relativi a episodi di violenza stupro omicidio o pedofilia, ai biglietti dei treni, ricevute di tutti i tipi, attaccata a ogni istante della sua vita e spostamenti come fossero fondamentale per ricordarsi di sè, penso che questa donna non fosse interessata alla fama, all'esposizione delle sue fotografie, di più, non solo non era interessata, non sapeva nemmeno cosa fosse la fama, non rientrava nelle sue categorie mentali. mi vengono i brividi se penso a quanto ha fotografato senza praticamente mai rivedere quel che fotografava. non aveva importanza vedere, rivedere, mostrare, ma l'atto del fotografare, quel momento di empatia, di brivido, di riverbero, di vibrazione che la veniva dall'inquadrare e scattare foto, da quel contatto vicino ma filtrato, unico e irripetibile (e non necessariamente rivedibile ma confinato in un rullino non sviluppato) con la realtà. mi vengono i brividi  a pensare a noi con le nostre stupide reflex a vedere e controllare subito l'esito dello scatto e invece quel fotografare senza sosta senza mai sbagliare una posa. quello era fotografare, non quel gesto comodo e vigliacco che applichiamo noi adagiati su una tecnologia che supplisce il talento.
quello era guardare, pensare, riflettere, mettere insieme le immagini, vederle nel loro insieme, scegliere il momento, aspettare, guardare il soggetto e coglierlo nel suo essere vivo.
Vivian ha fotografato il mondo, tutte le strade del mondo e ha colto l'essenza della vita in ogni soggetto che ha fotografato. sfuggendo probabilmente al proprio senso.


il lavoro di nanny le permetteva di andare e girare, non essere vincolata, sfuggire, cambiare, camuffarsi, dare nomi falsi, avere molto tempo per fare quel che le piaceva, sembra avesse a disposizione un tempo infinito, tante sono le cose che ha fatto e collezionato, film e foto che ha cliccato, a decine di migliaia. le sue foto hanno espanso il suo tempo all'infinito, l'infinito di chi ora si è preso la briga di sciogliere il suo mistero, sviluppare tutto, fare della sua vita la propria, della sua ricchezza la propria fortuna. è come vivere due volte.
un giovane ragazzo John Maloof, fotografo e filmaker, autore del film Alla ricerca di Vivian Maier e responsabile oggi di tutto ciò che di lei viene pubblicato,  si era recato a un'asta a scegliere oggetti di qualche interesse per fare un documentario sul suo quartiere di Chicago. ha comprato per 380 dollari una scatola di negativi e da lì ha ricostruito un mondo, occupato la sua vita, sviluppato foto, fatto viaggi in Francia, paese di orgine di Vivian, fatto mostre e probabilmente molti milioni di dollari. nel 2007,  ha dunque acquistato all'asta una scatola piena di negativi sperando di trovare del materiale utile al suo scopo e invece, ha trovato una delle più straordinarie collezioni fotografiche del XX secolo. andando, qualche anno dopo, alla ricerca dell'identità del fotografo, questa donna di nome Vivian Maier scomparsa nel 2009, Maloof ha scoperto anche una storia da romanzo: quella di una figura dall'immenso talento artistico, che ha preferito per tutta la vita mantenere il segreto sulla sua attività fotografica, lavorando come tata con la rolleiflex al collo per i bambini delle famiglie bene di Chicago. un caso, due vite che si incrociano, e il mistero di Vivian ora parla al mondo senza poter mai essere dipanato fino in fondo.
Vivian era ossessiva e ossessionata, si teneva insieme come poteva, ricevute foto e giornali ricomponevo i pezzi di una solitudine estrema, non conosceva la convivialità, la vita comune, il condividere, l'amare, il costruire. fuggiva da una casa all'altra, da una vita all'altra, da una foto all'altra senza sapere come fare e come andare. che interese aveva di vendersi? non era questo che le interessava, anzi, caso mai, nascondersi al mondo, mettersi strati di vestiti, incurante delle sue forme del suo sesso e dei suoi capelli della sua anima e dei suoi bisogni. sola e nascosta.
e noi siamo qui a violarla, a sbirciare nella sua vita, a sbranare le sue foto, a divorare il suo mistero.
ossessionati anche noi, turbati e voraci.



Scrive Alessandro Baricco:
Quel che è successo è questo: arrivata a una certa età, tata Maier si è ritirata dall’attività, si è spiaggiata in un sobborgo di Chicago e si è fatta bastare i pochi soldi messi da parte. Dato che accatastava molto, come si è visto, affittò un box, in uno di quei posti in cui si mettono i mobili che non stanno più da nessuna parte, o la moto che non sai più che fartene: ci ficcò dentro un bel po’ di roba e poi finì i soldi, non riuscì più a pagare l’affitto e quindi finì come doveva finire. Quelli dei box, se non paghi, dopo un po’ mettono tutto all’asta. Non stanno nemmeno a guardare cosa c’è dentro: aprono la porta, gli acquirenti arrivano, danno un’occhiata da fuori e, se qualcosa li ispira, si portano via tutto per un pugno di dollari: immagino che sia una forma sofisticata di gioco d’azzardo. L’uomo che si portò via il box di tata Maier si chiamava John Maloof. Era il 2007. Più che altro si portò via scatoloni, ma quando iniziò a guardarci dentro scoprì qualcosa che poi avrebbe cambiato la sua vita, e, immagino, ingrassato il suo conto in banca: un misurato numero di foto stampate in piccolo formato, una marea di negativi e una montagna di rullini mai sviluppati. Sommando si arrivava a più di centomila fotografie: tata Maier, in tutta la sua vita, ne aveva visto forse un dieci per cento (pare non avesse i soldi per lo sviluppo, o forse non le importava neanche tanto), e non ne pubblicò nemmeno una. 
Ma Maloof invece si mise a guardarle per bene, a svilupparle, a stamparle: e un giorno si disse che o era pazzo o quella era una dei più grandi fotografi del Novecento. Optò per la seconda ipotesi. Volendo credergli, si mise anche a cercarla, questa misteriosa Vivian Maier, di cui non sapeva nulla: la trovò, un giorno del 2009, negli annunci mortuari di un giornale di Chicago. Tata Maier se n’era andata in silenzio, probabilmente in solitudine e senza stupore, all’età di 83 anni: senza sapere di essere, in effetti, com’è ormai chiaro, uno dei più grandi fotografi del Novecento. 
La prima volta che ho incrociato questa storia ho naturalmente pensato che fosse troppo bella per essere vera. Tuttavia le foto erano davvero pazzesche, tutte foto di strada, quasi tutte in bianco e nero: pazzesche. Così ho setacciato un po’ il web scoprendo che in effetti il mito della Maier era già lievitato niente male, sebbene all’insaputa mia e dei più: mostre, libri, perfino due film, uno prodotto dalla Bbc: insomma, se era un falso, era un falso fatto maledettamente bene. Quindi una certa curiosità continuava a ronzarmi dentro finché ho scoperto che a Tours, amabile cittadina della provincia francese, neanche poi tanto lontana, c’era una mostra dedicata a tata Maier. Non so, ho pensato che volevo andare a vedere da vicino, a toccare con mano, a scoprire qualcosa. Insomma, alla fine ci sono andato.

2 commenti:

corte sconta ha detto...

strabiliante!!esigenza forzata o no,ha trovato un gran modo per dare senso alla sua vita.ciao Rossa.

Rossa ha detto...

ciao, corte sconta, buona giornata.