bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 8 giugno 2018

si trova nel mucchio

«… quando ha ricevuto un regalo che le piace, la sera se lo porta a letto… se a scuola ha preso bei voti, dorme con la pagella vicino… all'ora di dormire, non vuole mai decidersi a spegnere la luce in camera sua… una rottura di scatole… col pretesto di dare la buona notte a questo e a quello… rompe…». 
«E dove si trova, adesso, tua sorella?» tornò a interessarsi l'ometto dagli occhi sanguinosi. 
Stavolta, Davide non lasciò la sua domanda senza risposta. Lì per lì, si ristrinse nel corpo, stralunato, come sotto un'ingiuria o un'intimidazione. Poi fece un sorriso miserabile e rispose bruscamente: «Si trova nel mucchio».

lo devo dire, probabilmente in direzione contraria a molti: La Storia di Elsa Morante, mi risulta estenuante.
prova ne è la lentezza con cui lo leggo e faticosamente finisco.
lo salvo per metà, fino alla morte di Ninnuzzo. ha una sua potenza, certamente legata alla forza trainante dei personaggi e al motore espressivo dominante della guerra, tema di cui siamo sempre molto ghiotti alla fin fine.
l'ultima parte, la malattia di Useppe, l'agonia di Davide, sono un trascinamento narrativo ma con le vele spiegate del giudizio ideologico.
decine di pagine sono dedicate ai sermoni, ai comizi anarcoidi di Davide, e credo che altro non siano che i manifesti ideologici della Morante, che affossa il libro con questi interminabili monologhi, del tutto inverosimili sul piano narrativo, nessun personaggio e tantomeno Davide, per lo più muto per buona parte del libro, potrebbe sostenere invettive così modulate se non sulla pagine scritta, si pressupone orale un discorso che è e rimane solo scritto nella testa dell'autrice. la noia serpeggia e il libro perde ogni credibilità. i personaggi si sfaldano e perdono interesse, soffocati dall'urgenza propagandistica di chi scrive.
rimangono alcune pagine drammatiche, pagine che lasciano il segno, come la descrizione della sorella di Davide e della sua fine indistinta nella materia carnea, come la descrizione della morte di Mariulina e di sua madre, come la narrazione di Roma affamata e della disperazione di Ida alla ricerca di sostentamento per sè e per suo figlio, in una lotta leonina contro la morte. tutto funziona quando la Morante si dimentica chi è e che cosa urla nella vita, quando lascia andare il flusso narrativo e ci racconta una storia come è, e non La storia, come la vorrebbe lei.


«Mà! Màààà!» chiamò voltandosi indietro in cerca di sua madre, e rompendo in un pianto di bambina. E solo dopo un tratto intese la voce di sua madre che a sua volta la chiamava: «Maria! Manetta!» da qualche punto prossimo a lei ma impreciso, di fra i militari che le stringevano in mezzo entrambe scendendo giù a capofitto la scarpata verso la casupola. Le loro lampade cieche frugavano per il buio; ma non si scorgeva ombra di vedetta là in giro, né si avvertiva altro suono che quello dei loro propri passi. Tutti in assetto di guerra, coi mitra spianati, essi in parte si appostarono all'esterno fra gli ulivi, mentre due o tre aggiravano la casupola, e altri si piantavano sulla porta. Sul dietro, l'unica finestrella della casa era spalancata; e uno con la lampada ne esplorò circospetto l'interno buio, mettendo mano alle bombe appese alla sua cintura e borbottando un commento in tedesco, mentre, in quello stesso istante, i suoi compagni sul davanti abbattevano la porticina coi piedi e i calci dei fucili. Sotto i fasci abbaglianti delle lampade, l'interno della stamberga si svelò disabitato e in totale abbandono. Sul pavimento era sparsa della paglia, marcia dalle piogge entrate per la finestra aperta: né c'erano altre suppellettili se non un lettuccio metallico, senza materasso né coperte, del quale un piede mancante era sostituito con una pila di mattoni; e una rete di ferro, con sopra un materassetto di crine striminzito e bagnato di pioggia. Sul materasso c'era una gavetta sfondata; in terra il manico rotto di una posata di stagno; e appeso a un chiodo un pezzo di camicia strappato, e imbrattato di nerastro, come fosse servito a fasciare una ferita. Nient'altro: nessuna traccia di armi, né di cibarie. Unico segno di vita recente era, in un angolo, un cumulo di merda non ancora secca, deposta lì da Asso e compagni in isfregio ai probabili rastrellatoti, come usano certi malfattori notturni sul posto della cassaforte scassinata. 
Inoltre sulle pareti, umide e lerce, si leggevano, ancora fresche, delle enormi scritte a carbone: VIVA STALIN, HITLER KAPUTT, VIA I TEDESCHI BOIA. Così come sui muri esterni della casupola, sopra a una precedente scritta fascista VINCEREMO era stato aggiunto di fresco un NOI a lettere assai più grosse. 
Là dentro, un paio di giorni dopo, furono trovati da gente della campagna i corpi di Mariulina e di sua madre: massacrati dai proiettili, e sfranti fino dentro la vagina, con tagli di coltello o baionetta in faccia, alle mammelle e per tutto il corpo. Stavano buttate a distanza una dall'altra, sui lati opposti del locale deserto. Ma furono seppellite assieme dentro la medesima buca, là nel terreno stesso intorno alla casupola, in assenza di parenti o amici che provvedessero ai loro funerali. Nel séguito dei suoi giorni movimentati, Ninnuzzu non doveva mai più curarsi di tornare su quei luoghi: e, a quanto si suppone, non avrà mai saputo né della morte di Mariulina, né del suo tradimento.

La misera lotta di Ida contro la fame, che da più di due anni la teneva armata, adesso era pervenuta al corpo-a-corpo. Quest'unica esigenza quotidiana: dar da mangiare a Useppe, la rese insensibile a ogni altro stimolo, a cominciare da quello della sua propria fame. Durante quel mese di maggio, essa visse, in pratica, di poca erba e d'acqua, ma tanto le bastava, anzi ogni suo boccone le pareva sprecato, perché sottratto a Useppe. A volte, per sottrargli ancora meno, le veniva alla mente di bollire, per se stessa, delle bucce, o foglie comuni, o addirittura mosche o formiche: sempre sostanza, erano… Magari rosicchiarsi qualche torsolo dalle immondezze, o strappare l'erba anche dai muri delle rovine. 
All'aspetto, aveva fatto i capelli bianchi e le spalle curve da gobbette, rimpicciolendosi fino a sopravvanzare di poco la statura di certe sue scolare. Eppure, attualmente la sua resistenza fisica sorpassava nella mole il gigante Golia che era alto sei cubiti e un palmo e indossava una corazza di cinquemila sicli di rame. Era un enigma dove quel corpicino dissanguato attingesse certe riserve colossali. A dispetto della denutrizione, che visibilmente la consumava, Ida non avvertiva né debolezza né appetito. E invero, dall'inconscio, un senso di certezza organica le prometteva una specie d'immortalità temporanea, che immunizzandola da bisogni e da malattie le risparmiava ogni sforzo per la sua sopravvivenza personale. A questa volontà innominata di preservazione, che regolava la chimica del suo corpo, ubbidivano anche i suoi sonni, che in tutto quel periodo, quasi a servirle da nutrimento notturno, furono insolitamente regolari, vuoti di sogni e ininterrotti, nonostante i rumori esterni della guerra. Però all'ora di alzarsi un fragore interno di rintocchi grandiosi la scuoteva. «Useppe! Useppe!» era il grido di quei tumulti. E immediatamente, prima ancora di svegliarsi, con le mani affannose essa cercava il bambino. 
A volte, se lo trovava rannicchiato in petto, che dormendo le brancicava le mammelle in un movimento cieco e ansioso. Dall'epoca che lo allattava nei suoi primi mesi di vita, Ida era disavvezza alla sensazione di quelle due manucce che la brancicavano; ma le sue mammelle, già scarse allora, adesso erano prosciugate in eterno. Con una tenerezza bestiale e inservibile, Ida staccava il Aglietto da sé. E da quel momento incominciava la sua battuta diurna per le vie di Roma, cacciata avanti dai suoi nervi come da un esercito di armati che la frustassero in doppia fila. 
Si era fatta incapace di pensare al futuro. La sua mente si restringeva all'oggi, fra l'ora della levata mattutina e il coprifuoco. E (dalle tante paure che già portava innate) ora non temeva più niente. I decreti razziali, le ordinanze intimidatorie e le notizie pubbliche le facevano l'effetto di parassiti ronzanti che le svolazzavano d'intorno in un gran vento falotico, senza attaccarla. Che Roma fosse tutta minata, e domani crollasse, la lasciava indifferente, quasi un ricordo già remoto della Storia antica o un'eclisse di luna nello spazio. L'unica minaccia per l'universo si rappresentava, a lei, nella visione recente del figlietto che aveva lasciato a dormire, ridotto a un peso così irrisorio da non disegnare quasi rilievo sotto il lenzuolo. Se in istrada casualmente le capitava di specchiarsi, scorgeva nel vetro una cosa estranea e senza identità, con la quale scambiava appena uno sguardo attonito, che poi sùbito si scansava. Uno sguardo simile si scambiavano, fra loro, i passanti mattinieri che scantonavano per la via: tutti malandati e terrei, con le occhiaie segnate e i panni cascanti sul corpo.

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