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lella costa é mia sorella

così mi dicono. mi sta bene. parlo e scrivo. ma non so recitare...

bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 31 dicembre 2012

pulisci la casa, ritroverai te stesso

in questi giorni  di fine d'anno mi sembra di rincorrere l'impossibile.
ho ricevuto in dono libri strabilianti, Mortalità di Christopher Hitchens, L'età dell'Inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni di Eric Kandel (uno sballo di libro, credetemi, uno sballo, dopo la mia estate a Vienna, la passione per l'art nouveau, la fase eroica ed epica di quegli anni in Europa), e Cosa resta del padre? di Massimo Recalcati (per chi non lo conoscesse, psicoanalisita lacaniano dotato di una capacità narrativa ed esplicativa senza eguali, un incantatore), solo che si aggiungono a una lista già lunga di letture che ho in corso e che mi attendono...cosa c'è di peggio per me che avere una lista di "cose" -parola senza nome- che mi aspetta? niente, vivo nella torura.
in più, mi prende una foga vacanziera, milanese, di vedere tutto quel che Milano, e pure Torino, mi offrono e, come se non bastasse, faccio ordine.
ordine, pulizia.
anche questo è una specie di godimento, ossessivo?,certamente ma ma non solo. anche purificatore, pacificatore. zen.
è un soffermarsi sul qui ed ora, massima zen di ormai diffusissima fama, ma non certo altrettanto diffusa pratica.
io pulisco e riordino volentieri, ritrovo vecchie cose, ritrovo il gusto di riguardarle e selezionarle, qualsiasi cosa esse siano, di disfarmene o di riporle, magari per poi eliminarle alla prossima tornata di pulizia domestica. siamo fatti anche di questo, di fluttuazione dei valori e della memoria.
insomma,
pulizie come etica.
pulizie come rinascita,
parola che leggo ovunque, a fine d'anno.
mi viene in mente un articolo divertente che ho letto su La Lettura, ormai insostituibile compagna domenicale, che riporto, a fine d'anno.

Spiritualità

Pulisci la casa, ritroverai te stesso

La lezione del monaco Keisuke Matsumoto: l’Occidente ha delegato troppo alle colf «Lavare i piatti, riordinare i letti: è una preghiera e un atto per riappropriarci della vita»

Pulire una macchia d’olio sul pavimento richiede una meccanica complessa: rimuovere delicatamente il liquido con un panno asciutto; passare la giusta quantità di detersivo diluito nell’adeguata quantità d’acqua; risciacquare; asciugare con un panno apposito, per non lasciare aloni. È solo una macchia d’olio, ma prevede un piccolo patrimonio di conoscenze artigianali, concrete. Competenza nella «manutenzione delle cose», che vediamo dispersa nell’astratta frenesia metropolitana. E il bel volume pubblicato da Vallardi, Manuale di pulizie di un monaco buddhista, arriva per ricordarci che così disperdiamo parte di noi.
L’autore è Keisuke Matsumoto, poco più che trentenne, bonzo del tempio Komyoji di Tokyo. Un monaco «digitale» (ha la pagina Facebook e cura il blog del tempio), ma la sua raccomandazione è di stampo pragmatico-domestico: «Ritorniamo a fare le pulizie di casa. Riappropriamoci di quei saperi concreti che abbiamo perso o affidato ad altri. Perché la cura delle cose è cura di se stessi». Va detto che per i monaci zen le incombenze domestiche non sono incombenze: si svegliano all’alba e, dopo aver rinvigorito il corpo all’aria aperta, ciascuno comincia a svolgere i compiti quotidiani, che sono parte della propria pratica spirituale. Riordinare il letto, pulire la stanza, spolverare il comodino e lavare l’abito monacale (juban) è una forma di preghiera.
Non c’è insomma quella leggera venatura sacrificale che apparteneva alla Regola benedettina o la dedizione silenziosa dei monasteri delle carmelitane. Nelle pulizie zen c’è ricerca. «Ricerca di se stessi — dice Matsumoto —, perché i lavori domestici ti aiutano a concentrarti sul presente. Concetto chiave, questo, del buddhismo, dove l’attenzione non viene posta né sul passato né sul futuro, bensì su quel momento che si sta vivendo». È una questione di educazione, prima di tutto: «In Giappone — osserva il monaco — nelle scuole elementari e medie, sono gli scolari a occuparsi della pulizia dei locali, cosa che, all’estero, non accade. Nel nostro Paese, fare i servizi di casa è un concetto che non si riferisce semplicemente a togliere lo sporco dalle superfici, ma è in stretta relazione con lo spazzar via le nubi dalla nostra anima».
L’Occidente (e anche l’Oriente occidentalizzato) ha invece da tempo delegato queste mansioni a un esercito di lavoratori manuali: c’è la colf specializzata nelle pulizie di interni e del giardino, c’è il calzolaio tecnologico; di recente (specie tra gli immigrati cinesi) si è affermata anche la figura dell’aggiustatutto, che ripara quasi ogni cosa, dall’ombrello alle borse. Non si tratta solo di stranieri: secondo l’Inps, dal 2008 a oggi le collaboratrici domestiche e le badanti di nazionalità italiana sono aumentate del 20 per cento. E questa tendenza a demandare la cura dell’ambiente più intimo ad altri ha risvolti spirituali. Perché, come ci ha ricordato due anni fa l’americano Matthew Crawford ne Il lavoro manuale come medicina dell’anima, edito da Mondadori, non saper più nemmeno piantare un chiodo ci allontana da un muro familiare, da un quadro che ci piace e che vorremmo appendere. Dalla «bellezza pratica», insomma. E, al tempo stesso, è interessante notare come cresca l’ansia di «altre pulizie»: quelle del computer per esempio (con i numerosi tipi di antivirus sul mercato) o quelle dell’auto. Forse perché la nostra vera casa, oggi, è altrove?
«La mia attività di pulizia preferita — continua Matsumoto — consiste nello spazzare un giardino giapponese con una scopa di bambù. La monotonia di questo gesto mi aiuta a rivitalizzarmi». La scopa giusta, il momento giusto (nel libro sono indicati anche i giorni propizi del mese), lo spirito ben disposto. Ecco come si recupera davvero il lavoro manuale. Che è un atto d’amore. Sì, perché nell’artigianalità del pulire un lavello o nel saper scrostare un tegame c’è quella ritualità gestuale che nasce da intuizione, creatività, esperienza. Come sosteneva il filosofo scettico Pirrone di Elide che, racconta Diogene Laerzio, era solito prendersi cura personalmente della casa. Ma è anche una questione di auto-terapia: «Se paghi altre persone perché puliscano la casa al posto tuo — chiede il monaco — sei davvero sicuro che tu stia facendo qualcosa di più importante del pulire la casa?». Come nei vasi comunicanti, l’eccessiva concentrazione su astrazioni (il Lavoro, gli Amici, le Relazioni Sociali) portano a un deperimento della fisionomia domestica: i piatti sporchi che si accumulano e che infondono tristezza, togliendo la voglia di cucinare e spingendo a riempire il frigo di surgelati, i quali a loro volta andranno a male perché fatti per il pronto consumo. E così via. Di qui lo spreco, che secondo imonaci buddhisti è quasi un delitto. Sottolinea il bonzo: «Per i giapponesi l’espressione “Che spreco!” non si riferisce solo al fatto che sia un peccato buttar via qualcosa, ma veicola gratitudine per ciò che è stato utilizzato fino a quel momento. Chi non dà la giusta importanza alle cose non la dà neppure alle persone».
Nel divertente volume tradotto in italiano da Feltrinelli Lo sporco degli altri, Louise Rafkin racconta la sua vita come donna delle pulizie. È curioso osservare con distacco le vite di chi delega questi compiti: la pigrizia di chi rinuncia a invitare gli amici solo perché non sa come pulire il tinello; l’indolenza di chi si lamenta della muffa ma non capisce che è una questione pragmatica, di osservazione e soluzione: «Arieggiare, evitare l’umidità, ma soprattutto trovare il coraggio di liberarsi di libri, gingilli e cose superflue» suggerisce Matsumoto come rimedio anti-muffa. Pulizie come etica.
Così i servizi domestici (nel Sud Italia si dice così, «servizio», termine che richiama un senso di funzionalità finalizzato a qualcosa, mentre al Centro si usa il più gravoso «faccende» e al Nord si preferisce il calvinista «mestieri») sono una specie di aritmetica della vita, un ordine segreto da rintracciare, una forma di conoscenza di se stessi. Si racconta che un discepolo del Buddha abbia raggiunto il nirvana mentre stava spazzando. Insomma, il libro di Matsumoto ci riporta con i piedi per terra, anzi… con la scopa sul pavimento. Per uomini e donne, come dimostra la recente manifestazione del Movimento dei Casalinghi italiani (sarebbero circa 300 mila gli uomini che in casa si danno da fare) e come la stessa ministra del Lavoro Elsa Fornero ha rimarcato pochi mesi fa. La ricerca di sé non ha gonna o pantaloni. Al massimo indossa il samue, il costume tradizionale da lavoro dei monaci buddhisti.
Roberta Scorranese
Pubblicato da Rossa alle 16:56 Nessun commento:
Etichette: etica, Keisuke Matsumoto, la lettura, ordine, zen

mercoledì 26 dicembre 2012

un passero vero con un cuore vero nel petto

Il passero

Apritemi, per favore,
la finestra del salotto:
sono un povero passerotto
che ha freddo fino al cuore.

Vi ho visti che piantavate
in un angolo del tinello
quel meraviglioso alberello
dalle foglie incantate:

ogni ramo si curva al peso
di un frutto sconosciuto,
e su ogni ramo ho veduto
una stella col lume acceso.

Vi spiavo dal davanzale
piuma piuma intirizzito:
ma adesso l'avete finito,
l'albero di Natale.

Adesso tutto è a posto:
fatemi dunque entrare,
il mio nido potrei fare
sul ramo più nascosto.

Non vi darei tanta noia,
sono un passero per benino.
E per il vostro bambino
pensate domani che gioia

trovare tra i doni
dietro una mezzaluna di latta,
fra la neve d'ovatta
la ruggine di vetro,

trovare un passero vero
con un cuore vero nel petto
che guarda dal suo nidetto
con il vivo occhio nero,

una viva creatura
che vuol essere scaldata,
che ha bisogno d'essere amata,
che ha freddo, fame, paura...

I bambini sono tutti buoni,
e andremmo d'accordo, perché
chiedo così poco per me
di tutti i loro doni:

un cantuccio di torrone
per appuntirci il becco,
il biscotto più secco,
la crosta del panettone...

Che tenero frullo d'ale
in cambio vi posso dare!

Lasciatemi volare
sull'albero di Natale.

Gianni Rodari

su richiesta del piccolo grande uomo.
Pubblicato da Rossa alle 15:21 4 commenti:
Etichette: filastrocca, Gianni Rodari, Il passero, natale

lunedì 24 dicembre 2012

amore e psiche, anima e desiderio

c'è una farfalla, in greco “psyche”, che indica l'immortalità dell'anima.
c'è in entrambe le opere d'arte.
nelle mani di Psiche nella statua di Canova o sopra la sua testa, nel quadro di Gérard.
ma, seppure è vero che Psiche , grazie al coraggio della sua indomita curiosità, arriverà a conquistarla, non è di immortalità che, secondo me, parla questo bellissimo mito. 


Milano, Palazzo Marino, quest'anno è di scena "Amore e Psiche".
versione di Antonio Canova, versione di François Gérard.
spinta dalla curiosità, anche io!!, di capire come e quando andare, attirata dalle iniziative della città intorno a questo evento artistico importante per la città, mi sono fatta sedurre da una proposta serale, martedì scorso, precisamente un incontro sul tema trattato nelle due opere.
presenta Lella Costa (mia sorella), intervengono Giulio Giorello e Natalia Aspesi.
santo cielo che perdita di tempo sono proprio un'allocca a volte.
mi aspetto un'oretta a tema, un'oretta sensata, una spinta per andare poi di corsa, matta di curiosità, a vedere i due capolavori in esposizione.
mi aspetto.
mi aspettavo.
qualcosa.
ma scema veramente. chiacchiere da bar, la Aspesi è una zabetta acida a mollo nei luoghi comuni, Giorello una persone tendenzialmente sensata ma non brillante e non sempre sintona sulla risposta, Lella fa il possibile con la sua leggera ironia per tenere insieme i pezzi, ma il risultato è francamente desolante.
gli interventi del pubblico, a un certo punto, sono scivolati nel peggiore vetero femminismo, ho sentito donne single inasprite dalla solitudine elargire i soliti commenti inascoltabili sulle donne coraggiose  e vere e gli uomini mammoni falsi e vigliacchi. machepalle!! anche quando si parla del mito di amore  e psiche mi devo sorbire 'ste fregnacce?
una gesticolava in modo volgare pontificando sul maschio succube della madre, un'altra, dopo il mio intervento, sulla bellezza dell'amore e sull' "esistonologiuro" di coppie felici che non hanno bisogno di fare strategie di bassa lega per trovare l'armonia.
ma amore e psiche ?
l'argomento era il mito o il sesso senza legami? l'incontro tra l'anima e il corpo o i maschi che mordono e fuggono? sul sesso al primo appuntamento e sull'eterna superiorità femminile o sul desiderio e la mancanza?
ci ho provato a intervenire, deficiente che sono, sono stata  presa per supponente e fuori tema. Lella mi dice: certo si sa , è vecchia storia quella che in amor vince chi fugge...ho detto questo?
il mito non parla di una storia di coppia, non parla dell'amore e del lieto fine, non parla del matrimonio e della figlia di loro, Voluttà. il mito termina con la scoperta del volto (e del sesso) di amore illuminato dalla lanterna di Psiche. il mito parla della parabola del desiderio.
desiderio e amore non sono la stessa cosa, santo il cielo.

la storia: nella vicenda narrata da Apuleio, Psiche, mortale dalla bellezza eguale a Venere, diventa sposa di Cupido senza tuttavia sapere chi sia il marito, che le si presenta solo nell'oscurità della notte. Scoperta su istigazione delle invidiose sorelle la sua identità, è costretta, prima di potere ricongiungersi al suo divino consorte, a effettuare una serie di prove, al termine delle quali otterrà l'immortalità.

ho avuto modo di avvicinarmi al mito di eros e Psiche studiando Lacan, che era rimasto colpito soprattutto guardando quest'opera, di Jacopo Zucchi della fine del 1500. quel che colpisce è che il disvelamento della figura di Amore comporta il dissolvimento della pienezza creata nella cecità, e la scoperta che, letteralmente, il sesso di Eros non c'è, in questo caso pienamente nascosto dai fiori della pianta. non entrerò nel merito secondo cui per Lacan il rapporto sessuale non esiste e nemmeno sulla minaccia della castrazione (Psiche in una mano porta la lanterna, nell'altra una scimitarra..affilata...), ma quel che mi preme dire di questo mito e di questa storia è che il desiderio (non l'amore) nasce si fonda e si sviluppa sulla mancanza. Psiche, nel buio, è solo anima, diventa soggetto, e prova pathos, nel momento in cui le si disvela una mancanza. Psiche desidera e si congiunge con Eros nella totale cecità, non lo vede, non sa chi sia nè che forme abbia, potrebbe anche essere un mostro, il suo disvelamento comporterà per Psiche l'inizio dei suoi guai, ovvero la serie infinite di prove da superare, ma, in sostanza, Psiche comincia ad esistere nel momento in cui il desidero che la colmava, si sottrae e le sfugge. ciò che Psiche sta per tranciare è già scomparso davanti a lei, è già diventato mancanza.

l'opera di Canova, di eleganza insuperabile, raffigura un gesto gentile e affettuoso tra i due amanti: la conquista dell'immortalità, ormai nelle mani di Psiche, segna quasi un abbraccio triste, tra una Psiche donna e un Eros accasciato su di lei, quasi la consapevolezza di una mancanza in cambio di una vita coniugale, eterna.
nel quadro di Gérard mi colpisce, oltre alla bellezza di lei e all'immaturità maschile-virile di lui,  lo sguardo di Psiche, nel vuoto, quesi cieco. lei non lo vede, e così lo desidera, ciecamente.

Quella che segue, la legge Lella (mia sorella), sull'amore felice.
la poesia della Szymborska come al solito merita, ma non è in tema.
Amore e Psiche non è la storia dell'amore felice, ma quella del rapporto tra anima e desiderio.

Un amore felice. E' normale?
è serio? è utile?
Che se ne fa il mondo di due esseri
che non vedono il mondo?

Innalzati l'uno verso l'altro senza alcun merito,
i primi qualunque tra un milione, ma convinti
che doveva andare così - in premio di che? Di nulla;
la luce giunge da nessun luogo -
perchè proprio su questi e non su altri?
Ciò offende la giustizia? Sì.
Ciò infrange i princìpi accumulati con cura?
Butta giù la morale dal piedistallo? Sì, infrange e butta giù.

Guardate i due felici:
se almeno dissimulassero un po',
si fingessero depressi, confortando così gli amici!
Sentite come ridono - è un insulto.
In che lingua parlano -
comprensibile all'apparenza.

E tutte quelle loro cerimonie, smancerie,
quei bizzarri doveri reciproci che si inventano -
sembra un complotto contro l'umanità!

E' difficile immaginare dove si finerebbe
se il loro esempio fosse imitabile.
Su cosa potrebbero contare religioni, poesie,
di che ci si ricorderebbe, a che si rinuncerebbe,
chi vorrebbe restare più nel cerchio?

Un amore felice. Ma è necessario?
Il tatto e la ragione impongono di tacerne
come d'uno scandalo nelle alte sfere della Vita.
Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.
Mai e poi mai riuscirebbe a popolare la terra,
capita, in fondo, di rado.

Chi non conosce l'amore felice
dica pure che in nessun luogo esiste l'amore felice.

Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.

Wislawa Szymborska
Pubblicato da Rossa alle 15:55 Nessun commento:
Etichette: amore, Amore e Psiche, Antonio Canova, desiderio, François Gérard, Jacopo Zucchi, Lacan., lella costa, mancanza, milano, Palazzo Marino, perdita

domenica 23 dicembre 2012

la poesia è

si chiama Archibald Randolph Ammons.
è un poeta, americano, morto nel 2001.
lo conosco, ora, tramite la rivista Poesia.
mi colpisce questa poesia e qualcosa che sa dire sulla poesia.

Moto 
La parola non
è la cosa:
è
la costruzione di,
una targhetta per,
la cosa: la parola in
nessun modo
assomiglia
alla cosa, eccetto
come il suono
assomiglia,
come in whirr,
al suono:
la relazione
tra ciò che questo
come parole
è
a ciò che è
è tenue:
concordiamo su
questo come rete da
gettare su ciò che
è: il dito
con cui indicare: il
metodo con cui distinguere,
definire, delimitare:
le poesie sono dita, metodi,
reti, non quello che è o
era:
ma la musica
nelle poesie
è diversa,
non indica nulla,
non intrappola alcuna
realtà, non scommette nulla, ma
attraverso il moto del
suo moto
assomiglia a ciò che, muovendosi, è-
il vento
sottofoglia bianco contro
l'albero.

la poesia è una forma in cui le cose vogliono venire a prendersi uno spazio nel reale. è un ritmo, una musica che non è la cosa, come i nomi non sono le cose, è una forma che chiede una convocazione. non per fasi capire, solo per esserci.
"la poesia è l'unica forma del linguaggio che io conosca che contraddice la citazione di Lao Tse: nulla che possa esser detto a parole vale la pena di essre detto, perchè una poesia diventa qualcosa che si possa dire a parole che vale la pena di esser detto."
Pubblicato da Rossa alle 18:27 2 commenti:
Etichette: Ammons Archibald Randolph, moto, parole, poesia

giovedì 20 dicembre 2012

tu sei in ciò che faccio e sogno, come il vino sa delle sue uve

intanto mi diletto di qualche nuova poesia, poi si vedrà con amore e psiche, eros e desiderio, Antonio Canova e François Gérard.
The Valkyrie's Vigil di Edward Robert Hughes 

da "Sonetti dal portoghese", di Elizabeth Barrett Browning

Via da me. Eppure so bene
Che d'ora innanzi vivrò nella tua ombra. Mai più
Sola sul limitare della porta
Dell'intima mia vita, dominerò
Le possibilità dell'anima, né, come prima,
Potrò, serena, sollevare la mano al sole,
Senza sentire ciò che mi negai:
La tua mano sulla mia. Vaste terra pone
Il destino per dividerci, ma il tuo cuore resta nel mio
Che per due pulsa e batte. Tu sei
In ciò che faccio e sogno, come il vino
Sa delle sue uve. E quando imploro
Dio per me, Egli ode il tuo nome,
E nei miei occhi vede le lacrime di due.

Se devi amarmi, per null'altro sia
Che per amore. Non dire
"L'amo per quel sorriso, la figura, per la
Dizione gentile, per lo spirito arguto
In cui mi riconosco, che in verità un giorno
Mi trasmise un piacevole senso di armonia".
Giacché queste cose, o Adorato, possono mutare
per loro natura o per te, e l'amore sì fatto,
Potrebbe essere disfatto. E non amarmi
Per la tua dolce pietà che terge le mie gote,
Ché può scordare il pianto chi ebbe a lungo
Il tuo conforto, e perdere quindi il tuo amore!
Ma amami soltanto per amore, e cosi sempre
Potrai amarmi, nell'eternità dell'amore.

è deliziosa questa poetessa rinascimentale e la sua poesia rinascimentale, umile e ardita allo stesso tempo. siamo ai tempi della regina Vittoria, mica semplice esprimersi in versi in tema d'amore quando si coprivano le gambe delle tavole. ma sono convinta che tutto quel pudore nascondesse un eccesso di desiderio, un bisogno esteriore di negare la colpa della pulsione impavida. ed ecco la voce semplice della dedizione, amami per quel che sono e non quel che ora sembro e domani non sarò, sono ebbra di te -come il vino sa delle sue uve-, siamo due in uno.
nessuno potrebbe oggi mai scrivere così, è passato il tempo, è passato anche quell'amore?

"l'anima che per l'umo comune è il vertice della spiritualità, per l'uomo spirituale è quasi carne." Marina Cvetaeva
Pubblicato da Rossa alle 12:08 Nessun commento:
Etichette: amore, Elizabeth Barrett Browning, epoca vittoriana, poesia, rinascimento

venerdì 14 dicembre 2012

body wolrds - "La salute è la vita nel silenzio degli organi"

Poco fa, in bagno, Dodo si lavava gli occhi per via dell’omino della sabbia. Violette gli ha detto che l’omino della sabbia passava tutte le sere e appena hanno cominciato a pizzicargli gli occhi lui è andato subito a lavarseli. Gli ho spiegato che non è l’omino della sabbia, ma il sonno a far pizzicare gli occhi.Che ciò che chiamiamo l’omino della sabbia è la voglia di dormire. Ha risposto: E infatti, è l’omino della sabbia! Dodo è ancora succube delle immagini. Io scrivo questo diario per liberarmene

corpo.
corpo.
corpo umano.
corpo, ancora corpo.
siamo solo i nostri pensieri e le nostre emozioni o siamo anche corpo, nel corso della nostra vita?
per la maggior parte del tempo viviamo a prescindere dal nostro corpo.
quanto tempo gli dedichiamo? (il corpo è maschile? o magari femminile?). ma, soprattutto, quanta attenzione poniamo sul nostro corpo? in linea di massima viviamo considerandolo un tutt'uno con la nostra mente, solo quando stiamo male allora, improvvisamente, il corpo si stacca da tutto il resto e si riprende lo spazio, la consistenza e la considerazione che gli spettano. solo il dolore e il malessere lo mettono in evidenza. in salute il corpo tace e non sente la nostra voce.
penso che la maggior parte delle persone abbia una scarsissima conoscenza del proprio corpo, che quasi lo guardi staccato e indipendente dal proprio sè, fino ad arrivare a distorsioni patologiche anche gravissime. ma anche restando nella normalità, ah ah dai si lo so...una parola che non esiste, difficilmente abbiamo occhi sensibili, pazienti e benevoli verso il nostro corpo. eppure, per una buona vita, una buona sessualità, una buona quotidianità e anche una "buona " malattia, quel corpo così solo accessorio e sconosciuto, è fondamentale. il corpo che si ammala può essere accudito amorevolmente e senza paura, senza terrore, senza angoscia, se gli abbiamo parlato tutta la vita. occuparsi improvvisamente di un estraneo che rompe schemi abitudini e placida ignoranza, un intruso che chiede urgentemente attenzione e urla smodatamente, è un peso per la maggior parte delle persone, intollerabile. deprimente.
mi muovo su due diversi binari, ultimamente.
la mostra Body Worlds a Milano, alla Fabbrica del Vapore.
Storia di un corpo di Pennac.
tutta materia interessante. sul corpo.

quel che faccio vedere qui sono alcune dei corpi che si possono vedere alla mostra.
sono corpi umani, veri.
corpi che hanno subito, dopo la morte, un particolare trattamento, la plastinazione.
si tratta di riproduzioni realizzate dallo scienziato tedesco Gunther von Hagens estraendo dai tessuti umani i fluidi corporei e i grassi solubili che ne comportano la decomposizione e conferendo solidità attraverso la tecnica della polimerizzazione. Questo processo permette di ottenere modelli anatomici che conservano intatte tutte le caratteristiche dell'essere umano. i corpi vengono da donazioni fatte in vita all'associazione di questo scienziato.
può darsi, proprio non lo escludo, che a qualcuno possa fare molta impressione, si tratta di corpi umani, veri e propri, solo privati dell'involucro esterno, della pelle. a volte sono indagati per i muscoli, a volte per l'apparato venoso, o nervoso, o scheletrico, o viscerale. a volte sono scomposti per strati fino a quello più interno. sono in movimento, sono vivi per certi aspetti, sono corpi senza vita che mimano la vita.
l'esposizione era frequentata per lo più da studenti di medicina, comprensibilmente.
ma a me, a parte il ripasso generale, ha dato l'idea di un risveglio necessario, quello secondo cui siamo, appunto, CORPO.
per gente come me che mentalizza, psicologizza, interpreta, simbolizza, ricordarsi che siamo corpo e cuore e vene e organi e malattie e vita e morte, è utile. anzi necessario. già ci ricordiamo, o ci accorgiamo, poco del nostro, nella maggior parte dei casi, figuriamoci di quello degli altri.

Il mio corpo è anche il corpo di Violette. L’odore di Violette è come la mia seconda pelle. Il mio corpo è anche il corpo di papà, il corpo di Dodo, il corpo di Manès… Il nostro corpo è anche il corpo degli altri.
Forse è proprio così, morire. Sarebbe molto piacevole se non avessimo tanta paura. Forse ci svegliamo ogni mattina solo per rimandare il momento delizioso in cui stiamo per morire. Quando papà è morto, si è addormentato un’ultima volta. 
è stato un bel viaggio. mi sono immaginata dentro, mi sono pensata carne, muscoli, attività elettrica, ho visto il mio cuore pulsare, il mio cervello accendersi, i miei polmoni respirare, il mio scheletro sostenermi.
è stato un buon esercizio. perchè questa dimenticanza che applichiamo tutti i giorni, questo vivere senza corpo ma logorandolo, questo buttare aria dentro senza sapere cosa sia il respiro, il primo e l'ultimo atto della nostra vita, rischia di alienarci. 
ed è per questo che Storia di un corpo di Daniel Pennac mi piace da morire, mi ricorda che attraverso il corpo vivo, mi emoziono, mi relaziono, piaccio, mi amano, mi odiano, e ho messo in vita i miei figli.

Dodo mi ha svegliato in piena notte. Piangeva. Gli ho chiesto il perché, non ha voluto dirmelo. Allora gli ho chiesto perché mi avesse svegliato. E così mi ha detto che i suoi amici lo prendevano in giro perché quando faceva pipì lui arrivava meno lontano di loro. Ho chiesto fino a dove. Mi ha detto non lontano. La mamma non ti ha insegnato? No. Gli ho chiesto se adesso gli scappava. Sì. Gli ho chiesto se arrotolava bene il calzino prima di fare pipì. Mi ha detto: come, il calzino? Siamo andati sul balcone e gli ho mostrato come si fa ad arrotolare il calzino. È una cosa che mi ha insegnato Violette quando ero piccolo, facendomi il bagno: Arrotolati un po’ il calzino, non sia mai che ti vengono i funghi! La punta è uscita fuori e lui ha pisciato lontanissimo, fin sul tettuccio della Hotchkiss dei Bergerac. Era parcheggiata sotto casa. Ha pisciato fino all’altro lato del marciapiede. Era così contento che faceva pipì ridendo. E questo mandava il getto ancora più lontano, a raffiche. Ho avuto paura che la mamma si svegliasse e gli ho messo la mano sulla bocca. Ha continuato a ridere nella mia mano. 
Pubblicato da Rossa alle 19:09 2 commenti:
Etichette: Body Worlds, corpo, Daniel Pennac, fabbrica del vapore, milano, mostra, Storia di un corpo

lunedì 10 dicembre 2012

mutazione antropologica

non posso scrivere -tutto- quel che penso, mi arresterebbero per apologia di reato.
mi limito e dedicare a quell'omuncolo di berlusconi e a quel minus di alfano (mai minuscolo è stato più appropriato) che cancella le primarie perchè il primo si ricandida (ah ah...e allora? sarà ma sento odore di dittatura e di nullificazione dei cervelli pdl) una straordinaria e profetica pagina di storia scritta da Pasolini nel 1974. uomo di genio e grande umanità. cosa direbbe, di più, oggi?
anni fa qualcuno gridò: resistere resistere resistere.
per me ora c'è solo una possibilità: vincere vincere vincere.
e poi, se mai sarà possibile, dimenticare queste tristissime e puzzolenti pagine di storia italiana, e vergognarci per chi di vergogna di sporcarsi le mani di merda e farla mangiare agli altri non ne ha, per quel manipolo di clown e di puttane che non potrebbero sussistere se non per mercificazione della loro insignificante esistenza essendo privi di qualsiasi qualificazione al ruolo che ricoprono, per questi manichini apparentemente dotati di vita ma in realtà mossi da un unico movente se non il potere dei soldi. non c'è episodio dei governi  e delle manovre di berlusconi, non uno, né tanto meno quest'ultimo, non una delle persone che abbia messo in carica da qualche parte, che non sia stato mosso e guidato da un onnipotente desiderio di dominio e mercificazione dell'altro. non c'è mossa né strategia che abbia a che vedere con l'interesse e la credibilità di questo paese (all'estero qualcuno sta già ridendo, qualcun altro si sta già tappando il naso, qualcun altro ancora coprendo gli occhi per non vedere) quanto piuttosto il conseguimento di una glorificazione personale con l'acquisto, ben pagato, del servilismo altrui, una schiera di schiavi privi di esistenza propria se non per riflesso degli euro elargiti dal neocandidato, se così si può dire. questo paese è stato comprato dal potere dei soldi, ma non solo, è anche stato svenduto dal voto degli italiani, abbagliati dal populismo pubblicitario dei cartelloni al neon sopra la cadrega del nobilissimo personaggio, italiani acefali. ignoranti. paganti e pagati.
e, posso assicurarlo, non ho scritto tutto quel che penso.

da Scritti Corsari, 1974:
"Che cos’è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati, dei cineasti ecc.: cioè che essa sia la culturadell'intelligencija. Invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante, che, appunto, attraverso la lotta di classe, cerca di imporla almeno formalmente. Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini. La cultura di una nazione è l'insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse. E sarebbe dunque astratta se non fosse riconoscibile - o, per dir meglio, visibile - nel vissuto e nell’esistenziale, e se non avesse di conseguenza una dimensione pratica. Per molti secoli, in Italia, queste culture sono stato distinguibili anche se storicamente unificate. Oggi - quasi di colpo, in una specie di Avvento - distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere. Scrivo Potere con la P maiuscola solo perchè sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c'è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti demoscristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella Grande Industria, perchè essa non è più nemmeno costituita da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale), e, per lo più, come tutto non italiano (transnazionale). Conosco, anche perché le vedo e le vivo, alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora senza volto: per esempio il suo rifiuto del vecchio sanfedismo e del vecchio clericalismo, la sua decisione di abbandonare la Chiesa, la sua determinazione (coronata da successo) di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi, e soprattutto la sua smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo "Sviluppo": produrre e consumare. L'identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti "moderati", dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente; ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all'edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una mutazione della classe dominante è in realtà - se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia - una forma "totale" di fascismo. Ma questo Potere ha anche "omologato" culturalmente l’Italia: si tratta dunque di un’omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l'imposizione dell'edonismo e della joie de vivre. […] il nuovo fascismo non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamrente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l'omologazione brutalmente totalitaria del mondo."
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Etichette: berlusconi, cultura, mercificazione, Pier Paolo Pasolini, potere, Scritti Corsari, soldi, storia

sabato 8 dicembre 2012

football titans

complice un bel ragazzo di famiglia mi ritrovo a frequentare campi di football americano.
ho visto tanti film che percorrevano le gesta eroiche dei giocatori americani, amati, osannati, popolarissimi, così travestiti da superuomini...come non amarli?
poi un giorno ho visto anche un telefilm, della serie Harry's Law con Kathy Bathes- che applica le dure regole della legge in un negozio che vende anche scarpe, mah...- in cui si risarciva una famiglia per la perdita del proprio figlio, giovane bello proiettato nel futuro, morto durante una partita di football a seguito delle ripetute botte sulla testa, di cui l'ultima fatale. trattasi della sindrome da secondo impatto, ovvero quando un atleta che subisce un trauma cranico, di solito lieve come una concussione, va incontro ad un secondo trauma cranico prima che i sintomi legati al primo siano completamente risolti. una tragedia: il cervello si gonfia e va in tilt, mortalità nel 50% dei casi, quasi tutti legati al football. olè.
ora, non è stato bello vedere sto telefilm in una fase di progressivo avvicinamento al suddetto sport.
diciamo che abbiamo cercato di dimenticarcelo.
nel frattempo si muore di freddo sui campi e si vedono questi giovani ragazzi impacchettati, gonfiati e protetti in quasi ogni lato e angolatura del proprio corpo, infagottati dalle gengive ai glutei, al muscolo quadricipite femorale e mi fermo qui, affannarsi dietro a questo ovale che sfreccia veloce (avete mai provato a prenderlo al volo dopo un lancio? mai fatto? provare per credere il male che fa!!) per portarlo alla meta. quel che diverte è il movimento del gruppo, come credo in quasi tutti gli sport di gruppo.
ma alcuni sono più gogliardici di altri.
nel calcio, frequentato per anni, e ancora adesso, nulla di esaltante.
nel football, tutto molto esaltante.
credo sia anche questo che piaccia, i cori durante gli allenamenti, gli urrà urrà urrà prima e dopo la partita, i caschi in alto dopo la vittoria, l'inginocchiarsi per rispetto ogni volta che un compagno si fa male e rimane a terra. quale adolescente non vorrebbe far parte di tutto questo per sentirsi fuori di casa e dentro un'altra e ben altra cosa? la propria cosa? quel gesto, quel momento, quell'urlo?
ed eccoli, vestiti come giganti, esagerati, quasi grotteschi- cardinals, panthers, vikings, bears, titans- con i volti, quando scoperti dal casco, segnati di nero sotto gli occhi da strisce oblique come gli indiani sioux, correrre e sgusciare oppure placcare e arrestare, uno sopra l'altro a peso morto, oppure intercettare e fare touchdown. vuoi fare il quarterback, o il running back o il corner back? fai quel che sai, intanto però ci sei, sei lì, e solo lì vuoi essere per esserci.
sei lì e senti il tuo corpo, quel corpo che cresce e non sai governare, ti muovi e rompi tutto, ti muovi e sporchi, un corpo quasi adulto che si eccita e chiede risposte, chiede di essere soddisfatto.
c'è anche da dire che dopo già un numero accettabile di partite io non ho ancora capito quasi niente della complicata meccanica del gioco, nonostante le ripetute pazienti spiegazioni, nonstante l'elenco già più volte reiterato delle regole e dei ruoli, dopo anche l'elenco a memoria di tutte le squadre di fooball americano, NFL, peraltro appunto dai nomi strabilianti...
Arizona Cardinals
New York Giants
Philadelphia Eagles
Pittsburgh Steelers
Minnesota Vikings
Atlanta Falcons
New Orleans Saints
Tennessee Titans
Seattle Seahawks
Tampa Bay Buccaneers
Jacksonville Jaguars
and so on..
però mi piace il quarterback che chiama lo schema, mi piace la palla ovale che vola, mi piace la corsa affannosa verso la meta -quale splendida metafora della vita- mi piace il placcaggio -quale realistica sospensione della vita-.

cose c'è, per te, più dell'america per sognare?
Pubblicato da Rossa alle 18:10 2 commenti:
Etichette: adolescenza, america, corpo., FNL, football, gruppo

lunedì 3 dicembre 2012

torre cesar pelli

vorrei però specificare che una delle foto della Kung che ho scelto (vedi post prima o sotto di questo), tra le tante, ritrae il grattacielo più bello di Milano, la torre Cesar Pelli, e forse anche di più. il più figo d'Italia o del mondo. non lo so, non ho visto abbastanza nella mia vita, potrei sbagliarmi di grosso, ma non importa.
questa nuova zona, tra la stazione Garibaldi e Porta Nuova, è un vero spettacolo.
è mirabolante.
è finalmente modernissima e svettante.
è la mia Milano che sale.
non a caso nel film di Marina Spada, Il mio domani (http://nuovateoria.blogspot.it/2012/09/il-mio-domani.html), ovviamente ambientato a Milano come tutti suoi film, mirabilmente fotografato a Milano come tutti i suoi film, quella è la zona scelta.

sembra una carta srotolata.
o un foglio che si avvolge.
ha una punta bellissima, imponente e maestosa.
quella punta la vedo dal mio studio in ospedale, al Fatebenefratelli, situato molto vicino, anzi proprio nella stessa zona. ogni volta è un flash di meraviglia.
e poi ha le luci che si illuminano a intermittenza.
potrà sembrare stupido, ma se c'è una cosa che mi fa impazzire sono le luci in alto di Milano. le luci che segnalano, a chi passa dal cielo, l'ingombro di un grattacielo. o delle gru che vi lavorano.
è fantastico, mi fa pensare alla fantascienza, a una fantascienza che sto vivendo, al futuro prossimo in cui potrei esserci anch'io.
le lucine rosse nel cielo nero notturno di Milano sono uno sballo.

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Etichette: bellezza, futuro, milano, torre Cesar Pelli

venerdì 30 novembre 2012

day dream

così hanno chiamato la ridotta esposizione di Irene Kung allo Spazio Forma.

la mostra allargata di Nino Migliori: la materia dei sogni.

ora, non so, ma credo di ci sia un eccesso di significante onirico.
sogni.
non li trovo né nell'una né nell'altro.
i sogni sono una faccenda seria, ma inafferrabile. mostrarli come materia o come visioni diurne...mica semplice.
le foto della Kung poi sono tutto tranne che diurne. quindi? come se li inventano 'sti nomi?
è che onirico piace un casino, mettercelo come il prezzemolo tira parecchio, ma di congruenza non ne vedo, onestamente.
Nino Migliori presenta alcune belle foto della sua Romagna, ma direi ambientazioni del tutto luminose e concrete, bianco e nero, persone, personaggi, paesi, bar, tuffi. una bella rappresentazione della vita, della vita semplice e verace.

la mostra presenta poi dello stesso autore altri lavori che per me hanno un interesse pari a zero, manipolazioni del materiale fotografico che mi lasciano del tutto indifferente. anzi un po' infastidita.
ho provato questa sensazione troppo spesso per non prenderla sul serio. la materia fotografica deve essere autentica. l'inquinamento con tecniche secondarie di ogni tipo tolgono senso, diventano una parrucca che produce un ibrido di nessun valore artistico. né foto né pittura né invenzione. stortura della materia.

Irene Kung propone foto che hanno un impatto visivo un po' terrifico, altro che day dream, un mondo oscuro pauroso, isolato, astratto. notturno e cupo.


sono andata ieri sera alla presentazione.
ahimè.
mammamia.
cosa posso dire: gente che non mi piace.
a partire dalle signore che abitano questo lavoro delle pubbliche relazioni e degli allestimenti di happening che sono tutte in serie, un olezzo di profumo, ognuno il proprio depositato a kg, un look prevedibile oltre alla biondaggine da divisa di signora bene e addentro alle cose di mondo, il taglio e le mechese, fino ad arrivare a un pubblico, sempre un po' troppo aristocratico, che se la tira mica da ridere. "sono qui perchè so di fotografia, perchè so fotografare". tutti immersi in boccette di profumo e tagli sartoriali da centinaia di euro. oppure il tipo opposto, new hippy che ancora ama il capello maschile lungo, magari tenuto insieme da un bell'elastico per fare la coda. poi c'ero io, che non so bene a che categoria appartengo, ma qualcuno lo starà scrivendo da qualche altra parte...
anche le foto della Kung mi piacciono solo fino a un certo punto, sono false, falsate, un prodotto di laboratorio.
un piccoletto di 8 anni al massimo, vestito come un adulto trendy -queste perversioni genitoriali di fare dei bambini dei piccoli adulti alla moda è una cosa da denuncia al tribunale dei minori- un piccoletto molto sveglio e con già molta conoscenza virtuale alle spalle nonostante la sua giovanissima età, si avvicina spavaldo, senza tema e senza paura, nessuna timidezza o senso di una qualche "piccolezza" in lui, e chiede a una delle ragazze dell'agenzia: queste foto sono false, sono fatte al computer vero? non esiste veramente una luce così!
ok, sei travestito da grande , ma sei ancora puro, per fortuna. ancora guardi con gli occhi e l'onestà del tuo cuore.

Pubblicato da Rossa alle 13:22 2 commenti:
Etichette: Day Dream, fotografia, gente, Irene Kung, La materia dei sogni, manipolazione, milano, Nino Migliori, sogni, Spazio Forma

lunedì 26 novembre 2012

Spazzavo via l'aria e l'erba dell'infanzia

Amo le mappe perché dicono bugie.
Perché sbarrano il passo a verità aggressive.
Perchè con indulgenza e buonumore
sul tavolo mi dispiegano un mondo
che non è di questo mondo.
è ancora lei, postuma, ma presentissima.
come mi piace Wislawa Szymborska.
è così spiritosa. in senso letterale, è ricolma di spirito.
ho colto al volo in Feltrinelli la sua raccolta postuma, sono 13 poesie inedite, "Basta così", potrei pubblicarle tutte.
invece mi tocca scegliere, ma è un delitto. e non lo compio fino in fondo...
osserva il mondo lieve e leggera, stupisce sempre nel finale su una questione che potrebbe sembrare da meno, ma, al contrario, è di più.
senza solennità o retorica, eventi piccoli e insignificanti aprono le porte sull'essenziale, sull'eterno.
senza infierire con la morale, è etica in ogni parola.
senza mai puntare il dito, prende posizione senza difetto, senza paura, senza titubanze.
nei suoi dubbi, nei suoi se e ma, nei suoi scusate, nei suoi potrei sbagliarmi, è portatrice di verità, infallibile.
ha un dono così potente espresso così sottovoce che non sembra possibile esista una formula espressiva come la sua.
eppure.
c'è.

C'è chi
C'è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
E' tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.

E' lesto a indovinare il chi il come il dove
e a quale scopo.

Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nei tritadocumenti,
e le persone ignote
dentro appositi schedari.

Pensa quel tanto che serve,
non un attimo in più, perchè dietro quell'attimo sta in agguato il dubbio.

E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione
dalla porta prescritta.

A volte un po' lo invidio
-per fortuna mi passa.

A ognuno un giorno
A ognuno un giorno muore un proprio caro, 
tra l'essere e il non essere 
è costretto a scegliere il secondo. 

 E' duro riconoscere che è un fatto banale, 
incluso nel corso degli eventi, 
conforme a procedura, 

 prima o poi inserito nell'ordine del giorno, 
della sera, della notte, di un pallido mattino; 

 scontato come una voce dell'indice, 
come un paragrafo del codice, 
come una data qualsiasi 
del calendario. 

 Ma è il diritto e il rovescio della natura. 
Il suo omen e amen distribuiti a caso. 
La sua casistica e la sua onnipotenza. 

Solo ogni tanto ci mostra un po' di cortesia - 
i nostri cari morti 
ce li butta nei sogni.

Lo specchio
Si, mi ricordo quella parete
nella nostra città rasa al suolo.
Si ergeva fin quasi al sesto piano..
Al quarto c'era uno specchio,
uno specchio assurdo
perchè intatto, saldamente fissato.

Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
"luogo".

Era come durante le vacanze-
vi si rispecchiava il cielo vivo,
nubi in corsa nell'aria impetuosa,
polvere di macerie lavata dalla pioggia
lucente, e uccelli in volo, le stelle, il sole all'alba.

E così, come ogni oggetto fatto bene,
funzionava in modo inappuntabile,
con professionale assenza di stupore.

Nel sonno
Ho sognato che cercavo una cosa,
nascosta chissà dove oppure persa
sotto il letto o le scale,
all'indirizzo vecchio.

Rovistavo in armadi, scatole e cassetti,
inutilmente pieni di cose senza senso.

Tiravo fuori dalle mie valigie
gli anni e i viaggi compiuti..

Scuotevo fuori dalle tasche
lettere secche e foglie scritte non a me.

Correvo trafelata
per ansie e stanze
mie e non mie.

Mi impantanavo in gallerie
di neve e nell'oblio.

Mi ingarbugliavo in cespugli di spine
e congetture.

Spazzavo via l'aria
e l'erba dell'infanzia.

Cercavo di fare in tempo
prima del crepuscolo del secolo trasciorso,
dell'ora fatale e del silenzio.

Alla fine ho smesso di sapere
cosa stessi cercando così a lungo.

Al risveglio
ho guardato l'orologio.
In sogno era durato due minuti e mezzo.


Ecco a che trucchi è costretto il tempo
dacchè si imbatte
nelle teste addormentate.


Reciprocità
...
E almeno una volta ogni tanto
ci sia l'odio dell'odio.
Perché alla fin fine
c'è l'ignoranza dell'ignoranza
e mani reclutate per lavarsene le mani.


c'è chi si conquista l'eternità, così, con una virgola e un a capo.


Pubblicato da Rossa alle 17:28 5 commenti:
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domenica 25 novembre 2012

corpi


“Lo spettacolo della seduzione, ovvero la sua interpretazione, dove il successo non è dettato dalla bellezza, ma dalla capacità di affascinare, di creare il gioco, l’atmosfera, la sorpresa. Le burlesque dancers si mettono in gioco in prima persona, nulla è seriale, finto o scontato, tutto è originale e personale. I vestiti vintage, le musiche, il soggetto dello striptease sono studiati ad hoc per la serata. Ho una propensione e una curiosità naturale verso coloro che sono capaci di uscire dalla propria ordinarietà per trasformarsi in un altro io.” Cesare Cicardini


E' sempre in viaggio, Alessandro Trovati. Per professione, frequenta elettivamente lo sci, gli sport invernali, le Olimpiadi, il ciclismo. Lui è sempre alla ricerca del gesto, del momento topico, dell’uomo solo al comando con la maglia bianco-celeste. Le sue immagini non racchiudono solo l’attimo, ma vivono di un racconto; perché quegli sport si praticano lontano, al freddo o in salita, tra i tanti che hanno deciso di abitare un circo (bianco o olimpico che sia) prima ancora di sapere se ne usciranno vinti o vincitori: tra venti, piogge, nevi, cadute, palpiti, occhi di passione e di fatica. E' una storia di cuore, perché tra le vette, o alle Olimpiadi, in palio c’è la leggenda: la si può scrivere o anche solo farne parte, ma lo spirito è lo stesso.

Alessandro Trovati fotografa gli eventi sportivi. o meglio, i corpi sportivi. che si scorporano.
Cesare Cicardini fotografa le donne. donne, mica belle, solo donne, ovvero bellissime.
(Anita Caprioli, attrice, in viaggio in Cina e Giappone, fotografa. (introvabili)).
a Fotografica 12 non ho concluso assolutamente nulla.
ci sono passata una sera. ho solo odorato un po' di digitale e bianco e nero, burlesque e olimpiadi.
non so cosa non abbia funzionato in me...non ho il senso del limite, vorrei fare tutto, vivo sempre in mancanza. conta ciò che non ho.
ma questa è la vita: mancanza.
questi corpi sono, consistono, e non sono, mancano.
Pubblicato da Rossa alle 23:08 2 commenti:
Etichette: Alessandro Trovati, Cesare Cicardini, corpo, fotografia, Fotografica 12

mercoledì 21 novembre 2012

dall'ortopedico

atteggiamento scoliotico, dicasi.
un classico dell'infanzia, da seguire e curare, in fondo è ancora solo un atteggiamento, stiamoci attenti prima che diventi una postura.
sorvolando su alcuni particolari attinenti alla prenotazione della visita, che mi hanno messa di fronte alla una modalità ormai molto diffusa di alcuni centri che ti propongono a ottobre 2012 una prima visita a maggio 2013...se la fa in convenzione...sennò tra 10 giorni proprio con il medico che vuole lei, sorvolando ma non giustificando in alcun modo un mal costume indecente e immorale della sanità italiana, mi concentrerei su un altro aspetto altrettanto torbido e sconcertante, ovvero il burn out del medico. ortopedico in questo caso.
che poi, se la vogliamo proprio dire tutta, lo capisco, il burn out, l'andare insieme e non farcela più, in uno psichiatra, in un oncologo, in un medico di pronto soccorso (sempre uno da solo per interi turni a sostenere tutto il carico delle urgenze), in un ginecologo (ormai una delle categorie più a rischio di denunce penali da parte del cittadino), ma, francamente, in un ortopedico...
è una branca della medicina noiosa secondo me, personalmente la ritengo, come l'urologia,  più simile a una pratica meccanica una, o idraulica l'altra, che non a una scienza medica. ma potrei parlare da ignorante, o supponente, se qualcuno la sceglie ci sarà un buon motivo. ma non mi è mai e dico mai capitato di incontrare un urologo o un ortopedico gentile e disponibile nella mia vita, da utente e da collega. come mai? secondo me si annoiano. e incomprensibilmente pure se la tirano.
detto anche questo, comunque, se la pratica meccanica dell'ortopedico poi ricade sull'affetto per il piccolo grande uomo, ci scappa anche una riflessione in più.
da una parte ho provato rabbia, ma come cazzo fai il tuo mestiere?, dall'altra moltissima pena, cosa ti ha ridotto a fare così il tuo mestiere?
scartando il centro chiaramente corrotto di malasanità che mi propone una visita tra un anno (ho scritto una mail di protesta all'URP, è nelle bozze, la mando?), mi sono rivolta all'ambulatorio di piazzale Accursio, comodo per me, che è, in verità, un posto dimenticato dal signore. forse già questo mette depressione. tutti svogliati, dalle impiegate, polemiche per un nonnulla, delle accettazioni, alle infermiere sbrigative e buone solo a strusciarsi con il dottore che allude.

ma l'ortopedico è stato un must. il piccolo grande uomo l'ho presentato io, l'orto non lo ha nemmeno guardato in faccia. non gli ha chiesto né nome né cognome, né, udite udite, l'età. legge: problemi di schiena. ma non è, non illudiamoci, una domanda rivolta a me. è solo la lettura pedissequa di quel che c'è scritto sul quesito diagnostico. conosce l'uso dell'interrogativo questo soggetto laureatosi in medicina?
spogliati, stai solo in mutande. si c'è un po' di scoliosi ma non una cosa spaventosa. prego? si può spiegare meglio? no. senza lastra non posso dire nulla.
piegati sulle gambe, lentamente tirati su. il piccolo grande uomo lo fa velocissimo da speedy gonzales ma non gli viene chiesto di ripetere l'operazione come si deve. era una domanda diagnostica o un fiato d'alito? lento o veloce fa lo stesso, vedo ma non guardo, sono qui a fare il dutur ma potrei benissimo non esserci. anzi, non ci sono.
fai sport? si. e nuoto? fino all'anno scorso. (domanda formulabile anche alla nonna. c'è una nonna che non sappia che il nuoto fa bene alla schiena?)
rivestiti.
il finale dell'accurata visita prevede il momento più acuto intelligente e indagativo dell'orto. come ti siedi? 
e il piccolo: bene!
ok.
(vedere come lo fa veramente? piena fiducia nelle parole dello scolaro: forse ha più attitudine per la pedagogia che per la scienza medica delle ossa).
fine della visita.
lastra e prossimo appuntamento.
c'è stato un momento in cui, osservando passiva come si svolgevano le cose e fino a che punto potessero spingersi, allibita, divisa tra incredulità e vergogna, ho accennato, giusto per vedere se ci fosse possibilità di una rettifica del comportamento clinico, a una mia occupazione ospedaliera (ma senza specificare se fossi un medico o meno. ma, come si può immaginare, la domanda non mi è stata formulata. avrà pensato, da buon orto, che come donna sarò stata un'infermiera o un'ausiliaria). l'orto non si è mica spaventato, non si è certo vergognato, non ha fatto, a sé stesso o a me, una domanda. lui ha proseguito per la strada verso la sua perdizione, verso l'annullamento del senso e non si è assolutamente preoccupato di coprire le sue pudenda, così scandalosamente esposte al pubblico. 
si è messo a nudo davanti a una madre e a suo figlio (che rideva alla fine...figa sta visita mamma, veloce), anche una collega, mostrando il decadimento totale della persona, della professione, della professionalità, della decenza. senza vergogna ha mostrato il suo disfacimento fisico e morale, la noia e lo schifo che ammazzano il lavoro, il senso, la motivazione, il rispetto del malato, dell'altro da sé in genere. ma se sei un medico l'altro da sé è in specie, è per scelta, è per volontà specifica di cura. ma pensiamo anche solo alla retribuzione a fine mese, dai, senza farla troppo pesante... gli pagano anche le ferie e i contributi. 
5 minuti di visita. senza anamnesi, senza uno sfioramento corporeo, senza domande né, tanto più, senza risposte alle mie di domande. compilativo, difeso dietro alla sua scrivania, grasso e nudo, arroccato nell'assoluta difesa della lastra. l'avesse avuta tra le mani gli avrebbe coperto meglio quelle oscenità.
dovessi mai portargliela, parlerà come si conviene a un laureato in medicina davanti al suo paziente?
Pubblicato da Rossa alle 13:22 6 commenti:
Etichette: burn out, decenza, medicina, ortopedia, oscenità., professionalità, sanità, vergogna

lunedì 19 novembre 2012

Alegria - cirque du soleil


c'è tutto in questo spettacolo. la bellezza, l'arte, l'allegria e la tristezza, il talento, il canto, il circo, il riso ed il sorriso, i costumi, le luci, le scene, l'orchestra, la maestria e la passione.
è un circuito perfetto. non manca nulla, è una saturazione dei sensi, un'esplosione sensoriale.
potrà sembrare strano ma ho osservato un simbolo particolare che mi ha ipnotizzato e mi ha trasmesso il senso di un'armonia di pensiero e di una riflessione tematica dietro a questa ideazione e rappresentazione così magicamente spettacolare.
molta gente si muove su questo palco circense, gente entra altra esce, c'è sempre movimento sul palco, non c'è mai, anche nei momenti più fortemente esibizionistici, un unico protagonista. c'è una dama bianca, bianca di porcellana e merletti, elegantissima, che tra gli altri avanza e canta. meravigliosamente. leggevo che per questo spettacolo la colonna sonora è stata appositamente ideata e studiata, come per tutti gli spettacoli, ispirata alle musiche italiane di Rota con violini e fisarmoniche. ma si sentono musiche di altri mondi, tango, fado, jazz. la musica si sente molto, si fa sentire moltissimo, eseguita dal vivo da un'orchestra allegra. è la colonna sonora più famosa tra tutti gli spettacoli del cirque du soleil, ha ricevuto molti premi, nota per la canzone che da nome allo spettacolo, cantata in tre diverse lingue. 
ma dietro, appartata, più in disparte, mai avanzata, sempre sullo sfondo c'è una dama nera. stesso abito e foggia della dama che canta, ma nera.
non avanza mai, non fa nulla, è per lo più ferma, sembra che canti le tonalità più scure e segrete.
ma c'è.
ora non so se sono io che mi invento delle visioni, ma quella dama nera, che non si presenta nemmeno per gli applausi finali, ma magari forse solo perché poi impegnata in qualche gioco di maestria corporea che gli fa cambiare d'abito, è una presenza oscura e cupa che dice bene, al mio cuore, che questo è il mondo, che così gira e va, che così è fatto e si muove, anche e forse di più, il mondo zingaro e imprevedibile del circo. come in tutti gli spettacoli di circo c'è la vita che gira a velocità altissima, c'è il corpo che esalta la sua bellezza, la sua sfida alla gravità, alle giunture scheletriche e alle articolazioni, alla paura e al rischio, ma c'è anche un fondo oscuro di tristezza, il retrogusto della vita, c'è il clown che racconta la sua storia triste alla luce della luna con il suo manichino e la sua enorme valigia che, appena aperta, fa spazio a due palloncini che vanno su, e poi su e poi su, e poi via. la dama nera ci ricorda questo. che c'è bellezza, che c'è arte, che c'è magia, e c'è il lato oscuro, dietro, sordo e muto, ma che non ci lascia mai. e che ci ricorda che la vita è questo, e quello. gioia e dolore. luce e buio.
Alegria è il regno del giubilo, evoca le grandi corti regali, è un impianto monumentale, dai colori autunnali, mai troppo plateali, sempre di tono luminoso opaco, pervaso di suoni e sfumature della vita misteriosa. bene non so se deliro, ma se è così come penso, questo spettacolo merita oltre alla mia immensa ammirazione artistica, al mio divertimento fino alle lacrime, alla mia partecipazione emotiva fortissima, alla mia approvazione per una bellezza mimica senza confini corporei, anche la mia adesione più intima e profonda.


Pubblicato da Rossa alle 22:20 Nessun commento:
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sabato 17 novembre 2012

strabilianti viaggiatori! mostrateci gli scrigni delle vostre ricche memorie, quei magnifici gioielli fatti di stelle e di etere

ma si dai qualcosa ho visto e sentito in questo magico mondo di Book City 2012.

poco poco rispetto a quel che è stato e sarà.
qualcosa di scarso interesse, qualcosa di buono e qualcosa di eccelso.
rimane il fatto che l'iniziativa è oceanica e merita un applauso per il mio bel comune di Milano, caro Pisapia...president for ever..
gran parte dello sforzo si svolge al Castello Sforzesco. è lì non ho sentito niente di speciale...ma non sono riuscita ad entrare nella sala delle armi dove rappresentavano brani da I duellanti di Conrad -che perdita!!- ma in conpenso sono entrata in alcune sale del castello mai viste e..spettacolari. sala Weil Weiss, biblioteca Trivulziana immersa nel bel legno delle librerie, un posto incantato e delicato. vi ho ascoltato le poesie degli alfabeta2, gruppo poetico di avamguardia, e credo di sapere quando si parla di poesia e di qualcosa che nemmeno vagamente le somiglia. la seconda.
sala Bertarelli, sede di un archivio fotografico di Milano...che foto...e poi la presentazione dell'ultimo libro di Gabriele Basilico, fotografo di nota fama.
questa mattina ho rubato letteralmente del tempo al tempo e mi sono fatta un giro velocissimo alla fermata del metrò Garibaldi e mi sono deliziata con un reading di brani da autori vari, Calvino e le sue Città invisibili e Marcovaldo, Baudelaire, Montaigne, Queneau...che delizia ed emozione. mi batteva forte il cuore pensando alla mia gioia e alla gioia di quei due attori che venivamno ascoltati con tanta emozione da me. uno scambio di doni.
questa di Baudelaire ho ascoltato, tra le altre cose, e li avrei baciati dalla gioia quei due attori nel mezzo dei portelli che si aprivano e chiudevano e i plin plon della voce informativa del metrò, della gente che si fermava attratta:

Charles Baudelaire (A Maxime Du Camp)
Il viaggio 

I
Per il ragazzo, amante delle mappe e delle stampe,
l´universo è pari al suo smisurato appetito.
Com´è grande il mondo al lume delle lampade!
Com´è piccolo il mondo agli occhi del ricordo!

Un mattino partiamo, il cervello in fiamme,
il cuore gonfio di rancori e desideri amari,
e andiamo, al ritmo delle onde, cullando
il nostro infinito sull´infinito dei mari:

c´è chi è lieto di fuggire una patria infame;
altri, l´orrore dei propri natali, e alcuni,
astrologhi annegati negli occhi d´una donna,
la Circe tirannica dai subdoli profumi.

Per non esser mutati in bestie, s´inebriano
di spazio e luce e di cieli ardenti come braci;
il gelo che li morde, i soli che li abbronzano,
cancellano lentamente la traccia dei baci.

Ma i veri viaggiatori partono per partire;
cuori leggeri, s´allontanano come palloni,
al loro destino mai cercano di sfuggire,
e, senza sapere perchè, sempre dicono: Andiamo!

I loro desideri hanno la forma delle nuvole,
e, come un coscritto sogna il cannone,
sognano voluttà vaste, ignote, mutevoli
di cui lo spirito umano non conosce il nome!

II
Imitiamo, orrore! nei salti e nella danza
la palla e la trottola; la Curiosità, Angelo
crudele che fa ruotare gli astri con la sferza,
anche nel sonno ci ossessiona e ci voltola.

Destino singolare in cui la meta si sposta;
se non è in alcun luogo, può essere dappertutto;
l´Uomo, la cui speranza non è mai esausta,
per potersi riposare corre come un matto!

L´anima è un veliero che cerca la sua Icaria;
una voce sul ponte: «Occhio! Fa´ attenzione!»
Dalla coffa un´altra voce, ardente e visionaria:
«Amore… gioia… gloria!» È uno scoglio, maledizione!

Ogni isolotto avvistato dall´uomo di vedetta
è un Eldorado promesso dal Destino;
ma la Fantasia, che un´orgia subito s´aspetta,
non trova che un frangente alla luce del mattino.

Povero innamorato di terre chimeriche!
Bisognerà incatenarti e buttarti a mare,
marinaio ubriaco, scopritore d´Americhe
il cui miraggio fa l´abisso più amaro?

Così il vecchio vagabondo cammina nel fango
sognando paradisi sfavillanti col naso in aria;
il suo sguardo stregato scopre una Capua
ovunque una candela illumini una topaia

III
Strabilianti viaggiatori! Quali nobili storie
leggiamo nei vostri occhi profondi come il mare!
Mostrateci gli scrigni delle vostre ricche memorie,
quei magnifici gioielli fatti di stelle e di etere

Vogliamo navigare senza vapore e senza vele!
Per distrarci dal tedio delle nostre prigioni,
fate scorrere sui nostri spiriti, tesi come tele,
i vostri ricordi incorniciati d´orizzonti.

Diteci, che avete visto?

Pubblicato da Rossa alle 23:15 4 commenti:
Etichette: Book City 2012, castello sforzesco, Charles Baudelaire, emozione, il viaggio, letteratura, libri, milano, Waterhouse

venerdì 16 novembre 2012

leggere è amare

oggi a Milano è tempo di City Book, un'iniziativa del Comune che coinvolge per tre giorni moltissime location in città, decine di iniziative, di reading, di presentazioni, di dibattiti, di luoghi di discussioni in materia di libri letteratura e scrittura.
una cosa meravigliosa, almeno sulla carta.
la mia sfortuna vuole che in questo fine settimana sia impegnata in attività che mi impediranno di frequentare i luoghi di questa iniziativa, se non qualcosa oggi pomeriggio, di perdermi Galimberti che presenta il suo libro sulla crisi del sacro e Bergonzoni che legge in metropolitana testi da Joyce e Blake.
volendo si può passare in pasticceria da Gattullo e sentire parole tratte da libri di milanesi di adozione, come la Ortese e altri.
nisba, non posso.
ovviamente sanguino, ma cosa ci posso fare?
in più c'è Fotografica 12, la rassegna di dibattiti, forum e mostre organizzate dalla Canon. tutto sulla fotografia. 
nicht.
un martirio.

domenica alla sala Buzzati c'è anche una festa di compleanno: una anno dalla nascita de "la lettura" questo strepitoso inserto del Corriere della Sera, un lavoro di cultura, di aggiornamento, di approfondimento e ricerca che mi avvince ogni domenica con temi e proposte sempre nuovi. non ci posso andare.
però metto qui, nel mio angolino, un articolo di Ferruccio de Bortoli, uscito domenica scorsa su "la lettura", che mi è piaciuto tanto. 
leggere è amare.
leggere è vivere.


Leggere è amare
Uno squarcio di libertà nelle nostre giornate ci fa uscire dalle solitudini di un mondo interconnesso


Leggevo, e non potrei cominciare questo articolo con un verbo diverso, che quella degli hikikomori, giovani giapponesi che si chiudono in una stanza e decidono di non uscirne più, è la patologia più insidiosa della multimedialità. Non la sola e non limitata a Tokyo e dintorni. La Rete, il computer, i videogiochi, il resto non esiste per questi nuovi reclusi sociali, la cui esistenza si annulla in uno scorrere insistente di immagini che comprime personalità fragili nell’involucro di avatar anonimi. «Il mio corpo andava sempre più indebolendosi e deformandosi — racconta il protagonista de Il Banco vuoto di Antonio Piotti (Franco Angeli) — fino a espandersi in una massa grassa e sporca, ignobile caricatura di ciò che avrei voluto essere». Non sono stati gli psicofarmaci la cura, no, bensì la presenza rassicurante di medici, genitori e amici, capaci di restituire senso alle parole e significato ai sentimenti. Il respiro intenso di una buona lettura, lo sguardo interiore sia sul mondo del teatro sia su quello della musica. Il sapore anche amaro della realtà contro il dolciastro zucchero filato di una vita artefatta intrappolata nella Rete.
Quando, un anno fa, lanciammo «la Lettura», mi capitò tra le mani un libretto di Giuseppe Pontiggia — Leggere (Lucini editore) — illuminante, come lo sono del resto i testi dell’indimenticato Peppo. L’autore raccontava di aver partecipato a un convegno dal titolo «Il tempo e il libro», scoprendo soltanto all’ultimo di essersi preparato, vittima delle assonanze e della distrazione, su un altro tema: «Il tempo libero». Non così distante, però. L’etimologia non giustificava la sovrapposizione fra «libro» e «libero», ma la convergenza era irresistibile, mediata da una terza parola: «tempo». Pontiggia non buttò via la sua relazione. La adattò insistendo sul legame indissolubile fra libro e libertà, citando Seneca che, nelle Lettere a Lucilio, parla del tempo come dell’unico bene che ci appartiene veramente. E il tempo che dedichiamo alla lettura è forse, nello spazio di una giornata, lo squarcio di libertà di cui siamo unici titolari. Non lo condividiamo con nessuno, ma lo facciamo idealmente insieme agli altri, come accadeva nell’antica Grecia, quando un testo veniva letto ad alta voce. «Dobbiamo difendere — scriveva Pontiggia — la lettura come esperienza che non coltiva l’ideale della rapidità, ma della ricchezza, della profondità, della durata. Una lettura concentrata, amante degli indugi, dei ritorni su di sé, aperta più che alle scorciatoie, ai cambiamenti di andatura che assecondano i ritmi alterni della mente». Sono parole straordinarie che descrivono, meglio di tante altre, la bellezza del leggere, l’attività umana più inebriante e ricca. Forse la più sedentaria, ma quella nella quale la mente corre con il coraggio di un eroe mitologico o la temerarietà di Baumgartner che supera il muro del suono in caduta libera. La lettura richiede impegno, sacrificio, costanza, ma non va vissuta come una costrizione o un obbligo. Se un testo non piace lo si può abbandonare senza colpa. Non salva nessuno, non redime nessuno, ma ci dà l’emozione di viaggiare nel tempo, di essere contemporaneamente in più luoghi. Ammette le distrazioni, la poligamia letteraria. Perdona i tradimenti quando abbiamo voglia di passare da un autore all’altro o da un genere all’altro per riposarci, ritemprarci, divertirci. Ma soprattutto ci fa uscire dall’anonimato e dalla massa, dai recinti dei nuovi reclusi, dalle solitudini di un mondo interconnesso, ma composto da molecole che non comunicano tra loro. Non importa il mezzo, il libro o il giornale di carta, il web o l’e-reader. Conta lo spirito. Contiamo noi, come individui e le collettività che rappresentiamo. La lettura misura il nostro grado di civiltà. Nel discorso preliminare all’Enciclopedia, d’Alembert scriveva che «le idee che si acquistano con la lettura (…) sono il germe di quasi tutte le scoperte, è come aria viva che si respira senza accorgersene, e che è necessaria per la vita». E il ragazzo del Banco vuoto non potrà che convenirne.
In un simpatico volumetto dal titolo Libroterapia (Salani), più adatto a un prontuario farmaceutico che a un catalogo editoriale, Miro Silvera spiega conmaestria come la lettura possa curare l’anima. In una delle tante immagini, c’è un Tiziano Terzani, rigorosamente vestito di bianco, intento a leggere nel salotto della sua casa, presumo a Orsigna, in Toscana. Terzani aveva bisogno di silenzio per leggere, faticava a trovare la concentrazione. Gli ambienti affollati lo disturbavano. Ricordo un colloquio con lui in un locale milanese che aveva prenotato lasciandosi ingannare dall’insegna orientale, salvo poi scoprire con disappunto che tutto era falso, a cominciare dal tè. Vero, maledettamente vero solo il brusio, il rumore scomposto degli avventori. «Come potrai mai concentrarti o leggere in un simile caos?», mi chiese. «Ci riesco benissimo, sono abituato». «Io proprio no». Il Terzani terapeutico, ricordato da Silvera, è quello di Un altro giro di giostra (Longanesi), in cui parla della malattia e della bellezza senza tempo della lettura solitaria nel suo eremo, dal quale comunicava con il mondo attraverso il nickname Nemo Nessuni. Il medico migliore è dentro di noi, forse non farà guarire il tuo fisico, ma libererà la tua mente, dandoti la sottile ebbrezza dell’immortalità. Tiziano mi regalò un piccolo fossile che mi è stato purtroppo rubato. Disse: «Lo devi stringere nel tuo pugno e pensare che non vi sia alcuna differenza fra te e lui». Al ladro non ho potuto trasmettere le istruzioni di Tiziano.

La lettura può far bene. Giusto. E anche molto male. Una medicina sbagliata o in dosi errate uccide il paziente. La lettura senza selezione e prudenza, tipica dello sfoglio disordinato e bulimico della Rete, può generare false credenze, alimentare miti pericolosi, cementare gli odii peggiori. Si dirà che accade anche con i libri. È vero e a lungo si è discusso se fosse giusto o no pubblicare tutto, anche il Mein Kampf di Hitler o i falsi Protocolli dei Savi anziani di Sion. Nell’era della multimedialità e del facile accesso a testi di consultazione aperta, il problema non si pone: tutto circola, in un modo o nell’altro. Resta il tema della libertà consapevole del lettore chemai deve essere ridotto a un automa dalla facile e acritica indigestione di testi, falsi e semilavorati di impronta violenta, razzista e antisemita. La Rete ne è ingombra. Il rischio non solo esiste, è addirittura ingigantito. Il lettore può essere affascinato e traviato dai libri, come madame Bovary, ossessionato e rapito come don Chisciotte: è un’osservazione che fa Corrado Augias nel suo Leggere (Mondadori). Il lettore ha i suoi amori, le sue preferenze e le sue manie. Ma resta intimamente se stesso. Quando viene posseduto da testi con verità manipolate, falsi clamorosi, intrisi di violenza e odii, è prigioniero obnubilato. Un recluso della peggiore letteratura o della meno consigliabile saggistica. Un alieno che ha perduto senso della realtà e spirito critico.

«Sappiate scrivere, non leggere, non importa», diceva con aria provocatoria Andrea Zanzotto. Di fatto, siamo un popolo di scrittori mancati, di poeti misconosciuti e di grafomani impenitenti. Ma l’aspirazione a essere grandi lettori è meno diffusa. Nessuno si è mai presentato dame dicendo: «Sono un lettore professionale, non scrivo perché ho ancora tanto da leggere». No, accade il contrario. Tutti hanno un manoscritto, o meglio una chiavetta Usb, con il romanzo della loro vita. La lettura è spesso distratta, superficiale. Nell’era dei social network si ha la presunzione di capire un testo con uno sguardo al titolo, con un veloce scrollare della pagina elettronica, con un ricorso sempre più affannoso ai riassunti modesti e incompleti che un browser incolto ci propone in pochi secondi, in base a una selezione opinabile dai criteri sconosciuti. Ne siamo vittime tutti. Poco consapevoli dei rischi. Il linguista Federico Roncoroni propone invece questo adagio: «Legere necesse est, scribere non est necesse». Non è necessario scrivere, è necessario leggere. E farlo bene. Una buona lettura insegna a dar forma adeguata alle proprie idee, «a organizzare i pensieri in modo logico e consequenziale — dice Roncoroni — sia nella fase dell’elaborazione mentale sia in quella dell’esposizione orale e scritta, abitua a evitare salti concettuali e ridondanze, predispone a usare una lingua corretta, nell’ortografia, nelle concordanze morfologiche e nelle strutture sintattiche, e lessicalmente ricca e variata, scritta nel giusto registro — familiare, colloquiale, formale — a seconda di ciò che si vuole comunicare e a chi lo si vuol dire».

Una bella e dimenticata «Pubblicità progresso» di qualche anno fa, con il nobile intento di promuovere la parola scritta — e non in alternativa all’uso massiccio delle immagini —, mostrava due amici che si rivedevano dopo tanto tempo in una stazione ferroviaria. Abbracci, lacrime e parole spezzate, incomplete. Una grande emozione non trasmessa con le parole e soffocata dagli imbarazzi. Il silenzio è eloquente, ma la conversazione lo è di più. Purché si conoscano più di due parole in croce per trasmettere emozioni e sentimenti. Borges sosteneva che noi non siamo ciò che scriviamo, ma ciò che leggiamo. E la lettura non solo fa bene alla mente e allo spirito, rafforza le identità culturali e civili, protegge dalle sordità contemporanee e incoraggia la virtù dell’ascolto, ma assolve alla tutela di un tesoro nazionale del quale non abbiamo consapevolezza. Ci indigniamo e mobilitiamo (non come dovremmo) per gli sfregi costanti al patrimonio artistico e culturale del Paese, ma assistiamo con colpevole rassegnazione al degrado della nostra lingua, gettata, a volte con disprezzo, nella discarica della storia. «I libri e i giornali — dice ancora Roncoroni — possono arginare il tracollo dell’italiano, salvare per esempio il congiuntivo dall’invadenza dell’indicativo, rivalutare la funzione dei sinonimi per garantire la varietà e la precisione lessicale e almeno rallentare l’ingresso a valanga di inutili parole straniere». Di tutto questo siamo responsabili anche noi. Ma qualche ravvedimento operoso ci va almeno riconosciuto.

Ferruccio de Bortoli

 

Pubblicato da Rossa alle 13:10 2 commenti:
Etichette: amare, City Book, cultura, Ferruccio de Bortoli, Fotografica 12, la lettura, leggere, lettura, libri, milano
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