bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 30 marzo 2018

Era un punto di riposo che la tirava in basso, nella tana promiscua di un’unica famiglia sterminata.

"L’invisibile vocio si andava avvicinando e cresceva, anche se, in qualche modo, suonava inaccessibile quasi venisse da un luogo isolato e contaminato. Richiamava insieme certi clamori degli asili, dei lazzaretti e dei reclusorio: però tutti rimescolati alla rinfusa, come frantumi buttati dentro la stessa machina. In fondo alla rampa, su un binario morto rettilineo, stazionava un treno che pareva, a Ida, di lunghezza sterminata. Il vocio veniva da lì dentro.
Erano forse una ventina di vagoni bestiame, alcuni spalancati e vuoti, altri sprangati con lunghe barre di ferro ai portelli esterni. Secondo il modello comune di quei trasporti, i carri non avevano alcuna finestra, se non una minuscola apertura a grata posta in alto. A qualcuna di quelle grate, si scorgevano due mani aggrappate o un paio d’occhi fissi. In quel momento non c’era nessuna guardia al treno.
... L’interno dei carri, scottati dal sole ancora estivo, rintronava sempre di quel vocio incessante. Nel suo disordine, s’accalcavano vagiti, degli alterchi, delle salmodie da processione, dei parlottii senza senso, delle voci senili che chiamavano la madre; delle altre che conversavano appartate, quasi cerimoniose, e delle altre che perfino ridacchiavano. E a tratti su tutto questo si levavano dei gridi sterili agghiaccianti; oppure altri, di una fisicità bestiale, esclamanti parole elementari come “bere!” “aria!”. Da uno dei vagoni estremi, sorpassando tutte le altre voci, una donna giovane rompeva a tratti in certe urla convulse e laceranti, tipiche delle doglie del parto.
E Ida riconosceva questo coro confuso. Non meno che le strida quasi indecenti della signora, e che gli accenti sentenziosi del vecchio Di Segni, tutto questo misero vocio dei carri la adescava con una dolcezza struggente, per una memoria continua che non le tornava dai tempi, ma da un altro canale: di là stesso dove la ninnavano le canzoncine calabresi di suo padre, o la poesia anonima della notte avanti, o i bacetti che le bisbigliavano carina carina. Era un punto di riposo che la tirava in basso, nella tana promiscua di un’unica famiglia sterminata.
...Della presenza di Ida, rimasta un poco indietro al limite della rampa, non s’interessava ancora nessuno: e lei pure s’era quasi smemorata di se stessa. Si sentiva invasa da una debolezza estrema; e per quanto, lì all’aperto sulla piattaforma, il calore non fosse eccessivo, s’era coperta di sudore come avesse la febbre a quaranta gradi. Però, si lasciava a questa debolezza del suo corpo come all’ultima dolcezza possibile, che la faceva smarrire in quella folla, mescolata con gli altri sudori.
Sentì suonare delle campane; e le passò nella testa l’avviso che bisognava correre a concludere il giro della spesa giornaliera, forse le botteghe già chiudevano. Poi senti dei colpi fondi e ritmati, che rimbombavano da qualche parte vicino a lei; e li credette, lì per lì, i soffi della macchina in movimento, immaginando che forse il treno si preparasse alla partenza. Però subitamente si rese conto che quei colpi l’avevano accompagnata per rutto il tempo ch’era stata qua sulla piattaforma, anche se lei non ci aveva badato prima; e che essi risuonavano vicinissimi a lei, proprio accosto al suo corpo. Difatti, era il cuore di Useppe che batteva a quel modo.
Il bambino stava tranquillo, rannicchiato sul suo braccio, col fianco sinistro contro il suo petto: ma teneva la testa girata a guardare ii treno. In realtà, non s’era più mosso da quella posizione fino dal primo istante. E nello sporgersi a scrutarlo, lei lo vide che seguitava a fissare il treno con la faccina immobile, la bocca semiaperta, e gli occhi spalancati in uno sguardo indescrivibile di orrore.Era un punto di riposo che la tirava in basso, nella tana promiscua di un’unica famiglia sterminata."

la scrittura di Elsa Morante, che non sempre mi piace, soprattutto quando indugia sull'ineluttabilità, sulla miseria, sul destino come forme strutturali stabilite da leggi immutabili divine e ancestrali, è capace, indubbiamente di grandissima drammaticità. la sua è una costruzione scenografica della tragedia, molto toccante, troppo toccante, cinematografica.

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