bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

mercoledì 11 ottobre 2017

Amicizia

Un giorno di fine inverno in montagna un gruppo di persone che si conoscevano poco e si erano trovati per caso su una vetta gelida e piena di vento decisero di fare con gli sci una pista molto lunga e solitaria che portava a una valle lontana. Erano dieci, per una coincidenza felice nessuno di loro era veramente "adulto", anzi, erano tutti più o meno timidi e questo li rese subito fiduciosi uno dell'altro.
Le dieci persone erano: Gioia, una donna con dolci occhi ebraici, pieni di qualcosa di antico e religioso che era il senso della famiglia. Carlo, il marito di Gioia, alto e biondo con lineamenti quadrati e occhi quasi bianchi un poco fantascientifici. Adriana, alta e buona, un pochino ansiosa di essere sempre buona, ma non in anticipo né in ritardo. Mario, marito di Adriana, con molte fragilità vaganti negli arti e nel volto, ma con una testa rotonda piena di bisogno di affetto che riscattava tutto. Guido, il meno "adulto", che sciava senza "stile" dicendo ai dirupi: "Io ti batto", e li batteva; perché lì vicino c'era Silvia, una ragazza-donna dai tratti mongoli, la erre moscia che egli amava (e contemplava) da molti anni, di una bellezza così grande che ogni persona guardata da lei sorridente si sentiva caduca e mortale. Silvia però (senza la presenza di Silvia i dieci non si sarebbero mai trovati insieme per caso) amava: Filippo, un uomo che somigliava ad Achille ma anche a Patroclo, perché "umano", avendo dedicato la sua vita a Silvia. L'ottavo era: Dabcevich (basta così). Poi Pupa, la più sconosciuta di tutti, che abitava molti mesi in montagna, aveva occhi gialli con piccole e grandi macchie nere come il sole e sciava in modo volante e pieno di silenzio, due cose forse sviluppate in quei luoghi durante la sua infanzia per vivere e difendersi nella neve come gli scoiattoli e le lepri. E infine un altro uomo che sapeva fare una cosa sola nella vita, cioè osservare nei particolari (sempre mutevoli) gli altri nove e il tempo; sperando e studiando il modo, senza che nessuno se ne accorgesse, che tutte queste cose fossero in armonia tra di loro.
Partirono uno dopo l'altro dalla vetta,tra spinte di vento e neve, tutti, salvo Pupa e forse Guido che era "incosciente", con un po'di paura perché il primo tratto che dovevano percorrere in quel freddo era cosparso di sassi che affioravano e la neve così sottile aumentava la velocità proprio vicino al punto in cui c'era un burrone e si dovevano fermare. Si ritrovarono in quel punto senza quasi vedersi ma Silvia aveva visto che l'uomo n. 10, l'ultimo, era senza berretto: sfilò dal collo il suo yachting club (grande foulard di seta blu con bandierine di tutti i paesi) e glielo diede. Questi avvolse la testa nel foulard come i pirati e si avviò per primo (tale era stato il benvolere della dea) nella immensa valle bianca in lieve declivio tra gli altissimi monti, che era la seconda parte della discesa. Qui il vento cessò di colpo, e anche il freddo, la velocità divenne alta perché gli sci affondavano nella neve fresca dando sicurezza e il sole illuminava tutti in viso in modo così forte che ognuno provò il sentimento di questa bellezza. Pupa si bilanciava sulle braccia aperte in lunghi Cristiania di una traccia sola (e unica per sempre) che il destino impedì agli altri di seguire: Gioia disse sottovoce a Mario che scendeva al suo fianco: "Come è bello, vero Mario?" e Mario provò per questa frase a lui diretta un attimo di riconoscenza che lei aveva previsto; Silvia si rannicchiò "a uovo" per acquistare velocità (questioni di resistenza all'aria) e così facendo sorrise a se stessa con molto affetto e ironia, Filippo tracciò una sua personale e velocissima scia senza voler competere con Pupa, tutti stavano zitti o parlavano piano, solo Dabcevich, altissimo e stralunato commise un eccesso slavo, o austriaco, o russo, gridò: "Sublime, sublime", con cui si conquistò per sempre la simpatia di tutti, poi "sublime" si perdette nelle grandi arie dei monti e non si udì più nulla. Insomma erano tutti molto felici, in modo così bello da attribuire la ragione di questo sentimento non soltanto alle montagne color rosa, alla neve e al sole ma soprattutto ai propri simili che in quel momento (un momento molto importante della loro vita) erano i dieci puntini colorati nella valle.
La terza parte della discesa presentò "notevoli difficoltà": c'era un passaggio obbligato che dava su un'apparente voragine, in ombra, perciò gelato, che finiva in una vasta conca di nuovo al sole, con una piccola baita. Avendo coraggio si sarebbe potuto scendere senza paura dritti sul ghiaccio, curvare al sole dove la neve è molle ma a forte velocità, e poi ancora dritti nella neve fresca fino alla porta della baita. Le donne, salvo Pupa, non l'ebbero, gli uomini, pochi (Guido, non si sa come, era già arrivato in fondo), Silvia si fermò chiamando aiuto, accorse Filippo ma lei pianse, batté i piedi (con gli sci) e non volle scendere; l'uomo con foulard scivolò in una piccola valle ignota tra neve vergine, capitombolò due volte senza riuscire a fermarsi e pensando al destino, infatti si fermò contro un cespuglio, vide due scoiattoli neri tutti raspanti e pieni di paura e rimase un po' solo a riposare e a pensare. Ma tutto andò bene e quando arrivò alla baita dove Filippo voleva organizzare una spedizione di soccorso, Silvia sorrideva con gli occhi ancora pieni di lacrime.
Il quarto tratto era una stradina sulla costa dei monte, facile, con angoli in cui si scompariva alla vista e dove l'uomo con foulard si fece trovare da Guido, per scherzo, abbracciato a Silvia. Guido passò e disse: "Spiritosi!". Adriana perdette uno sci, e parve una cosa molto seria all'inizio, poi fu ritrovato da Filippo, Pupa, sempre prima, aspettava appoggiata ai bastoncini, ravviandosi i capelli con una forcina in bocca.
Il quinto tratto era una discesa ripida, un po' in ombra, anche semplice ma le caviglie di tutti erano ormai un po'stanche e ci fu qualche caduta, niente di grave. Carlo però disse a Guido e all'uomo con foulard: "seguimi, segui le mie code" oppure: "ecco,gira qui dove giro io" ma con pochissima vanità, cioè con più affetto che vanità e intanto gli altri erano già in fondo alla valle dentro un bosco di giovani larici. Qui dovettero camminare, spingere con le racchette, accaldarsi, svestirsi un poco alla volta. Silvia sfilò il suo berretto bianco di lana di pecora con grande pon-pon, i capelli caddero sulle sue spalle e in quell'istante entrarono in rifugio dove mangiarono uova, prosciutto, pane con granelli di kummel, bevvero vino di una cantina di frati, spedirono cartoline, fumarono, uscirono, presero due tassì e il sole calò. Sorse la luna bianca come la neve nel cielo che diventò subito nero come la pece e tornarono a casa, stanchi.
L'anno dopo i dieci amici (erano diventati amici) si ritrovarono sulla stessa vetta, non per caso, e discesero lungo la stessa pista. A dire il vero non erano tutti e dieci, mancava Dabcevich, e questo dispiacque un po'a tutti, qualcuno dubitò dentro di sé che la sua assenza avrebbe provocato un vuoto non grandissimo ma che avrebbe potuto diventare tale se altri anche piccoli vuoti si fossero formati nella imprevedibile armonia dell'insieme: ma questo non avvenne perché giunti al secondo tratto della discesa qualcuno gridò: "Sublime". Altri ancora dubitavano, perché le cose felici non si ripetono (e invece si ripetono e non si ripetono, non c'è una regola); è vero, c'era qualche differenza, non ci fu bufera all'inizio, il terzo tratto della pista non era più così pericoloso, l'uomo in foulard aveva un berretto (d'altra parte non c'era più il foulard), però si fermarono nella prima baita a bere un vin brulé che l'anno prima non avevano bevuto, si scaldarono al sole che era molto più forte, si scambiarono una crema che sapeva odore ma non sapore, purtroppo, di zucchero orzo e soprattutto uno disse a Silvia, in disparte: "Silvia, prima ti ho guardato, hai qualcosa di diverso, cioè sei più bella ma diversa dall'anno scorso".

" Che cosa ho?""Mah!"
"Dimmelo subito. Che cosa?"
"Hai qualcosa, è vero o no?"
"E che cosa?"
"Non lo so, ma è vero".

Due anni dopo Pupa e l'uomo che chiameremo "in foulard" discesero la stessa pista in una bufera di vento. I sassi spuntavano dappertutto, la pista era sepolta dalla neve, dovettero scendere "a gradini" una parte del primo tratto (non Pupa, l'altro, e Pupa lo guardava con apprensione) coprendosi la faccia con le mani per le lamelle di ghiaccio che soffiavano a molti chilometri all'ora, poi tutto si placò come la prima volta, nel secondo tratto all'apparire della valle serena: il vento scomparve e le nubi, mutevoli come Silvia, si dispersero chissà dove lasciando il cielo azzurro. Anni dopo si ritrovarono ancora in quel tratto di monte e di valle che li aveva resi così felici la prima volta. Poi smisero di ritrovarsi in quei luoghi, passarono anni restando sempre amici e lasciando che altri prendessero il loro posto.

Da I sillabari, Goffredo Parise

Nessun commento: