bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 17 giugno 2016

Fiore

non gridiamo al capolavoro ma un buon tentativo, si, l'ho visto.
ho visto una regia agile e disincantata, una ripresa senza sosta sullo sguardo del mondo, sempre il suo, quello di Daphne, uno sguardo che non stacca mai.
sopra tutto ho visto quegli occhi, quelli di Daphne Scoccia, non so se si tratti di un talento, ma di un dono certamente si.
piuttosto che di un amore che infrange ogni legge con la forza del suo desiderio io parlerei di un destino che si compie in ogni atto e non trova altra possibilità di espressione.
anche l'amore è fuga, anche l'amore non rispetta i limiti, questa è la sua definizione per eccellenza, ma qui  lo incarna in due giovani che sanno scappare, se inseguiti, e correre via veloci molto bene, insieme, tenendosi per mano.
al contrario di La pazza gioia, dove l'edulcorazione porta a vedere una comunità psichiatrica con la stessa impensabile allegria di un agriturismo, qui almeno il carcere minorile non si presenta storpiato da immagini pietose, quel che è è, la privazione è la condizione dell'espiazione. e, per questo, già solo per questo, il film è meritevole.
ma la metafora calza bene, quell'insofferenza alle regole è palpabile, quella reattività impulsiva che porta a strappare i capelli alla prima provocazione, quella noncuranza che risponde sempre a corto circuito, quell'affettività che non sa trovare vie di espressione, anche quando ama, questa si, vivaddio, è espressione di una sofferenza, di un malessere psichico che corrisponde al vero.
in confronto, ancora di più, le matte di Virzì, mi sembrano poco credibili, solo qui ho visto il reale, nella guardia carceraria inflessibile e cruda che porta il nome scomodo, e a volte crudele e implacabile, della legge. ho sentito bene, forte e chiara, quella norma che Daphne non riconosce in nessun modo, e la potenza di quegli sguardi attraverso le sbarre che le addolciscono, seppure solo temporaneamente, il gusto amaro della vita sbandata, selvatica e ribelle.
riconosco una certa cura, narrativa e registica, in quelle mani che accarezzano il viso, gesto che Daphne ripete nei suoi rari momenti di attenzione verso l'altro e che è il gesto del padre, il buonissimo Mastrandrea, di un padre che come incarnazione della legge ha fallito (è agli arresti pure lui) ma che resta l'unico riferimento possibile dell'amore genitoriale. 
va bene, va bene, questo è il cinema italiano che deve crescere, maturare.

Nessun commento: