bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

domenica 8 gennaio 2017

infine, le città invisibili

era BookCity.
sempre il 19. quasi il 20 novembre.
era l'ex Ansaldo.
era notte, c'era anche una tromba che suonava illuminata da luce livida blu.

era tardi e ascoltavo di Moriana, Clarice, Eusapia e Bersabea da gente che non conosco. e che ho invidiato in quel ruolo.
una maratona notturna dedicata alle Città Invisibili (ma anche altro).
mi sono ritrovata in questa narrazione fantastica e ho pensato: Calvino è immenso.
immenso immenso, una mente lucida penetrante acuta colta visionaria.
forse una mente che ha visto, per un attimo, qualcosa della verità.
le avevo già lette, le sue città, ma certe cose non si leggono la prima volta. non si vedono. quel che posso capire ora non ha niente a che vedere con quel che ho letto e capito allora.
la mia mente è cresciuta e le città invisibili sono rimaste tutte lì ad aspettarmi.
pazienti
magiche
esaltanti
orribili
vitali o mortifere
presenti o passate
reali o immaginarie
ricche o povere
lo sforzo di Calvino è, da una parte, squisitamente intellettuale, un esercizio di stile letterario, dall'altra è una costruzione fantastica di un profilo umano, di un carattere irripetibile dell'umanità.
da una città all'altra si rimbalzano immagini architettoniche e destini storici ma si parla di uomini e di desiderio. la costruzione del desiderio (come lo era dell'amore per Fossati che lo vedeva crescere con un grattacielo di cento piani) passa attraverso l'immaginare mille e infinite città fino alla scultura di un volto, quello dell'uomo, e delle sue infinite possibilità espressive.
non c'è un desiderio, non c'è una città, non c'è una via e un suo abitante, non c'è uno stile, non c'è una verità, ce ne sono molti, tanti quanti sono gli uomini che abitano il mondo.
le donne città di Calvino sono invisibili agli occhi, si leggono con la mente, e sono potenzialmente infinite. le donne città di Calvino sono desiderabili e fanno paura, sono una visione impossibile, archeologica e futurista, dell'architettura umana, eppure qualcosa ci tocca. in ognuna di loro, come ogni donna ci tocca, come ogni passione, come ogni talento, come ogni paura, come ogni fantasia.
desiderabile e paurosa, questa è la città donna di Calvino.
su tutto domina il registro di Maro Polo e di Kublai Kan, che insieme inseguono una costruzione fantastica di un impero immenso, commentano atti e evoluzioni, costruzioni e dissolvimenti, vita e morte all'interno di un perimetro possibile, quello delle città e dell'atlante che le contiene.
città di un immenso impero, che ora si allarga e prospera, ora si disintegra e frana, ora promette meraviglie e accessi paradisiaci, poco dopo prefigura futuri infernali e apocalittici,
città senza tempo, quelle di Calvino, si legge e ci si anima di un tempo arcaico, archeologico, decaduto oppure futuribile, inimmaginabile, avveniristico, oppure presente, attuale, inesorabile.
e allora, mi parli di Valdrada e di Despina, poi mi citi Nuova York, Los Angeles, Kyoto?
ma come mi inventi Zoe e Anastasia e poi mi citi Cartagine, Costantinopoli e Gerusalemme?
certo parli di Urbino, un palazzo che anziché sorgere dentro le mura d'una città contiene una città tra le sue mura, e sembri raccontare una tua città invisibile, e così per una Cuzco a pianta raggiata e multipartita che riflette l'ordine perfetto degli scambi, una Messico verdeggiante sul lago dominato dalla reggia di Moctezuma, una Novgorod con le cupole a bulbo, una Lhassa che solleva bianchi tetti sopra il tetto nuvoloso del mondo.
in che luogo siamo?
in che mondo siamo?
in che tempo siamo?
quello dell'uomo? quello del sogno? quello della storia? quello della letteratura?
quello del desiderio: farlo durare e dargli spazio.

Il Gran Kan possiede un atlante i cui disegni figurano l'orbe terracqueo tutt'insieme e continente per continente, i confini dei regni più lontani, le rotte delle navi, i contorni delle coste, le mappe delle metropoli più illustri e dei porti più opulenti. Ne sfoglia le carte sotto gli occhi di Marco Polo per mettere alla prova il suo sapere. Il viaggiatore riconosce Costantinopoli nella città che incorona da tre rive un lungo stretto, un golfo sottile e un mare chiuso; ricorda che Gerusalem sovra duo colli è posta, d'impari altezza, e volti fronte a fronte; non esita nell'indicare Samarcanda e i suoi giardini. Per altre città fa ricorso a descrizioni tramandate di bocca in bocca, o tira a indovinare basandosi su scarsi indizi: così Granada, iridata perla dei Califfi, Lubecca, lindo porto boreale, Timbuctù che nereggia d'ebano e biancheggia d'avorio, Parigi dove milioni d'uomini rincasano ogni giorno impugnando un filone di pane. In miniature colorate l'atlante raffigura luoghi abitati di forma insolita: un'oasi nascosta in una piega del deserto da cui spuntano solo le cime delle palme è di sicuro Nefta; un castello tra le sabbie mobili e le mucche che brucano prati salati dalle maree non può non ricordare il Monte San Michele; e non può essere che Urbino un palazzo che anziché sorgere dentro le mura d'una città contiene una città tra le sue mura. L'atlante raffigura anche città di cui né Marco né i geografi sanno se ci sono e dove sono. Ma che non potevano mancare tra le forme di città possibili: una Cuzco a pianta raggiata e multipartita che riflette l'ordine perfetto degli scambi, una Messico verdeggiante sul lago dominato dalla reggia di Moctezuma, una Novgorod con le cupole a bulbo, una Lhassa che solleva bianchi tetti sopra il tetto nuvoloso del mondo. Anche per queste Marco dice un nome, non importa quale , e accenna a un itinerario per andarci. SI sa che i nomi dei luoghi cambiano tante volte quante sono le lingue forestiere; e che ogni luogo può essere raggiunto da altri luoghi, per le strade e le rotte più diverse, da chi cavalca carreggia remavola. - Mi sembra che tu riconosci meglio le città sull'atlante che a visitarle di persona, - dice a Marco l'imperatore richiudendo il libro di scatto. E Polo: - Viaggiando ci s'accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti. Il tuo atlante custodisce intatte le differenze: quell'assortimento di qualità che sono come le lettere del nome. Il Gran Kan possiede un atlante in cui sono raccolte le mappe di tutte le città: quelle che elevano le loro mura su salde fondamenta, quelle che caddero in rovina e furono inghiottite dalla sabbia, quelle che esisteranno un giorno e al cui posto ancora non s'aprono che le tane delle lepri. Marco Polo sfoglia le carte, riconosce Gerico, Ur, Cartagine, indica gli approdi alla foce dello Scamandro, dove le navi achee per dieci anni attesero il reimbarco degli assedianti, fino a che il cavallo inchiavardato da Ulisse non fu trainato a forza d'argani per le Porte Scee. Ma parlando di Troia, gli veniva d'attribuirle la forma di Costantinopoli e prevedere l'assedio con cui per lunghi mesi la stringerebbe Maometto, che astuto come Ulisse avrebbe fatto trainare le navi nottetempo su per i torrenti, dal Bosforo al Corno d'Oro, aggirando Pera e Galata. E dalla mescolanza di quelle due città ne risultava una terza che potrebbe chiamarsi San Francisco e protendere ponti lunghissimi e leggeri sul Cancello d'Oro e sulla baia, e arrampicare tramvai a cremagliera per vie tutte in salita, e fiorire come capitale del Pacifico di lì a un millennio, dopo il lungo assedio di trecento anni che porterebbe le razze dei gialli e dei nei e dei rossi a fondersi insieme alla superstite progenie dei bianchi in un impero più vasto di quello del Gran Kan. L'atlante ha questa qualità: rivela la forma delle città che ancora non hanno una forma né un nome. C'è la città a forma di Amsterdam , semicerchio rivolto a settentrione, coi canali concentrici: dei Principi dell'Imperatore , dei Signori; c'è la città a forma di York, incassata tra le alte brughiere, murata, irta di torri; c'è la città a forma di Nuova Amsterdam detta anche Nuova York, stimata di torri di vetro e acciaio su un'isola oblunga tra due fiumi, con le vie come profondi canali tutti diritti tranne Broadway. Il catalogo delle forme è sterminato: finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città continueranno a nascere. Dove le forme esauriscono le loro variazioni e si disfano, comincia la fine delle città. Nelle ultime carte dell'atlante si diluivano reticoli senza principio né fine, città a forma di Los Angeles, a forma di Kyoto-Osaka, senza forma.
... 
Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butwa, Brave New World. 
Dice:- Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente. E Polo:- L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

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