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lella costa é mia sorella

così mi dicono. mi sta bene. parlo e scrivo. ma non so recitare...

bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

venerdì 30 novembre 2012

day dream

così hanno chiamato la ridotta esposizione di Irene Kung allo Spazio Forma.

la mostra allargata di Nino Migliori: la materia dei sogni.

ora, non so, ma credo di ci sia un eccesso di significante onirico.
sogni.
non li trovo né nell'una né nell'altro.
i sogni sono una faccenda seria, ma inafferrabile. mostrarli come materia o come visioni diurne...mica semplice.
le foto della Kung poi sono tutto tranne che diurne. quindi? come se li inventano 'sti nomi?
è che onirico piace un casino, mettercelo come il prezzemolo tira parecchio, ma di congruenza non ne vedo, onestamente.
Nino Migliori presenta alcune belle foto della sua Romagna, ma direi ambientazioni del tutto luminose e concrete, bianco e nero, persone, personaggi, paesi, bar, tuffi. una bella rappresentazione della vita, della vita semplice e verace.

la mostra presenta poi dello stesso autore altri lavori che per me hanno un interesse pari a zero, manipolazioni del materiale fotografico che mi lasciano del tutto indifferente. anzi un po' infastidita.
ho provato questa sensazione troppo spesso per non prenderla sul serio. la materia fotografica deve essere autentica. l'inquinamento con tecniche secondarie di ogni tipo tolgono senso, diventano una parrucca che produce un ibrido di nessun valore artistico. né foto né pittura né invenzione. stortura della materia.

Irene Kung propone foto che hanno un impatto visivo un po' terrifico, altro che day dream, un mondo oscuro pauroso, isolato, astratto. notturno e cupo.


sono andata ieri sera alla presentazione.
ahimè.
mammamia.
cosa posso dire: gente che non mi piace.
a partire dalle signore che abitano questo lavoro delle pubbliche relazioni e degli allestimenti di happening che sono tutte in serie, un olezzo di profumo, ognuno il proprio depositato a kg, un look prevedibile oltre alla biondaggine da divisa di signora bene e addentro alle cose di mondo, il taglio e le mechese, fino ad arrivare a un pubblico, sempre un po' troppo aristocratico, che se la tira mica da ridere. "sono qui perchè so di fotografia, perchè so fotografare". tutti immersi in boccette di profumo e tagli sartoriali da centinaia di euro. oppure il tipo opposto, new hippy che ancora ama il capello maschile lungo, magari tenuto insieme da un bell'elastico per fare la coda. poi c'ero io, che non so bene a che categoria appartengo, ma qualcuno lo starà scrivendo da qualche altra parte...
anche le foto della Kung mi piacciono solo fino a un certo punto, sono false, falsate, un prodotto di laboratorio.
un piccoletto di 8 anni al massimo, vestito come un adulto trendy -queste perversioni genitoriali di fare dei bambini dei piccoli adulti alla moda è una cosa da denuncia al tribunale dei minori- un piccoletto molto sveglio e con già molta conoscenza virtuale alle spalle nonostante la sua giovanissima età, si avvicina spavaldo, senza tema e senza paura, nessuna timidezza o senso di una qualche "piccolezza" in lui, e chiede a una delle ragazze dell'agenzia: queste foto sono false, sono fatte al computer vero? non esiste veramente una luce così!
ok, sei travestito da grande , ma sei ancora puro, per fortuna. ancora guardi con gli occhi e l'onestà del tuo cuore.

Pubblicato da Rossa alle 13:22 2 commenti:
Etichette: Day Dream, fotografia, gente, Irene Kung, La materia dei sogni, manipolazione, milano, Nino Migliori, sogni, Spazio Forma

lunedì 26 novembre 2012

Spazzavo via l'aria e l'erba dell'infanzia

Amo le mappe perché dicono bugie.
Perché sbarrano il passo a verità aggressive.
Perchè con indulgenza e buonumore
sul tavolo mi dispiegano un mondo
che non è di questo mondo.
è ancora lei, postuma, ma presentissima.
come mi piace Wislawa Szymborska.
è così spiritosa. in senso letterale, è ricolma di spirito.
ho colto al volo in Feltrinelli la sua raccolta postuma, sono 13 poesie inedite, "Basta così", potrei pubblicarle tutte.
invece mi tocca scegliere, ma è un delitto. e non lo compio fino in fondo...
osserva il mondo lieve e leggera, stupisce sempre nel finale su una questione che potrebbe sembrare da meno, ma, al contrario, è di più.
senza solennità o retorica, eventi piccoli e insignificanti aprono le porte sull'essenziale, sull'eterno.
senza infierire con la morale, è etica in ogni parola.
senza mai puntare il dito, prende posizione senza difetto, senza paura, senza titubanze.
nei suoi dubbi, nei suoi se e ma, nei suoi scusate, nei suoi potrei sbagliarmi, è portatrice di verità, infallibile.
ha un dono così potente espresso così sottovoce che non sembra possibile esista una formula espressiva come la sua.
eppure.
c'è.

C'è chi
C'è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
E' tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.

E' lesto a indovinare il chi il come il dove
e a quale scopo.

Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nei tritadocumenti,
e le persone ignote
dentro appositi schedari.

Pensa quel tanto che serve,
non un attimo in più, perchè dietro quell'attimo sta in agguato il dubbio.

E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione
dalla porta prescritta.

A volte un po' lo invidio
-per fortuna mi passa.

A ognuno un giorno
A ognuno un giorno muore un proprio caro, 
tra l'essere e il non essere 
è costretto a scegliere il secondo. 

 E' duro riconoscere che è un fatto banale, 
incluso nel corso degli eventi, 
conforme a procedura, 

 prima o poi inserito nell'ordine del giorno, 
della sera, della notte, di un pallido mattino; 

 scontato come una voce dell'indice, 
come un paragrafo del codice, 
come una data qualsiasi 
del calendario. 

 Ma è il diritto e il rovescio della natura. 
Il suo omen e amen distribuiti a caso. 
La sua casistica e la sua onnipotenza. 

Solo ogni tanto ci mostra un po' di cortesia - 
i nostri cari morti 
ce li butta nei sogni.

Lo specchio
Si, mi ricordo quella parete
nella nostra città rasa al suolo.
Si ergeva fin quasi al sesto piano..
Al quarto c'era uno specchio,
uno specchio assurdo
perchè intatto, saldamente fissato.

Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
"luogo".

Era come durante le vacanze-
vi si rispecchiava il cielo vivo,
nubi in corsa nell'aria impetuosa,
polvere di macerie lavata dalla pioggia
lucente, e uccelli in volo, le stelle, il sole all'alba.

E così, come ogni oggetto fatto bene,
funzionava in modo inappuntabile,
con professionale assenza di stupore.

Nel sonno
Ho sognato che cercavo una cosa,
nascosta chissà dove oppure persa
sotto il letto o le scale,
all'indirizzo vecchio.

Rovistavo in armadi, scatole e cassetti,
inutilmente pieni di cose senza senso.

Tiravo fuori dalle mie valigie
gli anni e i viaggi compiuti..

Scuotevo fuori dalle tasche
lettere secche e foglie scritte non a me.

Correvo trafelata
per ansie e stanze
mie e non mie.

Mi impantanavo in gallerie
di neve e nell'oblio.

Mi ingarbugliavo in cespugli di spine
e congetture.

Spazzavo via l'aria
e l'erba dell'infanzia.

Cercavo di fare in tempo
prima del crepuscolo del secolo trasciorso,
dell'ora fatale e del silenzio.

Alla fine ho smesso di sapere
cosa stessi cercando così a lungo.

Al risveglio
ho guardato l'orologio.
In sogno era durato due minuti e mezzo.


Ecco a che trucchi è costretto il tempo
dacchè si imbatte
nelle teste addormentate.


Reciprocità
...
E almeno una volta ogni tanto
ci sia l'odio dell'odio.
Perché alla fin fine
c'è l'ignoranza dell'ignoranza
e mani reclutate per lavarsene le mani.


c'è chi si conquista l'eternità, così, con una virgola e un a capo.


Pubblicato da Rossa alle 17:28 5 commenti:
Etichette: Basta così, bellezza, parola, poesia, Wislawa Szymborska

domenica 25 novembre 2012

corpi


“Lo spettacolo della seduzione, ovvero la sua interpretazione, dove il successo non è dettato dalla bellezza, ma dalla capacità di affascinare, di creare il gioco, l’atmosfera, la sorpresa. Le burlesque dancers si mettono in gioco in prima persona, nulla è seriale, finto o scontato, tutto è originale e personale. I vestiti vintage, le musiche, il soggetto dello striptease sono studiati ad hoc per la serata. Ho una propensione e una curiosità naturale verso coloro che sono capaci di uscire dalla propria ordinarietà per trasformarsi in un altro io.” Cesare Cicardini


E' sempre in viaggio, Alessandro Trovati. Per professione, frequenta elettivamente lo sci, gli sport invernali, le Olimpiadi, il ciclismo. Lui è sempre alla ricerca del gesto, del momento topico, dell’uomo solo al comando con la maglia bianco-celeste. Le sue immagini non racchiudono solo l’attimo, ma vivono di un racconto; perché quegli sport si praticano lontano, al freddo o in salita, tra i tanti che hanno deciso di abitare un circo (bianco o olimpico che sia) prima ancora di sapere se ne usciranno vinti o vincitori: tra venti, piogge, nevi, cadute, palpiti, occhi di passione e di fatica. E' una storia di cuore, perché tra le vette, o alle Olimpiadi, in palio c’è la leggenda: la si può scrivere o anche solo farne parte, ma lo spirito è lo stesso.

Alessandro Trovati fotografa gli eventi sportivi. o meglio, i corpi sportivi. che si scorporano.
Cesare Cicardini fotografa le donne. donne, mica belle, solo donne, ovvero bellissime.
(Anita Caprioli, attrice, in viaggio in Cina e Giappone, fotografa. (introvabili)).
a Fotografica 12 non ho concluso assolutamente nulla.
ci sono passata una sera. ho solo odorato un po' di digitale e bianco e nero, burlesque e olimpiadi.
non so cosa non abbia funzionato in me...non ho il senso del limite, vorrei fare tutto, vivo sempre in mancanza. conta ciò che non ho.
ma questa è la vita: mancanza.
questi corpi sono, consistono, e non sono, mancano.
Pubblicato da Rossa alle 23:08 2 commenti:
Etichette: Alessandro Trovati, Cesare Cicardini, corpo, fotografia, Fotografica 12

mercoledì 21 novembre 2012

dall'ortopedico

atteggiamento scoliotico, dicasi.
un classico dell'infanzia, da seguire e curare, in fondo è ancora solo un atteggiamento, stiamoci attenti prima che diventi una postura.
sorvolando su alcuni particolari attinenti alla prenotazione della visita, che mi hanno messa di fronte alla una modalità ormai molto diffusa di alcuni centri che ti propongono a ottobre 2012 una prima visita a maggio 2013...se la fa in convenzione...sennò tra 10 giorni proprio con il medico che vuole lei, sorvolando ma non giustificando in alcun modo un mal costume indecente e immorale della sanità italiana, mi concentrerei su un altro aspetto altrettanto torbido e sconcertante, ovvero il burn out del medico. ortopedico in questo caso.
che poi, se la vogliamo proprio dire tutta, lo capisco, il burn out, l'andare insieme e non farcela più, in uno psichiatra, in un oncologo, in un medico di pronto soccorso (sempre uno da solo per interi turni a sostenere tutto il carico delle urgenze), in un ginecologo (ormai una delle categorie più a rischio di denunce penali da parte del cittadino), ma, francamente, in un ortopedico...
è una branca della medicina noiosa secondo me, personalmente la ritengo, come l'urologia,  più simile a una pratica meccanica una, o idraulica l'altra, che non a una scienza medica. ma potrei parlare da ignorante, o supponente, se qualcuno la sceglie ci sarà un buon motivo. ma non mi è mai e dico mai capitato di incontrare un urologo o un ortopedico gentile e disponibile nella mia vita, da utente e da collega. come mai? secondo me si annoiano. e incomprensibilmente pure se la tirano.
detto anche questo, comunque, se la pratica meccanica dell'ortopedico poi ricade sull'affetto per il piccolo grande uomo, ci scappa anche una riflessione in più.
da una parte ho provato rabbia, ma come cazzo fai il tuo mestiere?, dall'altra moltissima pena, cosa ti ha ridotto a fare così il tuo mestiere?
scartando il centro chiaramente corrotto di malasanità che mi propone una visita tra un anno (ho scritto una mail di protesta all'URP, è nelle bozze, la mando?), mi sono rivolta all'ambulatorio di piazzale Accursio, comodo per me, che è, in verità, un posto dimenticato dal signore. forse già questo mette depressione. tutti svogliati, dalle impiegate, polemiche per un nonnulla, delle accettazioni, alle infermiere sbrigative e buone solo a strusciarsi con il dottore che allude.

ma l'ortopedico è stato un must. il piccolo grande uomo l'ho presentato io, l'orto non lo ha nemmeno guardato in faccia. non gli ha chiesto né nome né cognome, né, udite udite, l'età. legge: problemi di schiena. ma non è, non illudiamoci, una domanda rivolta a me. è solo la lettura pedissequa di quel che c'è scritto sul quesito diagnostico. conosce l'uso dell'interrogativo questo soggetto laureatosi in medicina?
spogliati, stai solo in mutande. si c'è un po' di scoliosi ma non una cosa spaventosa. prego? si può spiegare meglio? no. senza lastra non posso dire nulla.
piegati sulle gambe, lentamente tirati su. il piccolo grande uomo lo fa velocissimo da speedy gonzales ma non gli viene chiesto di ripetere l'operazione come si deve. era una domanda diagnostica o un fiato d'alito? lento o veloce fa lo stesso, vedo ma non guardo, sono qui a fare il dutur ma potrei benissimo non esserci. anzi, non ci sono.
fai sport? si. e nuoto? fino all'anno scorso. (domanda formulabile anche alla nonna. c'è una nonna che non sappia che il nuoto fa bene alla schiena?)
rivestiti.
il finale dell'accurata visita prevede il momento più acuto intelligente e indagativo dell'orto. come ti siedi? 
e il piccolo: bene!
ok.
(vedere come lo fa veramente? piena fiducia nelle parole dello scolaro: forse ha più attitudine per la pedagogia che per la scienza medica delle ossa).
fine della visita.
lastra e prossimo appuntamento.
c'è stato un momento in cui, osservando passiva come si svolgevano le cose e fino a che punto potessero spingersi, allibita, divisa tra incredulità e vergogna, ho accennato, giusto per vedere se ci fosse possibilità di una rettifica del comportamento clinico, a una mia occupazione ospedaliera (ma senza specificare se fossi un medico o meno. ma, come si può immaginare, la domanda non mi è stata formulata. avrà pensato, da buon orto, che come donna sarò stata un'infermiera o un'ausiliaria). l'orto non si è mica spaventato, non si è certo vergognato, non ha fatto, a sé stesso o a me, una domanda. lui ha proseguito per la strada verso la sua perdizione, verso l'annullamento del senso e non si è assolutamente preoccupato di coprire le sue pudenda, così scandalosamente esposte al pubblico. 
si è messo a nudo davanti a una madre e a suo figlio (che rideva alla fine...figa sta visita mamma, veloce), anche una collega, mostrando il decadimento totale della persona, della professione, della professionalità, della decenza. senza vergogna ha mostrato il suo disfacimento fisico e morale, la noia e lo schifo che ammazzano il lavoro, il senso, la motivazione, il rispetto del malato, dell'altro da sé in genere. ma se sei un medico l'altro da sé è in specie, è per scelta, è per volontà specifica di cura. ma pensiamo anche solo alla retribuzione a fine mese, dai, senza farla troppo pesante... gli pagano anche le ferie e i contributi. 
5 minuti di visita. senza anamnesi, senza uno sfioramento corporeo, senza domande né, tanto più, senza risposte alle mie di domande. compilativo, difeso dietro alla sua scrivania, grasso e nudo, arroccato nell'assoluta difesa della lastra. l'avesse avuta tra le mani gli avrebbe coperto meglio quelle oscenità.
dovessi mai portargliela, parlerà come si conviene a un laureato in medicina davanti al suo paziente?
Pubblicato da Rossa alle 13:22 6 commenti:
Etichette: burn out, decenza, medicina, ortopedia, oscenità., professionalità, sanità, vergogna

lunedì 19 novembre 2012

Alegria - cirque du soleil


c'è tutto in questo spettacolo. la bellezza, l'arte, l'allegria e la tristezza, il talento, il canto, il circo, il riso ed il sorriso, i costumi, le luci, le scene, l'orchestra, la maestria e la passione.
è un circuito perfetto. non manca nulla, è una saturazione dei sensi, un'esplosione sensoriale.
potrà sembrare strano ma ho osservato un simbolo particolare che mi ha ipnotizzato e mi ha trasmesso il senso di un'armonia di pensiero e di una riflessione tematica dietro a questa ideazione e rappresentazione così magicamente spettacolare.
molta gente si muove su questo palco circense, gente entra altra esce, c'è sempre movimento sul palco, non c'è mai, anche nei momenti più fortemente esibizionistici, un unico protagonista. c'è una dama bianca, bianca di porcellana e merletti, elegantissima, che tra gli altri avanza e canta. meravigliosamente. leggevo che per questo spettacolo la colonna sonora è stata appositamente ideata e studiata, come per tutti gli spettacoli, ispirata alle musiche italiane di Rota con violini e fisarmoniche. ma si sentono musiche di altri mondi, tango, fado, jazz. la musica si sente molto, si fa sentire moltissimo, eseguita dal vivo da un'orchestra allegra. è la colonna sonora più famosa tra tutti gli spettacoli del cirque du soleil, ha ricevuto molti premi, nota per la canzone che da nome allo spettacolo, cantata in tre diverse lingue. 
ma dietro, appartata, più in disparte, mai avanzata, sempre sullo sfondo c'è una dama nera. stesso abito e foggia della dama che canta, ma nera.
non avanza mai, non fa nulla, è per lo più ferma, sembra che canti le tonalità più scure e segrete.
ma c'è.
ora non so se sono io che mi invento delle visioni, ma quella dama nera, che non si presenta nemmeno per gli applausi finali, ma magari forse solo perché poi impegnata in qualche gioco di maestria corporea che gli fa cambiare d'abito, è una presenza oscura e cupa che dice bene, al mio cuore, che questo è il mondo, che così gira e va, che così è fatto e si muove, anche e forse di più, il mondo zingaro e imprevedibile del circo. come in tutti gli spettacoli di circo c'è la vita che gira a velocità altissima, c'è il corpo che esalta la sua bellezza, la sua sfida alla gravità, alle giunture scheletriche e alle articolazioni, alla paura e al rischio, ma c'è anche un fondo oscuro di tristezza, il retrogusto della vita, c'è il clown che racconta la sua storia triste alla luce della luna con il suo manichino e la sua enorme valigia che, appena aperta, fa spazio a due palloncini che vanno su, e poi su e poi su, e poi via. la dama nera ci ricorda questo. che c'è bellezza, che c'è arte, che c'è magia, e c'è il lato oscuro, dietro, sordo e muto, ma che non ci lascia mai. e che ci ricorda che la vita è questo, e quello. gioia e dolore. luce e buio.
Alegria è il regno del giubilo, evoca le grandi corti regali, è un impianto monumentale, dai colori autunnali, mai troppo plateali, sempre di tono luminoso opaco, pervaso di suoni e sfumature della vita misteriosa. bene non so se deliro, ma se è così come penso, questo spettacolo merita oltre alla mia immensa ammirazione artistica, al mio divertimento fino alle lacrime, alla mia partecipazione emotiva fortissima, alla mia approvazione per una bellezza mimica senza confini corporei, anche la mia adesione più intima e profonda.


Pubblicato da Rossa alle 22:20 Nessun commento:
Etichette: Alegria, bellezza, canto, circo, Cirque du Soleil, dama bianca, dama nera, magia, musica, passione, tristezza, vita

sabato 17 novembre 2012

strabilianti viaggiatori! mostrateci gli scrigni delle vostre ricche memorie, quei magnifici gioielli fatti di stelle e di etere

ma si dai qualcosa ho visto e sentito in questo magico mondo di Book City 2012.

poco poco rispetto a quel che è stato e sarà.
qualcosa di scarso interesse, qualcosa di buono e qualcosa di eccelso.
rimane il fatto che l'iniziativa è oceanica e merita un applauso per il mio bel comune di Milano, caro Pisapia...president for ever..
gran parte dello sforzo si svolge al Castello Sforzesco. è lì non ho sentito niente di speciale...ma non sono riuscita ad entrare nella sala delle armi dove rappresentavano brani da I duellanti di Conrad -che perdita!!- ma in conpenso sono entrata in alcune sale del castello mai viste e..spettacolari. sala Weil Weiss, biblioteca Trivulziana immersa nel bel legno delle librerie, un posto incantato e delicato. vi ho ascoltato le poesie degli alfabeta2, gruppo poetico di avamguardia, e credo di sapere quando si parla di poesia e di qualcosa che nemmeno vagamente le somiglia. la seconda.
sala Bertarelli, sede di un archivio fotografico di Milano...che foto...e poi la presentazione dell'ultimo libro di Gabriele Basilico, fotografo di nota fama.
questa mattina ho rubato letteralmente del tempo al tempo e mi sono fatta un giro velocissimo alla fermata del metrò Garibaldi e mi sono deliziata con un reading di brani da autori vari, Calvino e le sue Città invisibili e Marcovaldo, Baudelaire, Montaigne, Queneau...che delizia ed emozione. mi batteva forte il cuore pensando alla mia gioia e alla gioia di quei due attori che venivamno ascoltati con tanta emozione da me. uno scambio di doni.
questa di Baudelaire ho ascoltato, tra le altre cose, e li avrei baciati dalla gioia quei due attori nel mezzo dei portelli che si aprivano e chiudevano e i plin plon della voce informativa del metrò, della gente che si fermava attratta:

Charles Baudelaire (A Maxime Du Camp)
Il viaggio 

I
Per il ragazzo, amante delle mappe e delle stampe,
l´universo è pari al suo smisurato appetito.
Com´è grande il mondo al lume delle lampade!
Com´è piccolo il mondo agli occhi del ricordo!

Un mattino partiamo, il cervello in fiamme,
il cuore gonfio di rancori e desideri amari,
e andiamo, al ritmo delle onde, cullando
il nostro infinito sull´infinito dei mari:

c´è chi è lieto di fuggire una patria infame;
altri, l´orrore dei propri natali, e alcuni,
astrologhi annegati negli occhi d´una donna,
la Circe tirannica dai subdoli profumi.

Per non esser mutati in bestie, s´inebriano
di spazio e luce e di cieli ardenti come braci;
il gelo che li morde, i soli che li abbronzano,
cancellano lentamente la traccia dei baci.

Ma i veri viaggiatori partono per partire;
cuori leggeri, s´allontanano come palloni,
al loro destino mai cercano di sfuggire,
e, senza sapere perchè, sempre dicono: Andiamo!

I loro desideri hanno la forma delle nuvole,
e, come un coscritto sogna il cannone,
sognano voluttà vaste, ignote, mutevoli
di cui lo spirito umano non conosce il nome!

II
Imitiamo, orrore! nei salti e nella danza
la palla e la trottola; la Curiosità, Angelo
crudele che fa ruotare gli astri con la sferza,
anche nel sonno ci ossessiona e ci voltola.

Destino singolare in cui la meta si sposta;
se non è in alcun luogo, può essere dappertutto;
l´Uomo, la cui speranza non è mai esausta,
per potersi riposare corre come un matto!

L´anima è un veliero che cerca la sua Icaria;
una voce sul ponte: «Occhio! Fa´ attenzione!»
Dalla coffa un´altra voce, ardente e visionaria:
«Amore… gioia… gloria!» È uno scoglio, maledizione!

Ogni isolotto avvistato dall´uomo di vedetta
è un Eldorado promesso dal Destino;
ma la Fantasia, che un´orgia subito s´aspetta,
non trova che un frangente alla luce del mattino.

Povero innamorato di terre chimeriche!
Bisognerà incatenarti e buttarti a mare,
marinaio ubriaco, scopritore d´Americhe
il cui miraggio fa l´abisso più amaro?

Così il vecchio vagabondo cammina nel fango
sognando paradisi sfavillanti col naso in aria;
il suo sguardo stregato scopre una Capua
ovunque una candela illumini una topaia

III
Strabilianti viaggiatori! Quali nobili storie
leggiamo nei vostri occhi profondi come il mare!
Mostrateci gli scrigni delle vostre ricche memorie,
quei magnifici gioielli fatti di stelle e di etere

Vogliamo navigare senza vapore e senza vele!
Per distrarci dal tedio delle nostre prigioni,
fate scorrere sui nostri spiriti, tesi come tele,
i vostri ricordi incorniciati d´orizzonti.

Diteci, che avete visto?

Pubblicato da Rossa alle 23:15 4 commenti:
Etichette: Book City 2012, castello sforzesco, Charles Baudelaire, emozione, il viaggio, letteratura, libri, milano, Waterhouse

venerdì 16 novembre 2012

leggere è amare

oggi a Milano è tempo di City Book, un'iniziativa del Comune che coinvolge per tre giorni moltissime location in città, decine di iniziative, di reading, di presentazioni, di dibattiti, di luoghi di discussioni in materia di libri letteratura e scrittura.
una cosa meravigliosa, almeno sulla carta.
la mia sfortuna vuole che in questo fine settimana sia impegnata in attività che mi impediranno di frequentare i luoghi di questa iniziativa, se non qualcosa oggi pomeriggio, di perdermi Galimberti che presenta il suo libro sulla crisi del sacro e Bergonzoni che legge in metropolitana testi da Joyce e Blake.
volendo si può passare in pasticceria da Gattullo e sentire parole tratte da libri di milanesi di adozione, come la Ortese e altri.
nisba, non posso.
ovviamente sanguino, ma cosa ci posso fare?
in più c'è Fotografica 12, la rassegna di dibattiti, forum e mostre organizzate dalla Canon. tutto sulla fotografia. 
nicht.
un martirio.

domenica alla sala Buzzati c'è anche una festa di compleanno: una anno dalla nascita de "la lettura" questo strepitoso inserto del Corriere della Sera, un lavoro di cultura, di aggiornamento, di approfondimento e ricerca che mi avvince ogni domenica con temi e proposte sempre nuovi. non ci posso andare.
però metto qui, nel mio angolino, un articolo di Ferruccio de Bortoli, uscito domenica scorsa su "la lettura", che mi è piaciuto tanto. 
leggere è amare.
leggere è vivere.


Leggere è amare
Uno squarcio di libertà nelle nostre giornate ci fa uscire dalle solitudini di un mondo interconnesso


Leggevo, e non potrei cominciare questo articolo con un verbo diverso, che quella degli hikikomori, giovani giapponesi che si chiudono in una stanza e decidono di non uscirne più, è la patologia più insidiosa della multimedialità. Non la sola e non limitata a Tokyo e dintorni. La Rete, il computer, i videogiochi, il resto non esiste per questi nuovi reclusi sociali, la cui esistenza si annulla in uno scorrere insistente di immagini che comprime personalità fragili nell’involucro di avatar anonimi. «Il mio corpo andava sempre più indebolendosi e deformandosi — racconta il protagonista de Il Banco vuoto di Antonio Piotti (Franco Angeli) — fino a espandersi in una massa grassa e sporca, ignobile caricatura di ciò che avrei voluto essere». Non sono stati gli psicofarmaci la cura, no, bensì la presenza rassicurante di medici, genitori e amici, capaci di restituire senso alle parole e significato ai sentimenti. Il respiro intenso di una buona lettura, lo sguardo interiore sia sul mondo del teatro sia su quello della musica. Il sapore anche amaro della realtà contro il dolciastro zucchero filato di una vita artefatta intrappolata nella Rete.
Quando, un anno fa, lanciammo «la Lettura», mi capitò tra le mani un libretto di Giuseppe Pontiggia — Leggere (Lucini editore) — illuminante, come lo sono del resto i testi dell’indimenticato Peppo. L’autore raccontava di aver partecipato a un convegno dal titolo «Il tempo e il libro», scoprendo soltanto all’ultimo di essersi preparato, vittima delle assonanze e della distrazione, su un altro tema: «Il tempo libero». Non così distante, però. L’etimologia non giustificava la sovrapposizione fra «libro» e «libero», ma la convergenza era irresistibile, mediata da una terza parola: «tempo». Pontiggia non buttò via la sua relazione. La adattò insistendo sul legame indissolubile fra libro e libertà, citando Seneca che, nelle Lettere a Lucilio, parla del tempo come dell’unico bene che ci appartiene veramente. E il tempo che dedichiamo alla lettura è forse, nello spazio di una giornata, lo squarcio di libertà di cui siamo unici titolari. Non lo condividiamo con nessuno, ma lo facciamo idealmente insieme agli altri, come accadeva nell’antica Grecia, quando un testo veniva letto ad alta voce. «Dobbiamo difendere — scriveva Pontiggia — la lettura come esperienza che non coltiva l’ideale della rapidità, ma della ricchezza, della profondità, della durata. Una lettura concentrata, amante degli indugi, dei ritorni su di sé, aperta più che alle scorciatoie, ai cambiamenti di andatura che assecondano i ritmi alterni della mente». Sono parole straordinarie che descrivono, meglio di tante altre, la bellezza del leggere, l’attività umana più inebriante e ricca. Forse la più sedentaria, ma quella nella quale la mente corre con il coraggio di un eroe mitologico o la temerarietà di Baumgartner che supera il muro del suono in caduta libera. La lettura richiede impegno, sacrificio, costanza, ma non va vissuta come una costrizione o un obbligo. Se un testo non piace lo si può abbandonare senza colpa. Non salva nessuno, non redime nessuno, ma ci dà l’emozione di viaggiare nel tempo, di essere contemporaneamente in più luoghi. Ammette le distrazioni, la poligamia letteraria. Perdona i tradimenti quando abbiamo voglia di passare da un autore all’altro o da un genere all’altro per riposarci, ritemprarci, divertirci. Ma soprattutto ci fa uscire dall’anonimato e dalla massa, dai recinti dei nuovi reclusi, dalle solitudini di un mondo interconnesso, ma composto da molecole che non comunicano tra loro. Non importa il mezzo, il libro o il giornale di carta, il web o l’e-reader. Conta lo spirito. Contiamo noi, come individui e le collettività che rappresentiamo. La lettura misura il nostro grado di civiltà. Nel discorso preliminare all’Enciclopedia, d’Alembert scriveva che «le idee che si acquistano con la lettura (…) sono il germe di quasi tutte le scoperte, è come aria viva che si respira senza accorgersene, e che è necessaria per la vita». E il ragazzo del Banco vuoto non potrà che convenirne.
In un simpatico volumetto dal titolo Libroterapia (Salani), più adatto a un prontuario farmaceutico che a un catalogo editoriale, Miro Silvera spiega conmaestria come la lettura possa curare l’anima. In una delle tante immagini, c’è un Tiziano Terzani, rigorosamente vestito di bianco, intento a leggere nel salotto della sua casa, presumo a Orsigna, in Toscana. Terzani aveva bisogno di silenzio per leggere, faticava a trovare la concentrazione. Gli ambienti affollati lo disturbavano. Ricordo un colloquio con lui in un locale milanese che aveva prenotato lasciandosi ingannare dall’insegna orientale, salvo poi scoprire con disappunto che tutto era falso, a cominciare dal tè. Vero, maledettamente vero solo il brusio, il rumore scomposto degli avventori. «Come potrai mai concentrarti o leggere in un simile caos?», mi chiese. «Ci riesco benissimo, sono abituato». «Io proprio no». Il Terzani terapeutico, ricordato da Silvera, è quello di Un altro giro di giostra (Longanesi), in cui parla della malattia e della bellezza senza tempo della lettura solitaria nel suo eremo, dal quale comunicava con il mondo attraverso il nickname Nemo Nessuni. Il medico migliore è dentro di noi, forse non farà guarire il tuo fisico, ma libererà la tua mente, dandoti la sottile ebbrezza dell’immortalità. Tiziano mi regalò un piccolo fossile che mi è stato purtroppo rubato. Disse: «Lo devi stringere nel tuo pugno e pensare che non vi sia alcuna differenza fra te e lui». Al ladro non ho potuto trasmettere le istruzioni di Tiziano.

La lettura può far bene. Giusto. E anche molto male. Una medicina sbagliata o in dosi errate uccide il paziente. La lettura senza selezione e prudenza, tipica dello sfoglio disordinato e bulimico della Rete, può generare false credenze, alimentare miti pericolosi, cementare gli odii peggiori. Si dirà che accade anche con i libri. È vero e a lungo si è discusso se fosse giusto o no pubblicare tutto, anche il Mein Kampf di Hitler o i falsi Protocolli dei Savi anziani di Sion. Nell’era della multimedialità e del facile accesso a testi di consultazione aperta, il problema non si pone: tutto circola, in un modo o nell’altro. Resta il tema della libertà consapevole del lettore chemai deve essere ridotto a un automa dalla facile e acritica indigestione di testi, falsi e semilavorati di impronta violenta, razzista e antisemita. La Rete ne è ingombra. Il rischio non solo esiste, è addirittura ingigantito. Il lettore può essere affascinato e traviato dai libri, come madame Bovary, ossessionato e rapito come don Chisciotte: è un’osservazione che fa Corrado Augias nel suo Leggere (Mondadori). Il lettore ha i suoi amori, le sue preferenze e le sue manie. Ma resta intimamente se stesso. Quando viene posseduto da testi con verità manipolate, falsi clamorosi, intrisi di violenza e odii, è prigioniero obnubilato. Un recluso della peggiore letteratura o della meno consigliabile saggistica. Un alieno che ha perduto senso della realtà e spirito critico.

«Sappiate scrivere, non leggere, non importa», diceva con aria provocatoria Andrea Zanzotto. Di fatto, siamo un popolo di scrittori mancati, di poeti misconosciuti e di grafomani impenitenti. Ma l’aspirazione a essere grandi lettori è meno diffusa. Nessuno si è mai presentato dame dicendo: «Sono un lettore professionale, non scrivo perché ho ancora tanto da leggere». No, accade il contrario. Tutti hanno un manoscritto, o meglio una chiavetta Usb, con il romanzo della loro vita. La lettura è spesso distratta, superficiale. Nell’era dei social network si ha la presunzione di capire un testo con uno sguardo al titolo, con un veloce scrollare della pagina elettronica, con un ricorso sempre più affannoso ai riassunti modesti e incompleti che un browser incolto ci propone in pochi secondi, in base a una selezione opinabile dai criteri sconosciuti. Ne siamo vittime tutti. Poco consapevoli dei rischi. Il linguista Federico Roncoroni propone invece questo adagio: «Legere necesse est, scribere non est necesse». Non è necessario scrivere, è necessario leggere. E farlo bene. Una buona lettura insegna a dar forma adeguata alle proprie idee, «a organizzare i pensieri in modo logico e consequenziale — dice Roncoroni — sia nella fase dell’elaborazione mentale sia in quella dell’esposizione orale e scritta, abitua a evitare salti concettuali e ridondanze, predispone a usare una lingua corretta, nell’ortografia, nelle concordanze morfologiche e nelle strutture sintattiche, e lessicalmente ricca e variata, scritta nel giusto registro — familiare, colloquiale, formale — a seconda di ciò che si vuole comunicare e a chi lo si vuol dire».

Una bella e dimenticata «Pubblicità progresso» di qualche anno fa, con il nobile intento di promuovere la parola scritta — e non in alternativa all’uso massiccio delle immagini —, mostrava due amici che si rivedevano dopo tanto tempo in una stazione ferroviaria. Abbracci, lacrime e parole spezzate, incomplete. Una grande emozione non trasmessa con le parole e soffocata dagli imbarazzi. Il silenzio è eloquente, ma la conversazione lo è di più. Purché si conoscano più di due parole in croce per trasmettere emozioni e sentimenti. Borges sosteneva che noi non siamo ciò che scriviamo, ma ciò che leggiamo. E la lettura non solo fa bene alla mente e allo spirito, rafforza le identità culturali e civili, protegge dalle sordità contemporanee e incoraggia la virtù dell’ascolto, ma assolve alla tutela di un tesoro nazionale del quale non abbiamo consapevolezza. Ci indigniamo e mobilitiamo (non come dovremmo) per gli sfregi costanti al patrimonio artistico e culturale del Paese, ma assistiamo con colpevole rassegnazione al degrado della nostra lingua, gettata, a volte con disprezzo, nella discarica della storia. «I libri e i giornali — dice ancora Roncoroni — possono arginare il tracollo dell’italiano, salvare per esempio il congiuntivo dall’invadenza dell’indicativo, rivalutare la funzione dei sinonimi per garantire la varietà e la precisione lessicale e almeno rallentare l’ingresso a valanga di inutili parole straniere». Di tutto questo siamo responsabili anche noi. Ma qualche ravvedimento operoso ci va almeno riconosciuto.

Ferruccio de Bortoli

 

Pubblicato da Rossa alle 13:10 2 commenti:
Etichette: amare, City Book, cultura, Ferruccio de Bortoli, Fotografica 12, la lettura, leggere, lettura, libri, milano

giovedì 15 novembre 2012

i delitti della nostalgia

è recentissima la scoperta di quanto mi piaccia Jaspers.
in fondo sono di un'ignoranza senza fine. più vado dentro, meno so, e più mi sembra di non andare avanti.
ero a un convegno sabato mattina -come faccio a spiegare la fatica che ho fatto a tirarmi su  o giù dal letto? quale linguaggio mi farebbe da supporto nel rendere l'idea?- e lì ho capito in modo inequivocabile che la definizione del mio analista che mi dice affetta da angoscia di posizione, è veramente azzeccata. nel pomeriggio di venerdì ero a un convegno puramente psichiatrico, farmaco cinetica long-acting psicosi efficacia effetti collaterali, e ho pensato di morire dalla noia ripetendomi di continuo: cosa ci faccio qui? la mattina dopo mi trovavo invece nel solito buon consesso psicoanalitico lacaniano e non mi annoiavo per niente, cercavo disperatamente di cogliere IL SENSO di tutto, ovvero  il senso di me?, ma alla fine mi facevo la stessa domanda: cosa ci faccio qui?
non sono una cosa né l'altra. non sono. non so mai dove stare, cosa fare, che nome darmi.
mi sono messa nei casini decenni fa. ho studiato farmacologia clinica per poi fare la psichiatra e ora studiare da psicoterapeuta. un viaggio psichedelico, non una cosa sana e normale. nella maggior parte dei casi mi sembra solo di essere una persona di buon senso, obiettivo per il cui conseguimento non serve studiare proprio niente e nemmeno sbattersi giù da un letto alle sette di sabato mattina dopo un massacro lavorativo di 5 giorni 5.
per cercare di tirarmi su leggo e ascolto di tutto, anche un tipo veramente in gamba, certo Federico Leoni, che mi ha parlato di Jaspers con quella meravigliosa capacità  che possiedono in pochissimi di cogliere l'interesse dell'altro, di farlo germogliare con l'acqua fertile della passione e della padronanza dialettica. Jaspers è stato uno psichiatra e filosofo tedesco della prima metà del novecento (è morto a Basilea nel 1969), contemporaneo (ma certamente più giovane) e non proprio in rapporti di reciproca simpatia con Freud.
il fascino per me sta proprio in questo, in una figura antitetica a quella freudiana, spinta da una ricerca che nega la psicoanalisi, ma sostenuta da un pensiero originale, etico, profondo.
in fondo Jaspers e Freud, pur perseguendo due pensieri diversi, due ideologie, due concezioni del mondo psichico differenti, hanno tracciato la via dell'innovazione contro la psichiatria riduzionista conservatrice impersonale e inumana di quei tempi. per entrambi, che si tratti di psicologia o di psichiatria, di  rapporto con il sociale o posto nel mondo, il centro, il nodo è il soggetto. potrebbe sembrare scontato ma a quei tempi non lo era affatto. fu Jaspers a interessarsi della biografia del paziente, a ricostruirne la storia, i movimenti, gli incontri nel tentativo, sempre, di ricomporre un senso, il senso di una vita e della sua evoluzione nella follia. la follia, il malessere psichico, non è una devianza disumana, non è una perdita di dignità, uno spostamento nell'asse dell'esistenza, un malfunzionamento di una macchina, ma ha sempre qualcosa da dire. Il sintomo è un simbolo e comprenderlo significa rintracciare invece i nessi interni che conducono da un significato all’altro, riannodare la trama di quella storia. la parola d'ordine di Jaspers e della sua psichiatria fenomenologica era vita. o forse, meglio ancora, esistenza.
nella ricerca fenomenologica di Jaspers l'esistenza al mondo di quel soggetto permetteva di capire, con uno sforzo di comprensione totale, in nucleo, il nodo, il movimento che avrebbe portato a interpretare il gesto l'atto il pensiero folle di quell'uomo o di quella donna. è una ricerca interessante che esclude l'inconscio, quel mondo che parla a nostra insaputa, che agisce senza che noi lo sappiamo. è una visione dell'uomo nel mondo, una visione in cui grazie all'osservazione del modo di vivere il tempo, lo spazio, il corpo di quel soggetto se ne può comprendere il movimento psichico, lo sviluppo dell'esperienza. Jaspers diceva, con grandissima saggezza, che si può sapere tutto della schizofrenia ma non aver capito nulla di questo schizofrenico. essere clinico non significa amministrare un sapere acquisito, significa ogni volta capire da capo, ogni volta ricostruire i sintomi, ogni volta ricomporre e intuire per quel paziente il filo conduttore di un'esistenza. lo psichiatra si trova quindi sempre più a confrontarsi con l’individuo nella sua totalità e nella sua irripetibile singolarità: a partire da una descrizione clinica del contenuto psichiatrico si muove verso una più attenta analisi che ha per oggetto lo studio sistematico delle esperienze vissute dall’individuo all’interno della propria persona. lo psichiatra rivolge il proprio interesse su che cosa gli uomini provano, vivono e soprattutto come lo vivono, cioè i ‘modi’ con i quali il dato di coscienza si manifesta, si articola e si sussegue ad altri, volgendo lo sguardo al di là del semplice aspetto descrittivo e nosografico, anche se comunque privo di ogni aspetto interpretativo. la psicopatologia di Jaspers si pone come il contrario di un sapere interpretativo e non riconduce la conoscenza dell’esperienza psichica a una forza altra e inversa, che soggiace a qualche potere interno e inconscio della persona.
la posta in gioco in quegli anni era molto alta, si trattava di poter ammettere che l'inconoscibile alla fine residua in tutti noi, come volevano Freud e poi Lacan e molti altri dopo di loro, e come forse lo stesso Jaspers alla fine dei suoi studi ammise egli stesso, o se tutto fosse spiegabile, comprensibile, interpretabile. tutto è spiegabile con un linguaggio comune, che annulla differenze e stigma, o c'è qualcosa in noi di non interpretabile nel linguaggio comune, che resiste alla tentazione capitalistica del voler comprendere tutto?

sono state pubblicate in queste settimane le notizie di queste due donne che lavoravano, negli Stati Uniti, come baby sitter e che hanno ucciso i bambini a loro affidati. quando Jaspers cominciò la sua carriera nella clinica di Heidelberg, si imbattè in casi del tutto sovrapponibili che egli definì i "delitti della nostalgia." si trattava di donne che provenivano da contesti sociali molto diversi rispetto alla famiglie borghesi e benestanti per le quali lavoravano in città, provenivano dalla campagna dove spesso avevano abbandonato un figlio per trovare un lavoro che permettesse loro di sostentarsi. si trattava di donne che allevavano figli di altre famiglie lontani dai propri, che vivevano con conflitto lacerante la separazione dai propri figli dopo averli messi al mondo, costrette all'allontanamento per poterli nutrire. ma non del loro amor nè della loro presenza. non so se i delitti recenti siano riconducibili a queste vicende, non ne conosco la biografia, ma credo che Jaspers le avrebbe studiate, comprese, in termini fenomenologici e forse le avrebbe definite allo stesso modo.

«il campo della psicopatologia si estende a tutto lo psichico che possa essere colto in concetti di valore immutabile e comunicabile. L’oggetto della psicopatologia è l’accadere psichico reale e cosciente» (Psicopatologia generale, 1913). 
Pubblicato da Rossa alle 23:40 4 commenti:
Etichette: delitti, fenomenologia, inconscio, Karl Jaspers, nostalgia, posizione, psichiatria, soggetto

lunedì 12 novembre 2012

desde el alma

magari un post ci stava, anche se sul tango ho già scritto e riscritto.
giravano in tondo sul palco del Dal Verme, domenica scorsa, coppie di allievi e coppie di maestri.
(spettacolo di chiusura della seconda edizione dell'International Zucca Tango Festiva: Tango… desde el Alma con Miguel Angel Zotto e Daiana Guspero, l’Orquestra Minimal Flores del Alma, la partecipazione degli allievi del primo seminario di Tango Escenario e tutti i Maestri del Festival).
i primi mi facevano tenerezza, i secondi molto meno. facevano qualcos'altro.
c'è da dire che nel tango va la donna morbida e questo è sempre un gran sollievo per noi curvilinee. e la donna magra che balla il tango è francamente inguardabile. no no, non è per campanilismo. mi darebbero ragione anche i seguaci del braccio a fronda secca e della gamba a sigaretta dei quali si intravede chiaramente l'osso.
c'è da dire che i maschi, in genere, ma soprattutto i maestri, i galli, sono truzzi da non poter dire, quei vestiti gessati con scarpa stringata bianca sono un ostacolo alla digestione e alla fantasia.
ma c'è da dire anche che, quando vedo certe coppie, un paio in particolare, di cui una con una lei bellissima, e un'altra con un assortimento felice di bellezza fisica ed eleganza, la domanda che mi assilla per tutto il tempo in cui le guardo è: come scoperanno insieme?
magari sono due fantasmi, già si strusciano abbastanza e si sublima tutto lì, ma secondo me no...no no.
se questo è un post...


Pubblicato da Rossa alle 17:39 3 commenti:
Etichette: Desde el alma, sesso., tango, teatro Dal Verme

mercoledì 7 novembre 2012

tutte queste cose delicate

sono andata a Brescia e ho visto una mostra, privata, presso la Galleria Massimo Minini, poche foto, di Francesca Woodman.
c'erano anche foto di Letizia Battaglia, una fotoreporter molto agguerrita -appunto- che si occupa di rappresentare e raccontare la mafia da sempre, ma non posso dire che le sue foto siano minimamente confrontabili con quella della Woodman. i due generi ovviamente non lo sono, e, in generale il fotogiornalismo mi cattura poco, a volte non mi piace, a volte è un eccesso di realtà più vero del reale. se almeno le foto di ritratti crudi e scarni, di delitti, di morti, di madri disperate e guardie del corpo con magnum e il colpo in canna hanno un senso di testimonianza forte e inesorabile, certe ricostruzioni, fotomontaggi, con associate figure di donne nude sono francamente insopportabili. 
la Woodman ha invece una potenza espressiva notevolissima, esprime un sondaggio sul corpo ridotto a cosa ed esaltato a simbolo -due faccende diverse eppure a me sembrano ugualmente presenti- veramente singolare e incisivo. chiedendo informazioni sono venuta a conoscenza che le foto di Francesca vengono vendute a 4.000 euro, che la famiglia, madre e padre, hanno duplicato le foto della figlia e vendute in tutto il mondo, a tiratura nemmeno troppo limitata.
io mi fermo qui e non esprimo giudizi perchè non ne ho, veramente, ma questa notizia della famiglia che sopravvive al suicidio di una figlia di 22 anni e ne vende le foto ancora a 30 anni di distanza dalla morte ha avuto, su di me, un qualche tipo di effetto. ha prodotto in me una domanda, senza risposta lo assicuro, ma una domanda si.





un corpo rappresentato così racconta di un'inquietudine.
"Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate".
e di un mistero prezioso.
ci sono luoghi e oggetti ricorrenti, sedie, cornici, fiori, scale. 
atmosfere angoscianti, visionarie e surreali.
autoritratti in luoghi decadenti sporchi scrostati, stanze semivuote e fatiscenti.
immagini sfumate, corpi imprendibili, ripresi in un angolo della stanza, poi privati ora delle gambe, ora della testa oppure nascosto da un velo o da uno specchio.
è un lavorio di ricerca, di autoanalisi, a tratti l'angoscia dell'oggetto-corpo concretizzato a tratti l'esaltazione della bellezza sfumata evanescente della consistenza di un fantasma.
leggo Jaspers in questi giorni, psichiatra fenomenologo e filosofo tedesco della prima metà del novecento,  a proposito dell'esperienza di corpo. in fondo il corpo è il nostro primo oggetto. il corpo lo vediamo da dentro e da fuori, il corpo è sempre vissuto in una duplice visione, esterna e interna, intima ed estranea, propria e impropria,. una visione, se vogliamo, follemente duplice, per tutti. basterebbe guardare gli specchi di Francesca per capirlo, ma anche senza quelli, anche quelle sfumature, quelle presenze-assenze, quelle cadute e sospensioni sono il segnale potentissimo della duplicità del corpo di tutti, di quello di Francesca in specie.
sono grata a chi me l'ha fatta conoscere (http://francescomariacolombophoto.com/?p=157), fino a spostarmi a Brescia in un sabato di pioggia, sono grata a chi mi permette di vederne le foto, le sono grata per la storia che mi racconta, senza mai svelarla, un enigma di quelli che mi fanno riflettere sulla vita e sul rispetto.
penso a una vita così, che muore.

Pubblicato da Rossa alle 22:34 2 commenti:
Etichette: bellezza, corpo, Francesca Woodman, Galleria Massimo Minini, Letizia Battaglia, morte, oggetto, vita
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