bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

mercoledì 23 luglio 2014

i non-luoghi

dopo aver letto del senso dei luoghi di Wim Wenders , mi sono ritrovata, ne La lettura di un paio di settimane fa, nei non-luoghi descritti da Carlo Bordoni.
le due visioni coincidono perfettamente, se il primo è un pieno di senso della vita, è il ritrovamento di una pace e di un orientamento personali, è un'appartenenza, i secondi sono l'alienazione e le depersonalizzazione globali che permeano la nostra vita, apparentemente solo quella commerciale in realtà anche quella spirituale. bisogna scegliere, io temo, in che posizione mettersi, rispetto a un luogo, se dentro o se fuori, se esserci o se non esserci, se abitare corporalmente e mentalmente o permanere nel non-spazio della virtualità sospesa. anche stare è una scelta etica.
«Gli artisti non devono mai accettare e tollerare quel che accade. Ma devono insegnare a vedere; affrontare il mondo con serietà. Non possono limitarsi ad accogliere la spazzatura che ci circonda. Hanno l’obbligo di scegliere: lasciarsi inquinare o trovare alternative etiche. È allora che scatta la risposta dei nostri occhi, della nostra mente. Un film, una fotografia o un quadro possono guarire l’anima spezzata. È, questa, la nostra responsabilità come artisti: non rinunciare mai. Ma proteggerci dal cinismo dominante. Smascherare i trucchi nascosti dietro la valanga di cose false che ci assediano. E dare spazio a immagini diverse».
e dopo Wim Wenders e le sue sante parole, il bellissimo articolo di Bordoni e la sua mirabile analisi.

Ma oggi la merce sembra produrre senso solo al supermercato 
di CARLO BORDONI

C'era una volta l'oggetto d'affezione. Conservato con cura, tramandato di padre in figlio, ricco di significato. A volte ragione di vita, più spesso legame identitario da mostrare pubblicamente con orgoglio, come status symbol. Ma la liberazione dell'oggetto dalla sua funzionalità pratica e la sua collocazione sul piano estetico, già dal momento in cui Jean Baudrillard ne esaltava la centralità regolatrice nella società dei consumi (Il sistema degli oggetti, 1968), ha modificato il suo rapporto col mondo. Se è vero che, come scrive Adriano Favole, c'è un recupero del valore affettivo delle cose, in ragione della loro capacità di conservare la memoria e testimoniare l'abilità umana del fare artigianale, le merci — dopo la fase iperconsumistica della società occidentale —hanno subito una drastica riduzione di significato. 
Negli ultimi anni l'oggetto ha smarrito la sua capacità intrinseca di produrre senso, si è fatto amorfo, «disaffettivo», scoria di un tempo perduto, in cui ricercare almeno l'utilità marginale. Che cosa è accaduto all'oggetto estraneo a quel «recupero di senso» di cui scrive Favole? Perché ha perduto l'aura che lo rendeva quello speciale, necessario, insostituibile «oggetto del desiderio»? C'è stato uno spostamento significativo, uno scivolamento dal «testo al contesto», dalla cosa in sé al contenitore in cui è conservato e mostrato pubblicamente. 

Si tratta, a ben vedere, di una vera «socializzazione» dell'oggetto, dove a produrre senso non è più la cosa, ma il suo rapporto con ciò che la circonda: le altre merci, l'arredo, la vetrina, la pubblicità, la stessa dilatazione dello spazio scenico in cui è collocato. Questa innovazione, questa trasformazione in direzione del socialmente condiviso è molto importante nel momento in cui l'oggetto viene sottratto al suo contesto pubblico e, per così dire, privatizzato; per effetto del processo di acquisto è trasferito dall'offerta collettiva, in cui è visibile a tutti, all'uso personale del singolo. La merce si abbrutisce immediatamente nella deposizione casuale all'interno del carrello della spesa e nello sguardo indifferente della cassiera. Verrebbe quasi voglia di riporlo sullo scaffale accanto ai suoi simili, ma ormai è troppo tardi: è stato desacralizzato, reciso, tolto dal ramo e può solo sfiorire nella sua materialità, divenuta di colpo inutile. Appare così superata la questione dell'obsolescenza programmata, per cui il bene strumentale è costruito in maniera tale da perdere valore d'uso dopo un periodo di tempo limitato, sostituita da una valorizzazione sociale che sfuma al momento stesso dell'acquisto. L'oggetto si «spegne» e si svuota di significato sociale. 
Perché nella società liquida anche gli oggetti hanno sofferto lo smarrimento delle loro certezze, il potere universalmente riconosciuto di rappresentare un valore di per sé, in favore invece di un significato indotto dal luogo, dal contesto e dalle modalità in cui vengono presentati all'offerta collettiva. Questo processo, tipico del nostro tempo, è la spettacolarizzazione, cioè la focalizzazione di una cosa, di un evento, di una o più persone attraverso un processo comunicativo, finalizzato a conferire un valore e un senso che di per sé non avrebbero. 
Nel caso degli oggetti, questo processo avviene in un particolare contesto, dove le merci sono esposte e offerte al pubblico con sapienti accorgimenti di marketing, packaging, collocazione, pubblicità, tali non solo da renderli appetibili per la loro estetica, per il senso di abbondanza e di disponibilità che comunicavano, ma soprattutto perché «socializzati», dotati di un valore collettivo che è dato proprio dalla loro presenza in quel luogo particolare. La spettacolarizzazione attira l'attenzione, produce significati e, quindi, bisogni. Compito che è assicurato dalle grandi «architetture collettive adibite ad attività legate all'acquisto collettivo», capaci di realizzare una sorta di «metropolizzazione» del sociale, come rivela Vanni Codeluppi in Metropoli e luoghi del consumo (che inaugura la nuova collana «Sociologie», Mimesis 2014). Spazi urbani artificiali, luoghi d'incontro alternativi alle città, che richiamano l'antico desiderio dell'agorà e del borgo a misura d'uomo, poiché «non esiste più una civitas urbana — scrive Codeluppi — con le sue piazze e le sue strade indispensabili al funzionamento del modello moderno». Di quel modello di modernità entrato in crisi da tempo. 

Queste architetture sono le «super-merci», dislocate in un territorio generalmente distante dai centri urbani, dove si arriva in auto, caratterizzate da grandi spazi, da parcheggi gratuiti, da servizi di ristorazione e cura personale, dall'apertura continuativa, dall'accoglienza festosa, dall'abbondanza dell'offerta, dalla spettacolarizzazione delle merci e da un'assoluta autoreferenzialità, tutta concentrata al proprio interno, che induce a un senso di isolamento psicologico e finalizza l'attenzione su tutto quanto è esposto. Dentro, quasi sempre privi di finestre, sono cancellati (notte/giorno, luce/buio), sono soppressi gli orologi e rinnovati continuamente gli arredi per dare un'impressione di brillante attualità. Qui vige la pratica della «ikeizzazione», dell'esibizione di oggetti lungo un percorso obbligato, senza aperture, senza distrazioni, che termina con i magazzini e con le casse, secondo il principio dei parchi a tema: «Nulla che non sia il parco deve essere visibile dall'interno del parco» (Giandomenico Amendola). O meglio un «non-luogo» dove, secondo la ben nota definizione di Marc Augé, si attua la spersonalizzazione dell'individuo. Perché si tratta dei grandi centri commerciali, delle cattedrali della vendita al minuto, descritte da George Bitzer, dove si praticano i riti di una religiosità pagana, meta di flussi inarrestabili di pellegrinaggio consumistico. 
I «non-luoghi»— si sa — sono caratterizzati dall'isolamento e dallo spaesamento dell'individuo, perché slegati da un preciso contesto sociale e culturale, dove si vive un segmento di esistenza in una condizione provvisoria e destabilizzante (sintomatico è il capogiro che può cogliere entrando in un supermercato). Sono occasioni di destrutturazione dell'identità, dove la presenza di sé si giustifica solo con il denaro o la carta di credito esibiti al momento dell'acquisto. In realtà è qui che si rinnova quel «reincanto del mondo» che, secondo Max Weber, si era venuto perdendo per effetto dei processi di razionalizzazione e burocratizzazione, attraverso il recupero di una dimensione mistica, di quella sacralità dell'oggetto di consumo dal precario valore sociale, ben rappresentato dall'affidamento alle nuove tecnologie (indicato da Michel Maffesoil e Ritzer). Un «reincanto» che si dimostra nelle occasioni d'incontro e di aggregazione dei giovani, per niente disturbati dall'alienante ritualità dei centri commerciali, perfettamente a loro agio nei «non-luoghi» dove si ripropone l'idea di un mondo fatto di un eterno presente, lontano dalla famiglia e dalla scuola, fuori dal tempo e dallo spazio, così simili alla realtà virtuale dei rassicuranti social network.

3 commenti:

corte sconta ha detto...

quanta cruda verità in queste parole..spero in inversioni di tendenza,credendoci poco.buona serata Rossa.

Rossa ha detto...

ma l'importante è che ognuno compia la propria controtendenza, o no?
ciao carissimo...

corte sconta ha detto...

certo:della serie si "salvi" chi vuole,o, per lo meno,lotti contro la vacuità imperante,dilagante,dei nostri tempi(e comunque periodi storici peggiori ce ne sono stati non credi?).va boh la finisco qui.ciao alchimista.