che libro sconcertante.
un mistero.
un intreccio di sensazioni osservazioni punti di vista giudizi sospensioni immedesimazioni e negazioni.
di identificazioni forti ma negate, camuffate, specchiate.
«Madame Bovary c'est moi», diceva Flaubert
c'è un intento un po' perverso in questa dichiarazione. ambiguo. spiazzante
Flaubert mette in mostra questa creatura così infelice ed incerta, così artefatta e fragile, così borghese anche se ribelle alle norme morali della borghesia, così, diciamocelo, povera di tutto.
esaltata da un'idea romantica di amore ma, di fatto, completamente totalmente radicalmente priva di capacità di amare.
Emma posa, finge le pose dell'amore, come davanti a un obiettivo, da bella isterica quale è.
Emma non è intelligente. Emma ha poche risorse personali, Emma sogna fuori dalla sua realtà, Emma si muove senza sapere quello che fa, come mossa dall'esterno, senza consapevolezza, mossa da fili sottili invisibili. mossa dal suo autore? la sua presentazione è, secondo me, spietata.
Emma è immersa in una cultura da rotocalco, misera e vuota di significati, ridondante di luoghi comuni e immagini scontate, potrebbe essere un personaggio televisivo di oggi, una partecipante del grande fratello, una fruitrice di tronisti, una consumatrice di oggetti vuoti ma immediati che rimandano al suo vuoto interiore.
anni fa, alla mia prima lettura di Madame Bovary, avevo poi letto Cercando Emma, di Dacia Maraini.
ne ritrovo ora alcune pagine e mi trovo d'accordo sulle sue considerazioni.
nel libro di Flaubert c'è un incipit, un inizio che lascia senza parole. Flaubert inizia così: «Stavamo studiando quando entrò il rettore». Scrive la Maraini:
«Stavamo studiando quando entrò il rettore», frase che implica la scelta di un
preciso punto di vista: un testimone, un ricordo, qualcuno che ci racconta di un
suo compagno di scuola poi finito medico a Yonville eccetera.
Ma questo io
narrante lo perdiamo già alla fine del primo capitolo. Si tratta di una perdita
volontaria, di un capriccio, di una dimenticanza, di un lapsus?
Vista la
pignoleria quasi maniacale dello scrittore, direi che si tratta piuttosto di una
spia messa li a indicarci uno stato di incertezza prospettica che accompagnerà
tutto il libro. Che il lettore si confonda pure, il romanzo è tutto impastato di
questa incertezza dei punti di vista che ne costituiscono la sottile
originalità.
Emma è lo specchio di Flaubert, della sua sessualità incerta, era attratto in modo ambiguo dalle donne, legato in modo simbiotico alla madre, aveva avuto esperienze omosessuali. Emma è anche il riflesso della sua amante dell'epoca, Louise Colet, una donna desiderata ma presto disprezzata e alla fine francamente detestata come la più perniciosa delle scocciature.
«La cosa di cui ci lamentiamo - scrive Henry James - è che Emma Bovary,
nonostante la natura della sua coscienza e sebbene rifletta tanto quella del suo
creatore, sia veramente qualcuno di troppo limitato». e si chiede, accorato: «Ma
perché Flaubert scelse, come speciali veicoli della vita che si proponeva di
dipingere, degli esemplari umani così inferiori?».
Attraverso Emma Flaubert esprime il suo disprezzo per una diffusa cultura di cattivo gusto, la pigrizia dei sensi, la tendenza al feticismo, l'amore per la
menzogna, di cui forse era affetto lui stesso? è uno specchio dietro al quale c'è un altro corpo ben più robusto e virile, che prova piacere a
denigrarsi attraverso i tratti delicati di una donna inquieta e velleitaria. una piccola donna, l'emblema di un accanimento verso se stesso, verso qualcosa di fortemente detestato.
«Egli non può che sognare di essere l'altro -scrive JeanPaul Sartre
nell'Idiot defamile -e recitare per la propria soddisfazione il ruolo
dell'uomo d'azione».
Durante tutto l'inverno, tre o quattro volte la settimana, a notte fonda, Rodolphe entrava nel giardino. Emma aveva nascosto la chiave del cancello e Charles credeva che si fosse perduta.
Per avvertirla della sua presenza, Rodolphe lanciava una manciata di sabbia contro la persiana. A questo suono Emma si alzava di scatto, ma qualche volta doveva aspettare perché Charles aveva la mania di chiacchierare accanto al fuoco e non la finiva più.
Emma era divorata dall'impazienza: se avesse potuto, lo avrebbe gettato dalla finestra. Si preparava per andare a dormire, poi prendeva un libro e continuava a leggere tranquilla, come se la lettura la divertisse molto. Charles,
allora, che l'aveva preceduta di sopra ed era già a letto, la chiamava perché andasse a coricarsi.
«Vieni, insomma, Emma?» diceva «È tardi!»
«Sì, vengo» rispondeva lei.
Nel frattempo Charles, poiché gli dava fastidio la luce della candela, si girava verso il muro e si
addormentava. Allora Emma scappava in giardino, trattenendo il respiro affrettato, sorridente, palpitante e discinta.
Rodolphe aveva un gran mantello, l'avvolgeva tutta e, passandole un braccio intorno alla vita, la trascinava in silenzio fino in fondo al giardino.
Si fermavano sotto la pergola, sulla stessa panca di tronchi sottili e fradici, ove poco tempo prima, Léon l'aveva contemplata con tanto amore nelle sere d'estate. Emma però non pensava certo a lui in queste occasioni.
Le stelle brillavano attraverso i rami senza foglie del gelsomino. Sentivano dietro di sé il fiume scorrere e, di tanto in tanto, il crepitare delle canne secche. Cumuli d'ombre, qua e là, si gonfiavano nel buio, e a volte sembravano fremere con un unico moto, si alzavano e si abbassavano come immense once nere che avanzassero per sommergerli.
Il freddo della notte faceva sì che si tenessero stretti l'uno all'altra; il suono dei sospiri sembrava loro più forte, gli occhi riuscivano appena a intravedersi, più grandi; e, in tanto silenzio, v'erano parole pronunciate sottovoce che cadevano sulle loro anime con sonorità cristallina e con vibrazioni che si ripercuotevano all'infinito. Quando la notte era piovosa, andavano a rifugiarsi nello studio medico, fra la tettoia e la scuderia. Accendevano un candeliere di cucina che Emma teneva nascosto dietro i libri. Rodolphe si comportava come se fosse stato in casa sua. La vista della libreria, dello scrittoio, di tutta la stanza insomma, lo metteva di buon umore e non riusciva a trattenersi dal dire una quantità di spiritosaggini alle spalle di Charles, che lasciavano Emma interdetta. Avrebbe voluto vederlo più serio, addirittura drammatico, a volte, come quella sera in cui le era parso di sentire un rumore di passi avvicinarsi sul viale.
«Viene qualcuno» aveva sussurrato.
Rodolphe spense la luce.
«Hai la pistola?»
«Per farne che?»
«Ma... per difenderti!» rispose Emma
«Da tuo marito? Ah!, pover'uomo!»
E Rodolphe accompagnò la frase con un gesto che significava "lo schiaccerei con un buffetto".
Emma rimase sbalordita dal suo coraggio, sebbene vi percepisse un'indelicatezza e una grossolanità ingenue, che la scandalizzarono. Rodolphe ripensò molto a questa storia di pistole. Se ella aveva parlato seriamente, la cosa era molto comica, pensava, e forse addirittura odiosa perché lui non aveva nessuna ragione di detestare il buon Charles, dal momento che non si sentiva affatto divorato dalla gelosia; a questo proposito Emma gli aveva fatto fare un giuramento solenne che Rodolphe aveva trovato, come minimo, di dubbio gusto.
Da quel momento Emma era diventata eccessivamente sentimentale. Si erano scambiati ritratti, si erano tagliati ciocche di capelli e adesso voleva un anello, una vera matrimoniale, in segno di eterna fedeltà. Spesso gli parlava delle campane della sera, o della voce della natura, poi gli raccontava di sua madre e voleva sapere della madre di lui. Rodolphe l'aveva perduta da più di vent'anni, eppure Emma lo consolava con le frasi più leziose, come se avesse avuto a che fare con un marmocchio abbandonato, e talora, guardando la luna, gli diceva:
«Sono sicura che di lassù, insieme, approvano il nostro amore».
Ma era così carina! Ne aveva conosciute poche di un simile candore! Questo amore, non contaminato dal vizio, rappresentava per lui qualcosa di nuovo che, discostandosi dalle facili avventure cui era abituato, solleticava tanto il suo orgoglio quanto la sua sensualità. L'esaltazione di Emma, disprezzata dal suo buon senso borghese, in fondo al cuore gli sembrava incantevole perché era rivolta alla sua persona. Per cui, sicuro di essere amato, non si diede più la pena di controllarsi e a poco a poco i suoi modi cambiarono.
Non le diceva più, come un tempo, quelle parole dolci che la facevano piangere, né aveva per lei quelle travolgenti carezze che la facevano impazzire di passione. E tutto questo diede l'impressione a Emma che il loro grande amore, nel quale viveva immersa, stesse diminuendo sotto di lei come l'acqua di un fiume assorbita dal letto in cui scorre, ed ella cominciò a scorgere il fango. Non riusciva a credere una cosa simile; raddoppiò la sua tenerezza e
Rodolphe nascose sempre meno la propria indifferenza.
Emma, di fronte a lui (il marito)
, lo guardava; non condivideva la sua umiliazione, altri sentimenti la dominavano: si
domandava come avesse potuto pensare che un uomo simile valesse qualcosa, quando già tante volte aveva avuto modo
di rendersi conto della sua assoluta mediocrità.
Charles adesso andava su e giù per la stanza, facendo scrocchiare le scarpe sul pavimento di legno.
«Siediti» disse Emma. «Mi dai ai nervi.»
Charles sedette.
Ma come aveva potuto (lei che era così intelligente) ingannarsi ancora una volta? E poi, per quale
deplorevole mania distruggeva così la propria esistenza con continui sacrifici? Rammentò tutte le sue aspirazioni a una vita lussuosa, le frustrazioni dell'anima sua, le meschinità del matrimonio, della vita di tutti i giorni, i sogni caduti nel fango come rondini ferite, i desideri, le rinunce, tutto quello che avrebbe potuto avere! E per che cosa? Per che cosa?
Oltre al frustino dal pomo dorato, Rodolphe aveva ricevuto un sigillo con inciso il motto Amor nel cor; e poi una sciarpa invernale e un portasigarette identico a quello del Visconte, che Charles aveva raccolto quel giorno sulla strada e che Emma conservava ancora. Questi regali lo umiliavano e ne rifiutava molti: ma Emma insisteva e Rodolphe finiva per cedere, trovandola tirannica e troppo invadente.
Ella aveva anche delle strane idee:
«Quando suonerà mezzanotte,» gli diceva «penserai a me!» E se lui confessava di non essersene ricordato, lo rimproverava a lungo, terminando con l'eterna domanda:
«Mi ami?»
«Ma sì ti amo!» rispondeva Rodolphe.
«Molto?»
«Sicuro!»
«E non hai amato mai nessun'altra?»
«Pensi di avermi preso vergine?» esclamava lui, ridendo.
Emma piangeva, Rodolphe cercava di consolarla infiorando di giochi di parole le sue proteste d'affetto: «Oh! Ma è perché ti amo!» insisteva lei «Ti amo tanto da non poter vivere senza di te, capisci? Certe volte provo un tale desiderio di vederti che mi sento lacerare da tutte le furie dell'amore. Mi domando: dov'è in questo momento? Forse con altre donne? Gli sorridono, lui si avvicina.. Oh, no, non è possibile, ce n'è qualcuna che ti piace? Lo so, ce ne sono di più belle di me; ma io so amarti meglio! Sono la tua serva e la tua concubina! Tu sei il mio re, il mio idolo! Sei buono sei bello, sei intelligente, sei forte!»
Si era sentito dire tante volte tutte queste cose che ormai non avevano per lui più niente di originale. Emma non era diversa dalle altre amanti, e il fascino della novità, cadendo a poco a poco come un abito, metteva a nudo l'eterna monotonia della passione, che ha sempre le stesse forme e lo stesso linguaggio. Rodolphe non distingueva, da uomo pieno di senso pratico, la differenza dei sentimenti celata dall'identità di espressione. Poiché labbra viziose o venali gli avevano mormorato frasi simili, non attribuiva molta importanza al candore di Emma. "È necessario" pensava "ridimensionare i discorsi esagerati che spesso nascondono sentimenti mediocri: come se talora la passione eccessiva
non traboccasse dall'anima servendosi delle più vuote metafore, perché nessuno, mai, può dare l'esatta misura delle proprie necessità, delle proprie concezioni, o dei propri dolori, dato che la parola umana è simile a un calderone incrinato da cui è facile trarre una musica adatta per far ballare gli orsi quando vorremmo commuovere le stelle."
Ma, da quella posizione privilegiata di critica nella quale viene a trovarsi colui che, in qualsiasi impegno, si tiene sempre indietro, Rodolphe scorse in quest'amore altri godimenti da sfruttare. Giudicava scomoda ogni forma di pudore. Trattava Emma senza riguardi. Ne fece qualcosa di duttile e corrotto. Il suo era una specie di attaccamento idiota, pieno di ammirazione per se stesso, di voluttà per Emma; era una beatitudine che l'intorpidiva; e la sua anima affondava in quell'ebbrezza, e vi annegava, raggrinzita come il duca di Clarence nella sua botte di malvasia.
La signora Bovary cambiò i propri atteggiamenti soltanto per l'influenza esercitata dalle sue abitudini
amorose. Gli sguardi di lei divennero più arditi, i discorsi più liberi, e commise perfino la sconvenienza di passeggiare con Rodolphe fumando una sigaretta, quasi a voler manifestare il proprio disprezzo per la gente, e alla fine anche coloro che ancora dubitavano finirono per non dubitare più quando la videro scendere dalla Rondine con la vita stretta da un
panciotto, come un uomo.
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/f/flaubert/madame_bovary/pdf/madame_p.pdf