bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

giovedì 27 febbraio 2020

Coronavirus, la matematica del contagio che ci aiuta a ragionare in mezzo al caos

vorrei fare un applauso a Paolo Giordano.
applauso.
un articolo chiarissimo, merita un premio, ieri sul Corriere, per chi ancora non avesse capito.
no perchè mi arrivano mail, al solito qualcuno pensa di aver capito tutto, in cui mi spiegano che l'epidemia è un'invenzione, si INVENZIONE. secondo Giorgio Agamben "la sproporzione di fronte a quella che secondo il CNR è una normale influenza, non molto dissimile da quelle ogni anno ricorrenti, salta agli occhi. Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite." 
quindi epidemia come strumento di controllo di massa governativo.
eccezionale.
quando l'ideologia ingarbuglia paurosamente i neuroni in trecce e riccioli non funzionanti.

ecco, invece, Paolo Giordano.

Coronavirus, la matematica del contagio che ci aiuta a ragionare in mezzo al caos 

C’è un numero, diverso per ogni malattia, che si chiama «erre con zero» e indica le persone che, in media, ogni individuo infetto contagia: se quella cifra è inferiore a 1, la diffusione si arresta da sola
di Paolo Giordano

La matematica del contagio è semplice. Tanto semplice quanto cruciale. Ora che abbiamo imparato a lavarci le mani come si deve, il secondo aspetto a cui dovremmo rivolgere la nostra attenzione è proprio, a sorpresa, la matematica. Se rinunciamo allo sforzo, rischiamo di non capire granché di quanto ci sta accadendo e di lasciarci prendere, come molti in queste ore, da suggestioni poco fondate.

Per cominciare dividiamoci in tre gruppi. Un segreto della matematica è di non andare mai troppo per il sottile, e la matematica del coronavirus distingue la popolazione, tutti noi, in modo grossolano: ci sono i Suscettibili (S), cioè le persone che potrebbero essere contagiate; gli Infetti (I), cioè coloro che sono già stati contagiati; e i guariti, i Recovered (R), cioè quelli che sono stati contagiati, ne sono usciti e ormai non trasmettono più il virus. Ognuno di noi è in grado di riconoscersi all’istante in una di queste categorie, le cui iniziali formano il nome del modello a cui gli epidemiologi si rivolgono in queste settimane come a un oracolo: il modello SIR. Fine.

Ok, non proprio fine. Manca almeno un altro concetto. Dentro il modello SIR, dentro il cuore di ogni contagio, si nasconde un numero, diverso per ogni malattia. Nei giorni scorsi è spuntato qua e là in discussioni e articoli. Viene indicato convenzionalmente come R0, «erre con zero», e il suo significato è di facile interpretazione: R0 è il numero di persone che, in media, ogni individuo infetto contagia a sua volta. Per il morbillo, ad esempio, R0 è stimato intorno a 15. Vale a dire che, durante un’epidemia di morbillo, una persona infetta ne contagia in media altre quindici, se nessuna è vaccinata. Per la parotite, R0 è all’incirca 10. Per il nostro coronavirus, la stima di R0è intorno a 2,5. Qui qualcuno salta subito alle conclusioni e smette di leggere: «Evviva! È basso! Al diavolo la matematica!». Non esattamente. L’R0 dell’influenza spagnola, quella del 1918, è stato calcolato retrospettivamente intorno a 2,1.

Ma per adesso non vogliamo affrettarci a stabilire se l’erre-con-zero del coronavirus sia alto o basso. C’interessa sapere, più in generale, che le cose vanno davvero bene quando R0 è inferiore a 1. Se ogni infetto non contagia almeno un’altra persona, la diffusione si arresta da sola, la malattia è un fuoco di paglia, uno scoppio a vuoto. Se, al contrario, R0 è maggiore di 1, anche di poco, siamo in presenza di un principio di epidemia.

Per visualizzarlo, basta immaginare che i contagiati siano delle biglie. Una biglia solitaria, il famigerato paziente zero, viene lanciata e ne colpisce altre due. Ognuna di queste ne colpisce altre due, che a loro volta ne colpiscono altre due a testa. Eccetera. È quella che viene chiamata una crescita esponenziale, ed è l’inizio di ogni epidemia. Nel primo periodo, sempre più persone vengono contagiate sempre più velocemente. Quanto velocemente, dipende dalla grandezza di R0 e da un’altra variabile fondamentale di questa matematica trasparente e decisiva: il tempo medio che intercorre tra quando una persona viene infettata e il momento in cui quella stessa persona ne infetta un’altra — una finestra temporale che, nel caso di Covid-19, è stimata a circa sette giorni.

Fine, per davvero. Avendo assorbito queste poche informazioni, possiamo riassumere tutti gli sforzi istituzionali, tutte le misure «draconiane», le quarantene, la chiusura di scuole e teatri e musei, le strade vuote, in un’unica intenzione matematica: abbassare il valore di R0. È quello che stiamo facendo con le nostre dolorose rinunce. Perché quando R0 si abbassa, l’espansione rallenta. E quando R0viene faticosamente riportato sotto il valore critico di 1, la diffusione inizia ad arrestarsi. A partire da quel momento è l’epidemia stessa, non più le persone, a soffocare.

Che esagerati!
Negli ultimi giorni si è aperta una faglia tra chi accetta con umiltà quanto viene disposto dall’alto e chi grida all’esagerazione, alla follia, alla «psicosi collettiva». O magari non grida nemmeno, assume un atteggiamento più sprezzante, più intellettuale, come a dire «poveri stolti, si lasciano infinocchiare», che in fondo è la stessa cosa. Questo tipo di scetticismo è trasversale, non dipende dal livello d’istruzione, né dalla provenienza o dall’età — forse dall’età un po’ sì, gli adulti-adulti sembrano particolarmente inclini. A ogni modo è un atteggiamento umano, ed è particolarmente in voga nella nostra epoca. Ma chi insiste a dire che il contenimento eccezionale messo in atto è «esagerato» non ha capito la matematica. Oppure l’ha travisata.

Un fraintendimento comune, per esempio, nasce dal raffronto proposto con l’influenza stagionale. Ciò che di Covid-19 assomiglia all’influenza stagionale è il modo del contagio, il fatto che avvenga per lo scambio di goccioline sparate in aria attraverso gli starnuti e la tosse. E ci sono i sintomi generali, certo, che si confondono — una confusione che ha causato ritardi nel contenimento iniziale, nonché incidenti spiacevoli come quello dell’ospedale di Codogno. Ma al momento non c’è alcuna evidenza che il coronavirus debba avere un autonomo picco stagionale per poi recedere, come le influenze ordinarie.

Riguardo al picco di contagi, poi, qualcun altro si è lasciato ingannare dalla notizia che in Cina sia già stato superato. E che questo accadrà molto presto anche da noi. È l’interpretazione errata di un dato. Sarebbe più corretto dire che «un» picco, il primo, è stato raggiunto e superato in Cina. Ciò è accaduto proprio ed esclusivamente in ragione delle misure iper-restrittive che la Cina ha applicato, ovvero bloccare qualche centinaio di milioni di persone in casa. Non a causa di una caratteristica intrinseca della malattia. Insomma R0, in Cina e poi da noi, è stato trascinato giù a forza. E adesso viene mantenuto basso a forza, come se tutti quanti, ubbidendo alle istituzioni, stessimo premendo sul coperchio di una pentola piena d’acqua in ebollizione.

Nel momento in cui le misure venissero allentate, in Cina come qui, è probabile che R0 tornerebbe al suo valore «naturale» di 2,5. Il contagio ricomincerebbe a diffondersi esponenzialmente. Gli epidemiologi sanno che il solo modo di fermare sul serio un’epidemia è che il numero di Suscettibili diventi abbastanza basso da rendere poco probabile il contagio. Per esempio quando la popolazione è vaccinata. I vaccini ci fanno passare da Suscettibili a Recovered senza nemmeno attraversare la malattia. Ma non è il nostro caso per il momento. Il Covid-19 è per noi umani ancora troppo nuovo. È saltato da un pipistrello a qualche altro animale, forse un serpente, dove i due codici genetici si sono mescolati in maniera sfortunata, e da quel secondo ospite ha spiccato un altro salto, sull’uomo, con la stessa carica di novità di un asteroide che fa precipitare sulla Terra un elemento chimico sconosciuto. Non abbiamo anticorpi efficaci e non abbiamo vaccini. Non abbiamo neppure statistica. Tradotto nel modello SIR, significa che siamo ancora tutti Suscettibili.

Domanda nel test di matematica: «Quanti sono oggi i Suscettibili al Covid-19?». Risposta: «Un po’ più di sette miliardi».

Previsioni del tempo
Un’altra aberrazione riguarda l’accanimento mediatico sul «paziente zero» in Italia. «Il paziente zero» è un titolo perfetto per una serie distopica di Netflix o per un film sugli zombie, e infatti esiste già. Ma il paziente zero italiano è d’interesse pressoché nullo per gli epidemiologi ormai da alcuni giorni. Da quel fantomatico punto d’origine si sono già diramate linee secondarie e terziarie, traiettorie silenziose del contagio, molte delle quali probabilmente latenti. A Firenze, in Liguria, in Germania, negli Stati Uniti, chissà dove.

E c’è, infine, l’algebra della pericolosità, anch’essa fuorviante. Dividendo il numero di morti per il numero dei contagi conclamati si ottiene un risultato che non impressiona: zero virgola zero qualcosa. Tradotto: «Tanto non si muore!». I virologi si stanno seccando la gola nel ripeterci che il vero problema è un altro. Il tasso di ricoveri necessari per il Covid-19 è infatti piuttosto elevato. Se tutti o buona parte dei Suscettibili diventassero Infetti troppo velocemente, a ricevere un urto pericoloso sarebbe il nostro sistema sanitario. Non è scontato che avremmo le risorse necessarie per fronteggiare adeguatamente un’eventualità simile. Non è scontato che non andremmo in tilt.

Le azioni «esagerate» intraprese in Cina e adesso da noi si fondano su scenari che sono anch’essi matematici. Non su misure prese a spanne, non su impressioni vaghe o isterismi di massa. Alessandro Vespignani, che alla Northwestern University di Boston sviluppa questi scenari, mi ha detto: «È come con le previsioni del tempo». Alla base delle simulazioni c’è il semplice modello SIR che abbiamo descritto, ma la teoria viene applicata alla situazione effettiva del nostro pianeta, della nostra società. Per nutrire di realtà il modello vengono utilizzati tutti i dati a disposizione: le mappe satellitari della Nasa, le rotte dei voli e il numero dei rispettivi passeggeri, le informazioni su ogni interazione umana misurabile e perfino certi correttivi psicologici, come la paura, il panico, la cautela. Ecco un ambito in cui i Big Data servono a salvarci la vita. Le simulazioni, una volta lanciate, mostrano come l’epidemia si svilupperà nei giorni successivi entro certi margini di errore, se diverrà una pandemia o invece sparirà. Da quelle analisi procedono le decisioni dei governi. Alzi la mano, ora, chi non crede affatto alle previsioni del tempo, chi programmerebbe una gita al mare domani, sapendo che ilMeteo.it dà il 90% di probabilità di un diluvio.

Suscettibili e sospettosi
Ecco un fatto curioso: la diffusione di una notizia falsa è descritta bene dagli stessi modelli SIR che si usano per le epidemie. Anche rispetto a un’informazione errata ognuno di noi appartiene a uno dei tre insiemi: i Suscettibili, gli Infetti oppure i Guariti. Peccato che abbiamo molta più difficoltà ad autocollocarci in quello giusto. Spesso, poi, essere Suscettibili al falso equivale a essere Sospettosi verso il vero. La fatica di accettare che qualcosa di radicalmente nuovo, di «fuori dall’ordinario» stia accadendo è un altro tratto profondamente umano della nostra psiche.

Una forma di ritrosia verso l’inaspettato, verso lo sconcertante e soprattutto verso il complesso, ha fatto in modo che ci volessero decenni perché il cambiamento climatico fosse accettato da molti. In questo momento è in azione un meccanismo difensivo simile nei riguardi del coronavirus. Non abbiamo anticorpi contro Covid-19, ma ne abbiamo contro tutto ciò che ci sconcerta. È un paradosso del nostro tempo: mentre la realtà diventa sempre più complessa, noi diventiamo sempre più refrattari alla complessità.

E tuttavia, ciò che sta succedendo in questi giorni non è davvero inedito. «A Singapore il governo e gli ufficiali sanitari lavoravano insieme per impedire che l’infezione si diffondesse. Furono attuate misure draconiane non solo negli ospedali: quarantena obbligatoria per tutti i casi sospetti, multe e condanne per chi non rispettava l’isolamento, chiusura di un grande mercato, chiusura delle scuole, controlli periodici della temperatura a tutti i tassisti. In questo modo l’epidemia fu domata». Sembra che parli di oggi, invece David Quammen sta riportando quanto avvenuto nel 2003 con la Sars. Descrive misure identiche a quelle adottate nel Lodigiano con la sola differenza della severità delle sanzioni penali, perché il nostro sistema si basa sulla fiducia nei cittadini, sull’assioma della loro piena collaborazione.

«Spillover», il libro di Quammen, meriterebbe un articolo a sé. Basti dire, qui, che è il modo migliore per comprendere le varie sfaccettature, la complessità per l’appunto, di questa epidemia. Per non viverla come una strana eccezione o un flagello divino. Per metterla in relazione ad altri disastri ecologici del nostro tempo, come la deforestazione, la cancellazione degli ecosistemi, la globalizzazione e il cambiamento climatico stesso. E per entrare, addirittura, nella mente del virus, decifrarne le strategie, intuire perché la specie umana sia diventata così golosa per ogni patogeno in circolazione. A volte Spillover fa paura, è vero, complice il pipistrello nero della copertina, e a volte fa addirittura sobbalzare, per esempio quando si domanda — era il 2012 — se il Next Big One, la prossima grande epidemia attesa dagli esperti, sarà causato da un virus e se comparirà «in un mercato cittadino della Cina meridionale». Preveggenza? No. Solo scienza. E un po’ di storia. Strano che Spillover non sia esaurito sugli scaffali, come i gel antisettici e le mascherine.

Ai più coriacei, a chi non fosse ancora persuaso e continuasse a pensare che siamo di fronte a una reazione sproporzionata, possiamo proporre un ultimo, disperato argomento di buon senso. È davvero lecito supporre che un Paese come la Cina decida di tirare il freno a mano della propria economia per aver sopravvalutato un’influenza stagionale? Che un governo come il nostro decida di mettere in quarantena intere aree perché ha scambiato un virus pericoloso per qualcos’altro? Mi sembra che per supporlo si debba essere dei Sospettosi eterni, dei complottisti incalliti. Oppure no, mi sbaglio. Dopotutto è sufficiente capovolgere una volta di più il ragionamento scientifico e, invece di trarre le proprie opinioni dai fatti, partire dalle proprie opinioni per ricavarne i fatti. 

Detto in soldoni
Alla mia professoressa di matematica del liceo piaceva usare un’espressione un po’ antica, «detto in soldoni», quando voleva farci familiarizzare con un concetto nuovo. È un’espressione che per qualche ragione mi torna alla mente adesso. 
Detto in soldoni, la matematica del contagio c’insegna che il solo modo efficace di soffocare un’epidemia come quella in corso è di tenere la gente il più possibile separata. E che dovremmo, semmai, discutere su quanto le misure necessarie siano sostenibili nel medio termine, perché al momento, e in assenza di un vaccino, non ci sono elementi razionali per ipotizzare che la crisi sia breve.

mercoledì 26 febbraio 2020

l'incoronato ci dice: state fermi

cerchiamo di stare su
in questa città ferragostana
parcheggi come piovesse
silenzio
spazi.
almeno non lo hanno premiato
(lunedì sera al Piccolo)
il colibrì
anche lui colto da febbre incoronata
ma si vedeva che non era in salute.
diciamo che la barra non è dritta
non solo per me
non solo a me salta
tutto
dagli impegni ai viaggi.
c'è chi sta chiuso in casa
fuori la polizia
più per la paura
che per la virulenza.
la paura circola
naviga
prende forme cangianti
era l'isis
poi lo straniero
ora un microbo
invisibile e nemmeno tanto pericoloso
ma incredibilmente contagioso.
ma si ha paura
di oggetti sempre vari e sempre nuovi
le nuove malinconie
si tingono di un terrore securitario
i muri fanno scudo
le zone rosse
gli aeroporti chiusi
i teatri serrati
mai la paura è stata più concreta di oggi
proprio oggi che sta chiusa in un microscopio.

girerò a Milano
nel centro vuoto
nelle strade sgombre
nei nuovi spazi guadagnati
guarderò cose mai viste

che il mondo si fermi, dico io,
che si fermi
con meno emissioni
prima dello schianto finale
che comunque ci aspetta

mai come oggi mi rendo conto
di
quanto
veloce
va
questo
pazzo
mondo.

lunedì 24 febbraio 2020

crown way

la nuova versione di Milano, effetto crown, non è male.
città vuota, negozi vuoti, pochissime auto, traffico da non credere (poco!), gente rada, contatti umani al minimo.
certo, mi hanno tagliato le gambe.
prevedevo un fine settimana da sola, tutti i componenti della royal family de' noartri hanno un viaggio, o avevano un viaggio ora non so se li sbattono indietro come i viaggiatori delle Mauritius, e io invece no, milanese a oltranza. prevedevo un fine settimana all'insegna della felicità, nessuno a cui pensare, nessuno che dipenda da me, io libera, io a teatro, al cinema, a un convegno, a concerti (uuhh quanto Beethoven che c'è), a mostre ed è solo l'inizio, e invece mi hanno segato tutto. ma tutto.
non ho più niente da fare.
mi rimango i libri, la Lettura, Ad alta voce di RAI 3, le guide per il viaggio di questa estate e le lezioni di Giovanni Bietti sulla musica. potrei tristemente mettere in ordine casa, ma già mi scende una lacrima.
ma non sarò sola, di certo non partono, è andato tutto all'aria, un pasticcio, sebbene a qualcuno va da peggio, comunque.
quel che mi sconcerta sono i programmi RAI. mi sono ritrovata in palestra -la mia ha chiuso alle 14, forse si sono distratti un attimo e io mi sono infilata almeno per questa mattina- e tra i televisori accesi ce n'era uno sintonizzato su RAI 1, con una bionda, tale Eleonora Daniele.
ecco, la bionda ne ha dette di tutti i colori, sempre sulla crown story, e nessuna era giusta.
mi sembra quanto meno discutibile mandare una bionda, ignorante, in onda prima di possedere considerazioni elementari sulla storia di sua maestà il virus, e dica frasi anche piuttosto allarmanti.
chiama paziente zero il paziente che ha fatto da ponte tra il lodigiano e il veneto. pare sia stato identificato, ma la bionda ignorante non  sa che il paziente zero latita ed è il paziente che ha fatto da ponte tra la Cina e l'Italia. il signore al bar che prima era nel lodigiano e poi a Vo Euganeo non è il paziente zero.
poi si avventura, con tono molto preoccupato, sempre alla ricerca del paziente zero (deve esserne molto turbata) e interroga il luminare in cravatta, intervistato da un'altra cima come lei, davanti all'ospedale Sacco, sostenendo che 'sto paziente, insomma, va trovato, la quarantena per lui non è finita. dice. la sventurata non ha ancora capito che, in questo caso, quarantena non va intesa in senso letterale (40 giorni forse valgono per la peste) ma come sostantivo che indica il tempo necessario per non manifestare più alcuna infettività, in questo caso, pare, di 14 giorni. il paziente zero, comunque sia, la sua infettività l'ha ormai esaurita, interessa trovarlo sul piano epidemiologico, ma non per la pericolosità clinica. va da sè che però l'urlo disperato della "giornalista", bionda, insipiente, è un urlo di dolore, un urlo che si aggiunge alla tragedia del panico mal celato che, passi nei supermercati, ma in televisione, RAI 1, pausa pranzo, no, non se po' fa. 
gli scaffali dei supermercati sono effettivamente vuoti, è sconcertante, e sono dell'idea che si tratti degli stessi che votano salvini, quelli che vivono di paura e della paura fanno il loro credo. fammi avere paura, poi salvami, sarà un grande sollievo e tu sarai il mio messia.
da ultimo è interessante leggere i commenti di teatranti e commercianti, la Shammah si dice lasciata sola a lottare contro la chiusura dei teatri, povera donna qualcosa le sfugge di 'sto casino, e in centro, dopo anni di vacche non grasse, direi obese, strabordanti denaro e introiti, già piangono miseria dopo un giorno, dico un giorno di entrata in vigore dell'ordinanza comunale.
io cosa dovrei dire?

giovedì 20 febbraio 2020

Margaret Bourke-White






Dorothea Lange







75 fotografie in bianco e nero di Dorothea Lange e Margaret Bourke-White, due delle più grandi photoreporter del XX secolo, sono esposte, fino al 30 marzo 2020, al Centro Culturale di Milano. titolo della mostra: Ricevere l’avvenimento. Due donne nei tornanti della storia
sebbene la Bourke-White abbia scattato belle foto, in mostra ce ne sono poche.
di fatto la mia preferenza va, senza indugio, a Dorothea Lange.
il suo modo di guardare, e di scegliere i soggetti, è affine al mio.
la Bourke-White è animata da uno spirito da guerriera, da cittadina americana american way of life, tutto è possibile, nulla mi abbatte, sono invincibile, America first, che non apprezzo particolarmente.
la Lange guarda il mondo. lo accoglie. lo ama, direi, lo ama molto. 
sarà perchè attraverso le sue foto io penso a Furore, di Steinbeck, libro che mi ha devastata, sarà per questo, magari anche, ma gli occhi della Lange e la sua fotocamera si dirigono dove mi dirigerei, potenzialmente, io. 

la luce della luna e il silenzio di dicembre sembravano fondersi come le note di una tromba suonate in un unico soffio a unire il passato, il presente, il futuro...

...zio Len si fermò e guardò verso la locanda, fragile come il cartone sotto la luce forte della luna, e accarezzandomi il braccio, mormorò i nomi di tutti quelli che dormivano sotto il suo tetto, poi disse: "Buffo pensare a loro, tutti sdraiati lì, buffo". Alzai gli occhi  e la mia vista vagò tra le stelle fino allo spazio più estremo, dove non c'era più universo. Niente mi divideva da esso. Ero là: mio padre, mia madre, Richard Quin stavano lì e qui contemporaneamente, e Nancy non sarebbe stata distrutta.
La luce e il silenzio soffiarono con fragore nella tromba.

Rebecca West scrive una trilogia, sono arrivata a Rosamund, il terzo libro sulla famiglia Aubrey, e mi lascia stupefatta.
mi regala momenti di lettura estatica.
mi fermo, a volte, la densità è tale che mi sembra di non farcela. mi devo fermare e tornare indietro.  voglio rileggere e fissare nella memoria. oppure non pensare e rimanere sospesa tra le parole. mi dico che se leggo troppo veloce mi perderò qualcosa.
il libro, la parola, la narrazione spesso, come nel caso sopracitato, si fondono con la musica perchè la voce narrante, e sua sorella gemella, sono due pianiste di grande talento. l'effetto è potente, i linguaggi si fondono e io ne rimango scossa, sono tracce che rimangono, si depositano nella mia immaginazione.
questo è un libro, questo è un romanzo, questa è arte, è letteratura.
questo è un capolavoro.

...la vita è condannata al disordine perché non tutti gli uomini sono morti e non tutti muoiono nello stesso momento. Avrebbe potuto esserci un ordine perfetto attorno a me, se mio padre, mia madre, Richard Quin, Mary e io fossimo venuti al mondo tutti contemporaneamente, nessuno di noi avrebbe dovuto aspettare che gli altri nascessero, e nessuno di noi avrebbe dovuto perdere gli altri.
Il tempo, capii, era la colpa dell’universo, e a causa sua il dolore e le attese, ingannevoli allo stesso modo, ci avrebbero sempre impedito di osservare il presente con la dovuta pace.

mercoledì 19 febbraio 2020

concerto ritrovato

non è una canzone facile da capire.
l'ha scritta completamente ubriaco dopo essere fuggito da una festa di gente danarosa e fatua che gli chiedevano di fare il burattino.
il significato della canzone Amico fragile è fumoso e confuso, come l'alcool in cui annega e da cui origina, si ritrovano alcune parole che ricompogono un senso, ma ascoltarla durante il suo concerto, ritrovato, ha amplificato la gioia di riaverlo, in quel suo angolo, seduto quasi accucciato, con le sue cose, la chitarra, protesi del suo corpo, il vino, le sigarette accese compulsivamente ad ogni minuto, testimoni di morte, le parole, che oggi nessuno canterebbe più sfidando il politically correct, la sua voce. la sua interminabile eterna voce, per sempre, davvero per sempre.

Evaporato in una nuvola rossa
in una delle molte feritoie della notte
con un bisogno d'attenzione e d'amore
troppo, "Se mi vuoi bene piangi "
per essere corrisposti,
valeva la pena divertirvi le serate estive
con un semplicissimo "Mi ricordo":
per osservarvi affittare un chilo d'erba
ai contadini in pensione e alle loro donne
e regalare a piene mani oceani
ed altre ed altre onde ai marinai in servizio,
fino a scoprire ad uno ad uno i vostri nascondigli
senza rimpiangere la mia credulità:
perché già dalla prima trincea
ero più curioso di voi,
ero molto più curioso di voi.
E poi sospeso dai vostri "Come sta"
meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci,
tipo "Come ti senti amico, amico fragile,
se vuoi potrò occuparmi un'ora al mese di te"
"Lo sa che io ho perduto due figli"
"Signora lei è una donna piuttosto distratta."
E ancora ucciso dalla vostra cortesia
nell'ora in cui un mio sogno
ballerina di seconda fila,
agitava per chissà quale avvenire
il suo presente di seni enormi
e il suo cesareo fresco,
pensavo è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra.
E poi seduto in mezzo ai vostri arrivederci,
mi sentivo meno stanco di voi
ero molto meno stanco di voi.
Potevo stuzzicare i pantaloni della sconosciuta
fino a vederle spalancarsi la bocca.
Potevo chiedere ad uno qualunque dei miei figli
di parlare ancora male e ad alta voce di me.
Potevo barattare la mia chitarra e il suo elmo
con una scatola di legno che dicesse perderemo.
Potevo chiedervi come si chiama il vostro cane
Il mio è un po' di tempo che si chiama Libero.
Potevo assumere un cannibale al giorno
per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle.
Potevo attraversare litri e litri di corallo
per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci.
E mai che mi sia venuto in mente,
di essere più ubriaco di voi
di essere molto più ubriaco di voi.



Concerto ritrovato

il 3 gennaio 1979 Fabrizio De André e la Premiata Forneria Marconi tengono un 'Concerto per la città", a Genova e di quell'evento c'era una registrazione autorizzata ma scomparsa.
ritrovata e restaurata, compare ora sullo schermo accompagnata da ricordi dei partecipanti che Walter Veltroni ha raccolto e collocato a prologo del concerto. è noto che Fabrizio De André non amasse né tenere concerti né, tantomeno, che questi venissero ripresi. già dal 1975 aveva ceduto sul fronte dei concerti proponendo le proprie canzoni quasi ed esclusivamente nella versione originale. l'incontro con i componenti della PFM lo spinse ad un ulteriore passo ma si trattava di un rischio perché erano due mondi e due tipologie di pubblico differenti. eppure, come ricorda Dori Ghezzi, Fabrizio amava tutto quello che poteva apparire come improbabile. il concerto non fu privo, in alcuni casi, di contestazioni e tensioni che, insieme alla sua genesi, vengono rievocate in un viaggio in treno dalla stessa Dori, Riondino, Di Cioccio e Djivas.

il prologo non so, ma il concerto è bellissimo. l'inizio poi è travolgente, inaspettato dopo lunga attesa tra interviste e ricordi, e arriva come un'onda. gli arrangiamenti della PFM sono straordinari, li avevo apprezzati un anno fa al Dal Verme nel concerto dedicato, appunto, a De Andrè.
canta testi immortali, canta benissimo, è magnetico, è una cosa sola con la sua chitarra e la sua musica, è oltre. oltre quando racconta di un nano il cui cuore è troppo vicino al buco del culo, e chi mai oggi potrebbe dire cose simili, è oltre quando canta con disincanto giugno '73, e tu aspetta un amore più fidato il tuo accendino sai io l'ho già regalato e lo stesso quei due peli d'elefante mi fermavano il sangue li ho dati a un passante, è oltre quando parlando di ieri parla di oggi, io nel vedere quest'uomo che muore, madre, io provo dolore/ nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l'amore.

lunedì 17 febbraio 2020

Stringeranno nei pugni una cometa

Alle piccole grandi ombre

La dubitante

Io non chiedo per voi l'eterna pace
non quel sonno infinito delle pietre
io non prego per la perpetua luce
in un teatro di tenebre ghiacciate

Non chiedo sonno per voi
non imploro riposo
io non prego perché restiate stesi
con palpebre sempre sigillate.

Chiedo ebbrezza per voi. Giocondità chiedo
vita piena di giovani animali della foresta
ebbrezza di slegati.
Chiedo per voi, morti nostri, un'adesione
e tutta la bellezza che vediamo
crescerci intorno e dalla quale siamo,
noi vivi siamo separati.
Nota che troppo spesso stona. Mano
che rovina. Testa che porta dentro sè nemici.

Siate bellissimi, morti nostri. Diventate voi
tutta la meraviglia di quando alziamo la faccia
nell'aperta notte e quasi non reggiamo
quell'impero enigmatico di stelle, 
tutta l'eleganza armonica del cielo.
Siate voi.
Non prego per voi. Io prego voi.
Andate, Dove sarà svelata
la profezia dei fiori,
di tutti i fiori. Nella pace siate
di certe domestiche sere
nella gioia d'infanzia, nell'abbraccio tra umani, siate,
o quando piove d'estate dopo la calura, dentro
un vapore di fornelli, dove si fa il pane, siate,
dove si beve il latte. Nel semplice stare
che non vediamo, se non a volte,
dopo un dolore grande.
E il riposo vostro sia la melodia rotante
di tutti i mondi.
Sia nella voce di qualcuno che canta
nel rumore d'acque sia la vostra pace
in tutte le tane silenziose, dove da una madre pregna
esce un cucciolo inerme, bagnato di leccate.

Andate. Siate. Liberati nello svelato
mistero del nascere a qualcosa che non sappiamo,
che ha il tetro nome di morte e forse invece
come seme si schiude a più vaste vite, a più vaste
vedute. Forse.

Mariangela Gualtieri.

questa poesia fa parte del requiem di Silvia Colasanti:
Stringeranno nei pugni una cometa.
è stato composto a seguito del terremoto di Amatrice del 2016.
è stato eseguito per la prima volta nel 2017 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, in piazza del Duomo.
è un requiem contemporaneo, per soli, coro e orchestra.
si avvale dunque dell'orchestra, di una poetessa, di assoli per violoncello e anche per bandoneon, di una solista mezzosoprano, di un coro e di testi latini per la liturgia.

io l'ho ascoltato venerdì alla Verdi, dopo il requiem di Mozart, in versione ridotta.
e ci sono rimasta di sasso.
prima per la riduzione del requiem di Mozart.
e poi per l'ascolto del Requiem della Colasanti.
penso di avere assistito a un breve miracolo di bellezza, le poesie della Gualtieri che susseguono sono intense e toccanti, sono l'aspirazione a una nuova forma di spiritualità, sono un augurio alla liberazione della forza che giace in noi. 
sono l'invito a vivere pienamente, a fare scorta di eternità, anche davanti a un pezzo di pane.


domenica 16 febbraio 2020

in quel di Villa Necchi

metti un pomeriggio con le sonate di Beethoven eseguite da Pietro de Maria
e metti che la Società del quartetto le intitoli Musica nel tennis


metti poi che in quel tennis il Fai ci organizzi, la domenica pomeriggio successiva, la fiera AgruMI
e mettici un mare di gente con molti limoni e chinotti e bergamotti.



metti poi che per caso c'è una porta aperta, che noti casualmente, che porta dentro la Villa, Necchi Campiglio,
e metti che l'hai già visitata decine di volte
e metti pure che ogni volta ti sei detto: questo posto è magico, ma quanta bellezza tra queste mura
metti però che, questa volta entrando per quella porta, hai scovato anche un seminterrato che non credevi esistesse
e metti che pure lì il Portaluppi abbia dato grandiosa prova di sé tra lampadari e scalinata ed enormi porte a specchio
e metti che anche questa volta tu rimanga a bocca aperta e ti dica: diomio ma qui non si finisce mai di stupirsi

insomma, hai in mente?
ecco,
è proprio andata così.

venerdì 14 febbraio 2020

un gatto nero di dimensioni paurose, con un bicchierino di vodka in una zampa, e, nell'altra, una forchetta, su cui aveva già infilato un fungo marinato

Stepa volse le spalle all'apparecchio e, nello specchio dell’anticamera che la pigra Grunja non aveva spolverato da tempo, vide distintamente uno strano tipo, lungo come una stanga, con gli occhiali a molla (oh, se ci fosse stato Ivan Nikolaevič ! L'avrebbe riconosciuto subito!) L'immagine balenò nello specchio e scomparve. Allarmato, Stepa scrutò piú a fondo l'anticamera, e barcollò una seconda volta perché, riflesso nello specchio, passò un robusto gatto nero, e anch'esso scomparve. Il cuore di Stepa smise di battere ed egli vacillò. 
 «Che succede? - pensò. - Non starò mica diventando matto? Da dove vengono queste immagini?!» Scrutò l'anticamera e gridò spaventato: 
 - Grunja! Cos'è quel gatto che gira per casa?! Di dove viene? E c'è qualcun altro ancora! 
 - Non si preoccupi, Stepan Bogdanovič, - rispose una voce; non quella di Grunja però, bensí quella del visitatore in camera da letto. 
- Quel gatto è mio. Non sia nervoso. Grunja non c'è, l'ho mandata a Voronez. Si lamentava che lei le aveva soffiato le ferie. 
Queste parole erano talmente inattese e assurde che Stepa pensò di aver capito male. Totalmente confuso, ritornò di trotto in camera da letto, e sulla soglia rimase di sasso. I suoi capelli si mossero, e la fronte gli si imperlò di sudore. Nella camera da letto, l'ospite non era piú solo: nella seconda poltrona stava seduto quel tipo che gli era parso di intravedere in anticamera. Adesso lo si vedeva distintamente: baffi a penna, un vetro degli occhiali luccicava, l’altro non c'era. Ma scoprí cose anche peggiori: sul pouf della gioielliera stava sdraiato in una posa disinvolta un terzo essere, e precisamente un gatto nero di dimensioni paurose, con un bicchierino di vodka in una zampa, e, nell'altra, una forchetta, su cui aveva già infilato un fungo marinato. 
La luce già debole della camera da letto si offuscò ancora di piú negli occhi di Stepa. 
 «Ah, è cosí che si impazzisce...», pensò, e si afferrò allo stipite della porta. 
 - Vedo che lei è un poco sorpreso, carissimo Stepan Bogdanovič, - si rivolse Woland a Stepa, che batteva i denti. 
 - Ma non è proprio il caso di stupirsi. Questo è il mio seguito. 
In quel mentre il gatto bevve la vodka, e la mano di Stepa scivolò lungo lo stipite. 
 - Anche il seguito ha bisogno di spazio, - continuava Woland, - perciò uno di noi in questo appartamento è di troppo. A me pare che questa persona di troppo sia proprio lei. 
 - Loro, proprio loro, - canticchiò il lungo personaggio a quadretti con voce da caprone, parlando di Stepa al plurale. 
- Del resto, in questi ultimi tempi hanno fatto porcherie spaventose. Si sbronzano, allacciano relazioni con donne approfittando della propria posizione, non fanno un accidente, e non fanno niente per il semplice motivo che non capiscono niente del lavoro che è stato loro affidato. Dànno ad intendere lucciole per lanterne ai loro superiori!
 - Usano senza una ragione le automobili dell'ufficio, spiattellò il gatto, masticando un fungo. 
A questo punto nell'appartamento successe il quarto e ultimo avvenimento strano, mentre Stepa, che ormai era scivolato fino a terra, graffiava lo stipite con mano svigorita. Proprio dal vetro della specchiera uscí un tale, piccolo, ma straordinariamente largo di spalle, con un tubino in testa, e una zanna che spuntava dalla bocca, rendendo ancora piú orrendo un ceffo che era già oltremodo repellente. Come se non bastasse, aveva i capelli di un rosso acceso. 
 - Io, - entrò nella conversazione il nuovo venuto, non capisco proprio come abbia fatto a diventare direttore - il rosso parlava con voce sempre piú nasale, - lui è direttore come io sono vescovo 
- Tu non assomigli a un vescovo, Azazello, - osservò il gatto, riempiendosi il piatto di würsteln. 
- È quello che sto dicendo, - ribadí il rosso con la sua voce nasale voltandosi verso Woland, aggiunse con deferenza: 
- Mi permette, Messere, di mandarlo al diavolo, lontano da Mosca? 
-Pscttt! - ringhiò all'improvviso il gatto, rizzando il pelo. La camera da letto vorticò intorno a Stepa; egli urtò con la testa lo stipite della porta, e pensò, mentre perdeva conoscenza: 
 «Io muoio...» 
 Ma non morí. Socchiudendo gli occhi, si accorse di sedere su delle pietre. Intorno a sé udiva un rumore. Quando aprí ben bene gli occhi, capí che era il mare, e che, anzi un'onda fluttuava proprio ai suoi piedi, e che, insomma, stava seduto all'estremità di un molo, e sopra di lui c'era un azzurro cielo rilucente; e dietro, una bianca città adagiata sui monti. Non sapendo come si reagisce in casi simili, Stepa si erse sulle gambe tremanti e, lungo il molo, si diresse alla volta della spiaggia. Sul molo, un tale fumava e sputava in mare. Guardò Stepa con occhi attoniti e smise di sputare. Allora Stepa la fece bella: si inginocchiò davanti al fumatore sconosciuto e disse: 
 - La supplico, mi dica, che città è questa? 
 - Però! - disse con indifferenza il fumatore. 
 - Non sono ubriaco, - rispose rauco Stepa, - mi è successo qualcosa... sono ammalato... Dove sono? Che città è questa? 
 - Be', Jalta... 
 Stepa sospirò lievemente, si rovesciò su un fianco, batté la testa sui caldi massi del molo. Aveva perso i sensi.


Volete legger un LIBRO?
un ROMANZO?
e anche un CAPOLAVORO?
leggete Il maestro e Margherita, di Mikhail Bulgakov, oppure ascoltatelo in audiolibro (legge Paolo Pierobon).
il godimento, il divertimento, il miglioramento del vostro umore, l'ampliamento del vostro orizzonte, l'arricchimento sulla natura umana, lo stupore e la meraviglia , il raggiungimento del nirvana
sono 
assicurati.
che diavolo!

 ...Dunque tu chi sei? Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene.
GOETHE, Faust

giovedì 13 febbraio 2020

colibrì

ci sarebbe quasi da ridere.
almeno l'anno scorso si trattava di Javier Marias, il libro era Berta Isla, non un capolavoro assoluto ma certamente un buon romanzo.
almeno era un romanzo.
inoltre c'è tutta la combriccola, la solita combriccola dei soliti noti che, lo devo dire, mi fanno quasi un po' pena.
sono sempre tutti asserragliati insieme, hanno anche scritto insieme un pessimo racconto breve su La Lettura, davvero pessimo, appaiono di continuo su La lettura e su molti dei settimanali del Corriere, sono certamente, molti di loro, pubblicati da La nave di Teseo, e sono la crème, ah ah, dio che ridere, della letteratura italiana contemporanea. sempre in testa la Ciabatti, seguita da Avallone, Missiroli, Covacich, Genovesi e Trevi. 
tutti buoni potenziali giornalisti secondo me, Covacich mi è simpatico.
ma scrivere un romanzo è tutto un altro paio di maniche.
il Piccolo Teatro, ma è da ridere, si appresta, con la combriccola, a breve, a festeggiare il premio de La Lettura che verrà consegnato, udite udite, a:
Il Colibrì.
di Sandro Veronesi.
(un capolavoro, ho ripetutamente letto sui giornali con i sopracitati partecipanti della combriccola che rilasciano brevi ma incisivi e indimenticabili commenti qua e la).
il guaio è anche che l'ho avuto, il Veronesi, come "docente" nella mediocre scuola di scrittura che ho frequentato (anche lì i soliti noti anche se un po' più defilati), circa due anni fa. e non solo è stato un pessimo insegnante, non ci ha insegnato proprio un bel niente, ma è stato anche sgradevole. il Veronesi ha passato le due ore e passa di lezione per parlar male di tutti, compresi gli inglesi che hanno avuto il torto di tradurgli male il suo "capolavoro", ovvero Caos calmo. ci ha parlato dei fattacci suoi, durante le ore di lezione. anche per lui, applauso.
sempre meglio star lontani da attori e scrittori e artisti, conoscerli di persona è sempre a grandissimo rischio di farsi domande senza risposta e di cocenti delusioni.
ebbene il Veronesi non è simpatico, ed è pure spocchioso.
inoltre, e qui andrò contro l'opinione generale, contro un'intera giuria di oltre 300 persone che lo ha giudicato meritevole di un premio, ha scritto un libro mediocre.
il Colibrì non è un bel libro, no, non lo è.
l'ho letto, sia chiaro.
speranzosa.
ma diomio, che ciofeca!
eppure se ne dicono meraviglie.
forse sono indementita.
qualcuno chiami un dottore.
è urgente. salvatemi da questa patologia che mi vede sempre contro corrente.
a me il libro non è piaciuto, mi ha annoiato, non mi ha detto nulla, ho saltato intere pagine di elenchi noiosissimi, mi ha anche infastidito, quei salti temporali santo cielo che sistema indisponente, in diverse e numerose pagine.
però salvo un pagina,
una sola.
quella della telefonata irricevibile nella vita.
la telefonata, quella che no, non si può ricevere
salvo solo quella pagina, ha un certo ritmo, ha un discreto pathos.
ma è una pagina su 350.
sarà che sto rileggendo Il maestro e Margherita e quindi, si dai, è chiaro, come si fa??
ma Veronesi l'ho letto prima, il confronto è a posteriori.
certo è che leggendo de il diavolo Woland, lo spilungone quadrettato valletto Korov'ev e l'enorme gatto nero Behemot che si aggirano per Mosca sconvolgendone la vita, chi mai potrebbe competere?
nessuno, è vero.
ma non posso vivere pensando che i libri migliori siano già stati scritti.
non c'è niente altro?
ce ne sono tanti, per carità, ma basta?
è finita la festa?
tornando al nostro Colibrì nemmeno ne capisco il motivo. di questo nome. al personaggio viene affibiata questa definizione ma nulla del suo comportamento mi ha mai fatto credere alla definizione che, forzosamente, gli viene attribuita.
ecco, forzosa è l'aggettivo più calzante di questa inverosimile storia.
certo, nemmeno il Maestro e Margherita è verosimile, ma non lo vuole essere. quella è arte, altissima purissima arte della scrittura e della parola.
la storia del colibrì vuole essere verosimile, fortemente vuole, ma è un trattato in cui non accadono le cose. vengono di continuo spiegate, e interpretate.
la storia non si evince dagli accadimenti ma della spiegazione della stessa.
e siamo fuori dalla costruzione di qualsivoglia narrazione.
i personaggi non vengono e non arrivano, nessuno è connotato, tanto meno il protagonista, tutto viene affibbiato, forzosamente, come fossero doti dei personaggi ma sono solo costruzioni dell'autore.
si sente l'autore dietro che scrive, si avverte la sua fatica, lo sforzo di dare originalità, di costruire effetti speciali, svolte epocali, sfighe singolari, si avverte l'invenzione di un nome che non appartiene al personaggio ma alla regia , ai ciak si gira di chi si è messo a girare il film.
lo stacco è evidentissimo, nulla è dentro le cose e i soggetti, tutto è fuori ed attribuito per evidente regia di chi scrive. è come un esercizio, in cui nulla, dico nulla arriva veramente come emanazione di una narrazione.
i salti temporali, le lettere, tutto è falso. tutto è costruito, un esercizio noiosissimo, per non parlare degli elenchi che derivano dalla formazione in architettura dell'autore, senza nessuna continuità, come cartoline dall'estero.
un'elencazione di lettere, improbabili, ancora una volta forzosamente originali, ha la presunzione di dare descrizione di un amore, ma riesce solo a creare distacco, abissale lontananza. non parliamo delle sorelle e figlie, nulla descrive il dolore, non parliamo della nipote magica creatura salvifica del mondo, ma dove? ma quando? perchè me lo scrivi tu? ma io perchè dovrei crederci?
non ho creduto a niente, sono costantemente rimasta fuori da tutto, guardando l'orologio.
ma quando finisce?
per non parlare dell'italiano. il nostro povero italiano. la lingua adottata da Veronesi è un italiano impoverito, minimale, sguarnito, senza metafore, miseramente descrittivo, spesso infarcito di parolacce (ma abbiamo ancora qualcuno convinto che nei romanzi odierni dobbiamo mettere la miseria della lingua odierna?)
mi ricordo un commento letto da qualche parte, forse su "7", di una lettrice. commentava il libro, appena finito, e diceva qualcosa come: forse mi è piaciuto, ma non so se mi è piaciuto veramente.
ecco, questo mi dice che la lettrice ha capito, come me, che il libro è una tragicomica finta di scrittura.
cara lettrice, possibile che nessuno se ne sia accorto a parte noi due?
sa il diavolo, direbbe qualcuno.

martedì 11 febbraio 2020

l'intelligenza non ha sesso

affermava nel 1911 in un’intervista: “Io sono, io voglio – capisce che voglio? – essere un’artista, poi sarò, naturalmente donna”.
in verità io penso che ogni sesso abbia la sua propria intelligenza.
e che quella di Adriana Bisi Fabbri sia stata folgorante.
sono rapita da questa figura di donna, eccellente, straordinaria, talentuosa, tenace, creativa, ironica, spiritosa, innamorata e combattiva.

sono streagta dai suoi autoritratti






















sono compiaciuta dal suo talento artistico






sono divertita dal suo sarcasmo e dalla sua capacità vignettistica




sono estasiata dalla sue lettere al marito, vere opere d'arte


è davvero consolante fare laconoscenza di una donna come Adrì, così si firmava.
ne percepisco il valore, umano e artistico, la capacità di lottare nei momenti bui (ha vissuto negli anni della prima guerra mondiale, lontana dal marito al quale era profondamente legata), la capacità di coltivare il bello, anche nel rapporto coniugale. la bellezza si conquista, l'intesità e l'energia vitale si coltivano, i risultati sono sempre frutto di una grande fatica.
fotografata dal marito, Giannetto Bisi, che l'ha persa prematuramente nel maggio 2018, per morire a sua volta, un anno dopo.
Pittrice e caricaturista, Adriana Bisi Fabbri emerge come una figura autonoma del complesso scenario artistico a lei contemporaneo. Autodidatta, incuriosita da ogni tecnica e sperimentazione con cui entrava in contatto, la volontà ferrea di essere considerata un’artista a tutto tondo la guida attraverso un’epoca e un contesto in cui molti riconoscimenti e percorsi formativi erano preclusi alle donne. Frutto di un’intensa attività di ricerca che ha visto come protagonista il Fondo Bisi Crotti, di proprietà del Museo del Novecento, il percorso espositivo corre lungo tre linee: la biografia di Adriana Bisi Fabbri, la passione che caratterizza il rapporto con il marito Giannetto Bisi che ne sosterrà il percorso artistico per tutta la vita e la fitta rete di relazioni che la coppia ha intessuto con i protagonisti di due decenni di arte italiana del secolo scorso. Dallo studio delle fonti archivistiche è emerso il resoconto di un panorama artistico pulsante di vita, ricco di progetti, iniziative e movimenti di cui Adriana Bisi Fabbri e Giannetto Bisi furono parte integrante. Oltre duecento opere tra dipinti, disegni, grafiche e materiale documentario costruiscono uno scorcio sulla vita intellettuale di inizio secolo. Arte, giornalismo e avanguardie accompagnano il visitatore in un viaggio che da Ferrara passa per Bergamo e Milano, incontrando personaggi del calibro di Umberto Boccioni, Cesare Laurenti, Ugo Valeri, Eugenio Bajoni ed entrando in contatto con i gruppi d’avanguardia di Torino, Firenze, Venezia e Roma. Il punto di vista di Adriana Bisi Fabbri e del marito Giannetto, catturato nel fitto carteggio inedito della coppia, fornisce una chiave di lettura privilegiata del contesto in cui la coppia si muoveva, intesseva rapporti e relazioni, traeva spunto da suggestioni incontrate e si sviluppava professionalmente e sentimentalmente.




domenica 9 febbraio 2020

Van Manen-Petit

cosa ci sarà mai che possa placare questa mia inquietudine senza fine?
un balletto alla Scala.
(mi so adattare in fondo…)
Serata Van Manen-Petit, su musiche di Ludwig van Beethoven, Kara Karayev, John Cage, Domenico Scarlatti, Sergej Prokof'ev, Gabriel Fauré.
non c'era la mia Nicoletta Manni, e nemmeno Claudio Coviello (a parte le foto).
molti ballerini sono stati sostituiti, temo allettati dall'influenza (una bella vaccinazione antinfluenzale garantita dalla direzione della Scala??).
mi sono "accontentata" di Martina Arduino e di Nicola Del Freo, e molti altri, come Alessandra Vassallo e Gioacchino Starace. ma non mi lamento, stiamo parlando di gente seria.

ADAGIO HAMMERKLAVIER
strepitoso, elegante, perfetto



LE COMBAT DES ANGES
non male, ma i due ballerini erano troppo diversi fisicamente, uno alto l'altro molto più piccolo, l'armonia si è in parte perduta




KAMMERBALLETT
splendido, colorato, mosso



SARCASMEN
interessante, inusuale, ben interpretato.
la mano sul pacco non me la dimenticherò facilmente.


LE JEUNE HOMME ET LA MORT
non mi è piaciuto, retorico, innaturale, perfino noioso.



comunque ringraziodio di tanta grazia.