bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

sabato 31 marzo 2012

Lungo le canore palafitte su cui l'Empireo si sostiene ti mando la mia parte di polvere terrestre...

così inizia una poesia di Marina Cvetaeva intitolata "I fili del telegrafo" che conta di dieci diverse parti.
mi sembra geniale usare questa metafora, l'uso di questa immagine, di questa figura per noi obsoleta ma carica di rimandi,  per segnalare una necessità di comunicazione, urgente, necessaria, non demandabile a qualcuno che si pensa e che si vuol legare a sè.


I fili del telegrafo - III (Strade)

Ripassata e respinta ogni strada
(e coi semafori – specialmente),
polifonia selvaggia
di scuole e disgeli… (un coro


intero in soccorso!), le maniche issando
come stendardi…
                            – senza pudore!–
rombano i lirici cavi
della mia altissima tensione.

Il palo del telegrafo… Si può –
più in breve? Finché c’è il cielo,
corriere infallibile di sentimenti,
notizia concreta di labbra…


Sappi: fin dove – il firmamento,
fin dove – le albe al confine,
così chiaramente e in ogni luogo
e a lungo ti lego.


Tra il maltempo dell’epoca,
oltre scarpate di menzogne – di cordame
in cordame – i miei inediti sospiri,
la mia passione frenetica…

Senza telegrammi (urgente e
semplice costanza modulare!) –
in primavera sonora di grondaie,
in filo spinato di spazi...

«Spesso Marina inizia una poesia con un do di petto». Così Anna Achmatova, altro genio poetico altissimo della grande madre Russia, descrive l'impeto creativo di Marina Cvetaeva, che non si esauriva nell'attacco ma si manteneva intatto nel corso del componimento quasi ignorasse persino l'eventualità di modulare la furia del suo verso. La sua vita coincise con il timbro tragico della sua voce.
così si legge su un articolo del Corriere della Sera relativamente a questa donna poeta dalla vita tragica e ricchissima allo stesso tempo. la sua poesia è incessante e ripulita di incisi, figure retoriche e preposizioni, si appropria del reale quotidiano e lo trasforma in poesia usando le parole e i vocaboli in modo incalzante, creando metafore ardite e contrappunti in modo inesauribile, riducendo all'essenziale il verso.

leggo sul medesimo articolo che Marina cominciò a pubblicare poesie all'età di 18 anni, ribellandosi a una volontà materna che la voleva musicista, ed ebbe una vita poetica e di scrittura estrememente prolifica oltre ad un ampio scambio epistolare con Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak, suo grande amore impossibile. si sposò nel 1911 e nel 1917 iniziò la rivoluzione, Marina perse tutto, casa e proprietà, accettò ogni tipo di umiliazione fino ad elemosinare il cibo per sé e le due figlie Alja e Irina, che morì a due anni in un orfanatrofio per denutrizione. più tardi fuggì a Praga per raggiungere il marito.ed ebbe un terzo figlio, Mur, della cui paternità si dubita -Marina era dedita a molti amori ed avventure etero o non- e al quale lei si legò morbosamente. gli ultimi anni furono concitati e miseri, la famiglia era a Parigi dove vivevano di stenti sorretti unicamente dal lavoro di Marina, che sbrigava lavori domestici. lasciò Parigi per Mosca nel 1939 insieme al figlio Mur per raggiungere il marito e la figlia Alja, che vennero di lì a breve arrestati e deportati in un gulag. la poetessa rimasta sola, dopo il rifiuto a una domanda di lavoro come lavapiatti, a 49 anni, smarrita, una domenica d'estate del 1941, s'impiccò a una trave in una camera in affitto.









Insinuarsi

E, forse, la vittoria vera
su tempo e gravità: passare
senza lasciare tracce, senza
proiettare ombra
sui muri…
Forse - con la rinuncia
prendere? Cancellarsi da ogni specchio?
Come Lermontov al Caucaso, insinuarsi
senza turbare le montagne.
E, forse, unico diletto: con le dita
di Bach sfiorare l’organo
senza turbare l’eco.
Disfarsi senza lasciare cenere
per l’urna.
Forse - con il raggiro
prendere? Da tutti gli orizzonti
uscire? Nel tempo come nell’oceano
insinuarsi - senza allarmare le onde…

ma già a 20 anni, immaginandosi sotto terra, aveva scritto:

...leggi - di ranuncoli
e papaveri colto un mazzetto-
che io mi chiamavo Marina
e quanti anni avevo...solo non stare così tetro,
la testa china sul petto.
con leggerezza pensami,
con leggerezza dimenticami.

mercoledì 28 marzo 2012

cose che mi piacciono









da collezione primavera-estate Valentino, Garance Dorè, The Sartorialist, Elena Braghieri (http://www.catchinginstants.com/)

lunedì 26 marzo 2012

gesamtkunstwerk

ovvero: l'opera d'arte totale.
questo era l'obiettivo artistico del gruppo della Secessione di Vienna e di cui Klimt era parte attiva, talentuosamente attiva. questo movimento era un'associazione di artisti, tra cui pittori e architetti, che si staccarono dall'Accademia di Belle Arti per formare un gruppo autonomo, dotato di una propria indipendenza ideologica e anche di una propria sede, il Palazzo della Secessione Viennese. Gesamtkunstwerk, l'opera d'arte totale, è l'obiettivo di questi artisti che progettano, dipingono, decorano in vista di una fusione completa delle arti.

eccolo il gruppo di rivoluzionari dell'arte e, se la dobbiamo dire tutta, solo Klimt, il secondo da sinistra, seduto sul suo trono e con la sua veste anticonvenzionale da guru, sembra l'unico vero secessionista, spogliato di cappello, vestito, panciotto e posa viennese da fine ottocento. diciamo che allora, a Vienna, i tempi erano molto fecondi: oltre a questo movimento, cui si allineava per originalità anche Schiele nelle sue raffigurazioni ardite, c'era un signore di nome Freud che parlava di emersione dell'inconscio.


il manifesto secessionista aveva regole pittoriche e raffigurative molto precise, un decalogo rigoroso: linee essenziali, bidimensionalità, astrazione, assenza di prospettiva e di ombre, nessun ricorso ai dettagli.
è da tutto questo che nascono e si sviluppano l'idea e la rappresentazione, nel Palazzo della Secessione, del Fregio di Beethoven.
io ne ho visto la trasposizione a Milano, allo spazio Oberdan, in una piccola mostra che espone i disegni di Klimt alla base di quest' opera grandiosa, lunga 24 metri e sviluppata su tre pareti, eseguita da Klimt nel 1902 in occasione della XIX mostra della Secessione dedicata alla grande scultura in marno di Max Klinger raffigurante l'apoteosi di Beethoven, figura storica nella quale Klimt e i suoi compagni secessionisti vedevano l'incarnazione del genio, l'esaltazione dell'amore e l'abnegazione che possono redimere l'uomo.

quel che ho visto, e mai avevo visto prima tra tutte le numerosissime opere che di Klimt si vedono e rivedono, si riportano e si postano, si usano a manifesto dell'amore e della consacrazione della fusione labiale e non solo tra maschio e femmina, mi è piaciuto molto, mi è sembrato molto ambizioso e pienamente riuscito, mi è sembrato maestoso e celebrativo, elegante e simbolico.







nel Fregio di Beethoven, si passa dall'anelito alla felicità e dalle preghiere della debole umanità al forte cavaliere armato all'ostilità delle forze avverse, rappresentate dal gigante e le sue figlie, le tre Gorgoni -malattia, follia e morte, - insieme a Impudicizia Lussuria e Intemperanza, fino al placarsi dell'anelito alla felicità nella figura della poesia nel regno ideale, unico luogo del discorso nel quale possiamo trovare gioia, felicità, amore. Klimt fonde suggestioni diverse: dalla pittura greca e dalla pittura egiziana alle stampe giapponesi e alla scultura africana, che gli suggerisce le orride maschere che abitano il regno del male.
se le immagini pittoriche sono monumentali, oltre che di inaccessibile bellezza e visionarie e sognanti e allusive e terrifiche (Lussuria con i suoi capelli rossi e lo sguardo di traverso e la posa ammiccante è semplicemente ipnotica), i disegni che le hanno preparate sono al contrario fragili, delicati, morbidi e vulnerabili.






è un bel gioco quello cui ho assistito, una costruzione dell'opera d'arte, un castello coloratissimo e luccicante che prende origine da figure delicate e gentili, una carnificazione dell'immagine, un potenziamento visuale attraverso il colore e la definizione corporea. 
attraverso l'occhio dell'artista, anzi, dell'opera d'arte totale.

quando il Palazzo della Secessione venne inaugurato, all'ingresso venne collocata questa frase:

A ogni tempo la sua arte, all'arte la sua libertà.

martedì 20 marzo 2012

abbacinato dalla salute che, come luce, ti sprizza dalle braccia e dalle spalle

credo di non essermi ammalata per dieci o forse quindici anni. anzi ne sono certa.
quest'anno è la seconda volta in meno di due mesi, ma se la prima in confronto è stata una passeggiata, raffreddore mal di gola febbre ma leggevo e scrivevo dal letto, questa volta è stata un'agonia e mi da da pensare.
ho vissuto per quattro giorni, e scrivo al passato perchè confido che dopo una mattinata in pronto soccorso e con una terapia farmacologica ponderosissima da fare nei prossimi giorni e di cui già una buona parte nelle mie vene non mi accada PIU' o mai PIU', in uno stato di malessere profondissimo, puntate febbrili fino a 40° con ascese rapidissime e con tremori quasi convulsivi, accompagnate di notte potrei dire da accessi deliranti, e defervescenze altrettanto rapide con sudorazioni incontenibili, una cefalea fissa penetrante da cinque giorni, di giorno e di notte si intende, nausea, rifiuto del cibo e stordimento pesante. pare trattasi di infezione delle vie urinarie, cistite asintomatica, difese immunitarie un po' perse via. avrei dovuto pensarci che le vie urinarie danno accessi febbrili così scuotenti. ma non ho avuto cervello per molti giorni.
in questi 4 giorni ho rinunciato una dopo l'altra a una seria di bellissime iniziative in serbo per me, la mia lezione lacaniana del sabato mattina, una mostra di Tiziano già prenotata e, soprattutto, un serata di pesia russa. mi avevano anche gratificata con un biglietto omaggio -immagino per assidua frequentazione del teatro in questione.
poesia, Achmatova, Cvetaeva,  Pasternak, Majakovskij e  Esenin , musica e vodka. non so gli altri, ma io una serata così la sogno di notte. era ieri sera, ah ah, forse in ambulanza ci arrivavo. una rinuncia inguaribile. ho scritto al teatro supplicando in ginocchio di una replica per le coglione fragilone tremolone come me...ma ne dubito. e vedo che non mi rispondono...
ora, sarò un po' stupida forse, ma mi rendo conto bene, ora, che la salute è indispensabile.
e' il sine qua non.
io sto bene, sono sana e piena di energia.
in questi giorni ho capito che la mancanza di benessere fisico è una condanna altissima. al di là dei lussi dei passatempo, anche solo camminare senza barcollare, dormire senza delirare, poter cucinare e stendere un bucato, salutare chi ami e poter dire sto bene grazie, andare al lavoro ascoltando guerra e pace, ascoltare e farsi carico di persone per ore, rispondere agli sms con buona facilità, rispondere al telefono senza pensare: ce la faccio a parlare?, riuscire ad avere la forza di alzarsi dal letto per andare in bagno o solo raggiungere il bicchiere sul comodino, provare sul corpo la temperatura in modo piacevole senza agonizzare per il ghiaccio ovunque prima e i tropici dopo, il vero lusso della vita è stare bene.
ho scoperto di provare una gratitudine infinita per chi si prende cura di me, condizione rara, e ho scoperto la lentezza dei movimenti, a me sconosciuta, necessaria in questi giorni, a volte effettivamente di una densita' inaspettatamente piacevole.
ho provato una repulsione per il cibo a me assolutamente sconosciuta. questa mattina ho provato a farmi un caffè ma forse mi sono fatta uno scherzo. ho provato ad abbrustolirmi il pane per metterci il miele -bbbuono-come ogni mattina, l'ho guardato, mi è sembrato un oggetto senza senso, l'ho buttato via senza neanche provarci. ho tentato con un biscotto di quelli per me voluttuosi...digiuna per l'ennesima volta.
ho pensato che se le persone che non provano gusto per cibo, ne sono indifferenti o quasi infastidite provano quello che ho provato questa mattina, allora, mi sono detta, non è vita. a volte mi lamento dei miei eccessi, dei sali e scendi un po' accentuati, ma almeno sono sana, il cibo mi piace, mi da piacere e quella terribile indifferenza di quel momento verso il pane caldo profumato mi ha fatto sentire lontanissima dal gusto per la vita.
forse è per questo, alla fine, che mi sono decisa a scendere in P.S...



A colei che è troppo gaia
Charles Baudelaire


Bello il tuo capo, il gestire, l'aspetto,
Come un bel paesaggio; sul tuo volto
Il riso giuoca come fresco vento
In un limpido cielo. Il malinconico
Passante che tu sfiori è abbacinato
Dalla salute che, come luce,
Ti sprizza dalle braccia e dalle spalle.
I sonanti colori di cui spargi
Le tue tolette, ispirano ai poeti
L'immagine di un balletto di fiori.
Sono l'emblema, queste pazze vesti,
Del variopinto tuo spirito: folle
Di cui son folle, t'odio quanto t'amo!
Qualche volta, in un bel giardino, dove
Trascinavo la mia atonia, ho sentito
Il sole lacerarmi il petto, come
Un'ironia; la primavera e il verde
A tal punto umiliarono il mio cuore,
Che su di un fiore punii l'insolenza
Della natura. E così, una notte,
Appena suona l'ora del piacere,
Verso i tesori della tua persona
Vorrei strisciare, da vile, in silenzio,
Per castigarti la gioiosa carne,
Per schiacciare il tuo seno perdonato,
E infliggere al tuo fianco stupefatto
Una profonda, una larga ferita:
Vertiginosa dolcezza! Attraverso
Le nuove labbra, più splendenti e belle,
Infonderti, sorella, il mio veleno!

venerdì 16 marzo 2012

Cesare deve morire

carcere di Rebibbia.
va in scena Giulio Cesare di Shakespeare.
filmano, in bianco e nero, i Fratelli Taviani.




dove inizia il teatro e dove la vita. dove finisce lo spettacolo e dove la speranza.
diciamo che in questo caso non c'è confine.
il testo di quel genio di Shakespeare tratta della libertà dell'uomo: la lotta contro la tirannia, il trionfo della libertà di scelta. siamo in un carcere, i detenuti recitano e poi tornano in cella, recitano ma sono dentro la loro stessa vita, la loro medesima lotta, il senso o nonsenso del loro essere lì.
non c'è separazione.
da quando ho conosciuto l'arte questa cella è diventatata una prigione.
dice il detenuto che interpreta Cassio. come dice la sua scheda: fine pena mai. omicidio, ergastolo.
di ogni attore si conosce la pena detentiva, di ogni attore si percepisce la pena interiore, la perdita della libertà e il desiderio di riaverla. l'arte come strumento e redenzione.

BRUTO: Che significano queste grida? Io temo che il popolo elegga Cesare re.
CASSIO: Ah sì, voi lo temete? Allora io debbo credere che così non vorreste?
BRUTO: Non lo vorrei, Cassio: eppure lo amo caramente. Ma perché mi trattenete qui così a lungo? Di che vorreste mettermi a parte? Se si tratta di qualcosa per il bene comune ponetemi l'onore dinanzi ad un occhio e la morte dinanzi all'altro, ed io guarderò ambedue indifferentemente; ché mi aiutino gli dèi tanto quanto io amo il nome dell'onore più che non tema la morte.
CASSIO: So altrettanto bene che questa virtù è in voi, Bruto, quanto conosco le vostre sembianze esterne. Ebbene, l'onore è l'argomento del mio discorso. Non posso dire ciò che voi ed altri pensate di questa vita; ma, quanto a me solo, sarei altrettanto contento di non essere, che di vivere per paventare oggetto pari a me stesso. Io nacqui libero come Cesare; così nasceste voi: ambedue ci siamo altrettanto bene nutriti ed ambedue possiamo sopportare il freddo invernale come lui:

(Grida. Fanfara)

BRUTO: Un'altra acclamazione generale! In verità io credo che questi applausi siano per alcuni nuovi onori piovuti sul capo di Cesare.
CASSIO: Ma, amico, egli sovrasta lo stretto mondo come un colosso, e noi omuncoli passeggiamo sotto le sue enormi gambe e scrutiamo attorno per trovarci tombe disonorate. Gli uomini, a un certo momento, sono padroni dei loro destini: la colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi, se noi siamo degli schiavi.


nel carcere si svolgono le prove, e prima i provini, del testo che andrà in scena sul palco, ma il vero svolgimento è lì, tra le sbarre, nelle celle, nei cortili dell'ora d'aria. alla morte di Cesare i detenuti si accalcano sulle sbarre delle celle, acclamano, protestano, urlano, incitano. non potrebbe esserci scena più vera, più potente, più autenticamente teatrale di così.
non si perde una parola di questo testo, o di questo film, o di quest'opera di teatro.
dove Bruto è Bruto e Cesare è Cesare, dove Lucio è Lucio.
il bianco e nero uniforma luoghi e circostanze, l'antica Roma e Rebibbia hanno lo stesso colore. siamo nel luogo dello stesso discorso, siamo nell'arena dei diritti dell'uomo.



Bruto parla nel Foro romano, dopo l'assassinio di Cesare.

BRUTO: Siate pazienti sino alla fine. Romani, compatriotti, e amici!
uditemi per la mia causa, e fate silenzio per poter udire: credetemi per il mio onore; ed abbiate rispetto pel mio onore affinché possiate credere: giudicatemi nella vostra saggezza, ed acuite il vostro ingegno affinché meglio possiate giudicare. Se vi è alcuno qui in questa assemblea, alcun caro amico di Cesare, a lui io dico che l'amore di Bruto per Cesare non era minore al suo. Se poi quell'amico domandi perché Bruto si sollevò contro Cesare, questa è la mia risposta: non che io amavo Cesare meno, ma che amavo Roma di più.
Preferireste che Cesare fosse vivo e morire tutti da schiavi, o che Cesare sia morto per vivere tutti da uomini liberi? In quanto Cesare mi amò, io piango per lui; in quanto la fortuna gli arrise, io ne godo; in quanto egli fu coraggioso, io l'onoro; ma in quanto egli fu ambizioso, io l'ho ucciso: vi sono lacrime per il suo amore, gioia per la sua fortuna, onore per il suo coraggio, e morte per la sua ambizione. Chi v'è qui sì abietto che sarebbe pronto ad essere schiavo? Se vi è che parli, perché lui io ho offeso. Chi vi è qui sì barbaro che non vorrebbe essere romano? Se vi è che parli; perché lui ho offeso. Chi vi è qui sì vile che non ami la sua patria? Se vi è, che parli, perché lui ho offeso. Aspetto una risposta.
I CITTADINI: Nessuno, Bruto, nessuno.

lunedì 12 marzo 2012

la fine di Zenone


in Zenone - si legge- si era notata una certa inquietudine alchimista.
il che mi fa supporre che si vedesse in lui una tendenza alla valutazione della materia, della sua composizione, della sua astrazione, alla sua perfezione. una tendenza allo studio profondo, al di la' delle apparenze.
l’alchimia può essere definita come una disciplina teorica e pratica che si richiama al mito centrale della perfezione della materia, sia essa materia metallica, chimica o spirituale. l’obiettivo dell’alchimista era dunque quello di redimere i corpi dall’originario stato di caos, e pervenire alla loro essenza segreta. potremmo dire che e' lo studio del mistero insito in ogni cosa.
tutto questo mi è sembrato interessante e coinvolgente da subito, questo alone di mistero dei corpi, della materia, e dell'anima, dell'uno e del tutto, è presente in modo penetrante e pervasivo nel corso della lettura di questo incredibile libro.
Zenone è medico, e che medico, il medico che vorrei essere. medico capace, attento, dedito, ricercatore e, soprattutto, distante dall'oggetto, in grado di prendersi carico con la giusta distanza e di dosare con coscienza le sue cure, capace di dialogare con la morte e di capire quando la vita è ancora palpitante, quando ormai ha cessato di essere.
Zenone è alchimista, è indagatore della natura della materia, la sa dominare e codificare.
Zenone è pensatore e filosofo, libero, oltre la sua epoca.
Zenone è capace di molte cose, come si intuisce, appartiene al suo passato, è proiettato nel futuro.
dice al suo antico tutore, in cella, la notte prima dell'esecuzione:
non vi affliggete, la rivolta che vi angustia era in me, o forse nel secolo.
dentro, e fuori.

nello studio della fase al nero -da cui il titolo del libro, l'opera al nero- "l’artefice sperimentava la componente passiva della materia: i corpi si disfacevano nell’acqua mercuriale e con ciò se ne rivelava anche la "possibilità-di-non-esistere". L’alchimia gioca molto su questa tensione/ambiguità tra l’ente in quanto attualmente esistente e l’ente in quanto virtualmente negato. La dissoluzione della materia prima si può far corrispondere alla trasposizione del corpo individuale in uno stato di virtualità, alla sua apertura ad un fondo collettivo di compossibilità, con cui questo è posto in relazione alla totalità dei corpi. Da un altro lato l’apprendista sperimentava anche la propria "possibilità-di-non-esistere": nella materia al nero si rispecchiava tutta la sua im-potenza, la sua passiva incapacità a de-cidere." ...leggo su un testo sull'alchimia.
è così' che nel libro si ritrovano questi processi trasformativi e queste opposizioni,  in modo affascinante e terrificante allo stesso tempo, svolgendosi incessantemente sulla dissoluzione, non esistenza, immaterialita' e inconsistenza dei corpi, ma allo stesso tempo, e' una consacrazione dello spessore carneo e dell'insostituibilita', della regalità  del corpo che abitiamo.
io non lo so se sono una ragazza fortunata o se mi piace tutto quel che leggo, ma questo libro e' stata l'ennesima folgorazione. in verita' penso anche che moltissime cose non mi piacciono e semplicemente non ne parlo. ho anche abbastanza esperienza ormai per scegliere con buone probabilita' un oggetto che mi piace, sia materiale che intellettuale. questo oggetto mi e' piaciuto molto, mi ha portata dritta al capitolo finale, consegnadomi la morte di Zenone, empio di eresia e soprattutto di libertà di pensiero e destinato al rogo, in una descrizione della morte che mi ha avviluppata  e proiettata, appunto, nella dissoluzione, nella non esistenza, nella cessazione del battito. nell'opera al nero.
Zenone decide di morire altrimenti che bruciato agonizzante dalle fiamme, in modo consono alla sua natura, in modo decoroso, in modo rispettoso di sè, del suo nome, del suo pudore, della sua natura di medico.
sono poche pagine, proprio le finali del libro, e sono di una potenza ianudita.
è come addentrarsi nella dissoluzione, nella scomparsa, nella rarefazione.
nel nero, nell'infinito, nelle distanze senza limiti.
ascoltando sono stata percorsa da brividi, dalla paura, dalla sensazione fisica di uno spegnimento.
ci si trova sgomenti rispetto a ciò che Marguerite Yourcenar ci consegna, con un gesto di estremo mistero, nell’atto finale dell’opera al nero quando non può che ammettere che, pur addentrandosi coraggiosamente nella morte,  “non oltre è concesso andare nella fine di Zenone”.
possiamo immaginare, ma solo fino a un certo punto. oltre non si può.

Non ti diedi nè volto, nè luogo che ti sia proprio, nè alcun dono che ti sia particolare, o Adamo, affinchè il tuo volto, il tuo posto e i tuoi doni tu li voglia, li conquisti e li possiedi da solo. La natura racchiude altre specie in leggi da me stabilite. Ma che tu non soggiaci ad alcun limite, col tuo proprio arbitrio al quale ti affidai, tu ti definisci da te stesso. Ti ho posto al centro del mondo affinchè tu possa contemplare meglio ciò che esso contiene. Non ti ho fatto nè celeste, nè terrestre, nè mortale, nè immortale, affinchè da te stesso liberamente, in guisa di buon pittore o provetto scultore, tu plasmi la tua immagine.
Pico della Mirandola "Oratio de Hominis dignitate", incipit del libro "L'opera al nero" di Marguerite Yourcenar.

domenica 11 marzo 2012

donne di Life

incursione domenicale allo Spazio Forma.
35 (io ne ho contate 33, forse un paio le hanno vendute, costi variabili da 1.200 a 9.000 euro) stampe ai sali d'argento dai negativi originali conservati negli archivi della Life Gallery of Photography.
si tratta delle donne di Life: il primo numero di Life uscì nel 1936 con la copertina firmata da quella Margaret Bourke-White che oggi si ricorda come una delle prime fotografe ad aver fatto la storia della donna contemporanea. le sue immagini sono presentate insieme a quelle di altre donne che hanno segnato il nome della rivista Nina Leen, Lisa Larsen, Martha Holmes.
sono belle foto, ci sono donne famose e donne normali, ci sono visioni e vedute.
ci sono un po' di storia e molto coraggio. le donne.

Lisa Larsen



Nina Leen



Margaret Bourke-White




..e per avere un'idea di come questa donna fotografasse: Margaret Bourke-White al lavoro in cima al Chrysler Building, New York 1931, fotografata da Oscar Graubner.

giovedì 8 marzo 2012

I ricordi, queste ombre troppo lunghe

strano, questa mattina, su quel piazzale, lo stesso di quattro anni fa.
molte persone sono le stesse, come spesso in queste occasioni.
trattandosi di persone imparentate.
non vado spesso, anzi in linea di massima non mi presento. assolvo al mio dovere telefonico, e niente più.
non so più quanti zii ho da parte di madre e di padre, e molti, davvero molti, ormai se ne sono andati.
ma questa volta, no, non potevo mancare.
no.
seppure ormai lontano da molti anni, avevo amato questa persona, delicata e gentile.
lo ricordo, negli anni migliori della mia infanzia, comprare regolarmente i pasticcini della Pasticceria dell'Oca, a Laveno.
lo amavo quando lo vedevo entrare nella sala, la grande bellissima sala, a Sangiano, con il pacchetto in carta lucida marrone. è anche lì che si è segnata, impiantata come una radice, definitivamente, infinitamente, la mia affezione per il pacchetto, per la bella sorpresa, per il pasticcino, per la sala, per Sangiano. e per lo zio.
quindi non posso che essergli grata: grazie del dono, zio.
i suoi figli sono i cugini che ho più cari, due persone amabili almeno quanto il padre.
due persone.
lo zio era medico, come lo era mio padre, come lo è uno dei suoi due figli, come lo sono io.
la chiesa era gremita di gente, tanta ma tanta.
come lo era stata, quella stessa chiesa, per la funzione funebre di mio padre.
gente, come un'onda, tutti lì. oltre alla commozione, quindi, anche tanta riconoscenza.
rivedo gente che non conosco più da anni, vecchie amiche di mia madre, una, la sorella dello zio, nemmeno mi riconosce "scusami non so chi sei", l'altra mi abbraccia con un calore inaudito, mi dice che spesso sogna mio padre.
anche io, le rispondo.
mi chiedono tutti dei miei figli. a ogni domanda mi balena nella testa un'immagine del futuro, in cui io non ci sarò.
il pudore dei miei cugini non li ha portati a fare alcun discorso, al contrario di me e mio fratello che, ognuno a suo modo, due stili ben diversi, avevamo portato un bel fagotto di dolore in forma letteraria. avevo scritto di getto una pagina la sera prima del funerale, da lì credo di aver pensato che dovevo scrivere, di più molto di più, come faceva mio padre, come ora faccio io.
credo che le occasioni in cui abbiamo modo di riflettere, e di decidere, siano spesso collegate alla perdita, alla  morte, alla paura della morte.
oggi avevo il cuore in subbuglio, anche se non come allora. chissà dove mi porterà.
intanto oggi, qualcuno, per qualcosa di analogo, per una paura del cuore, mi ha chiesto di fare un nodo.

Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l'amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
(Vincenzo Cardarelli)

lunedì 5 marzo 2012

io sono l'amore


era da tempo che desideravo vedere questo film, di cui sapevo relativamente poco, ne conoscevo l'interprete principale, Tilda Swinton, e questo titolo così attraente. così definitivo. così forte.
devo dire che mi aspettavo di tutto tranne quello che ho visto.
sono rimasta così colpita dalla storia, dall'ambiente, dalle immagini, dalla sensualità che ne sento il riverbero dentro di me ancora adesso.
le prime immagini ritraggono Milano sotto la neve. all'inizio guardando un po' distratta non mi sono affatto resa conto che si trattasse di Milano. la neve annulla i confini, li dilata e li ridisegna, li unifica sotto il suo candore.
proseguendo mi sono accorta che si trattava di Milano perchè il film si svolge principalmente nella casa di questa ricchissima famiglia milanese, la dimora scelta per la loro ambientazione è la Villa Necchi Campiglio, che ho visitato questa primavera in occasione di una mostra (http://nuovateoria.blogspot.com/search?q=sironi) e che ho trovato di strabiliante bellezza. ecco, quella villa è amaliante, valorizzata al massimo dalle inquadrature e dall'aristocratica narrrazione iniziale del film.


iniziale perchè il film inizia nel lusso di una Milano esclusiva e finisce in una caverna appena rischiarata dal sole della Liguria. il passaggio è stridente, il passaggio è la storia narrata nel film, è l'evoluzione da una rigidità algida e formale esasperata a una rivitalizzante ed essenziale sensualità che torna alla natura e alla sua potenza espressiva.
il film è pieno, ma no di più, è stracolmo di riferimenti accennati ma fondamentali, di richiami sottili ma importantissimi, di sentimenti appena accennati ma profondi, di sguardi e particolari fuggevoli ma determinanti. è una ricerca per occhi molto attenti, non nascondo di avere rivisto velocemente alcune scene per poter cogliere tutte le sfumature che avevo appena colto nel corso della prima visione.
l'amore si veste di semplicità e passione nella figura di un giovane chef di bassa estrazione sociale, Antonio, e prorompe in modo violentissimo sconvolgendo la vita di questa opulenta e imbalsamata famiglia, travolgendo uno dei figli, Edoardo, amatissimo dalla madre, prediletto sopra gli altri e complice con lei di un'unità quasi ipnotica e istntiva, e soprattutto, la madre, Emma, di origine russa e dimentica perfino del suo vero nome barattato per una certezza economica ed una elevata posizione sociale. 
ai gesti meccanici formali e irrigiditi dall'agio delle scene inziali si sostituiscono gli incontri d'amore sulle colline della Liguria, nella casa spoglia ma inondata di luce e vita del giovane cuoco, scene traboccanti di suoni e immagini della natura, di sole cicale calore sudore e carne. il tramite della seduzione è il cibo, prima ne viene coinvolto il figlio Edoardo- "da quando ho provato il suo cibo mi sono innamorato di lui"-, poi è il turno della madre, Emma, che viene attirata nella sfera sensuale di Antonio, il cuoco, assaggiando assaporando e gustando cibi che nascondo da una ricerca di bontà e autenticità. in una scena, nel ristorante di Antonio, Emma guarda il piatto di gamberi dall'alto e alla sola vista ammutolisce. la composizione del cibo la stupisce, l'aspetto la seduce. mangia con voluttà i gamberi, la cui consistenza e carnosità e morbidità ammaliano lo sguardo di chi vede, con lei, quel piatto magistrale. mangia, e sogna.
questo incontro tra un uomo e una donna, entrambi estranei ai loro ambienti, entrambi mossi da un'esigenza incontenibile di evoluzione e cambiamento, porterà a spezzare i legami mettendoli in diretto contatto con la natura, da cui Antonio trae vita per le sue creazioni, da cui Emma aveva preso le distanze per costuire la sua maschera borghese altolocata fino a dimenticarsi delle sue origini. per entrambi sarà altissimo il prezzo da pagare, per entrambi l'unica redenzione finale possibile, ma non certa, sarà l'amore.
ci sono scene bellissime, secondo me, di alta intensità drammatica, altre pacificanti e sfumate, con colori sfocati come in una polaroid.
ci sono le immagini di Milano, della Villa, di un'eleganza irraggiungibile, delle sue strade, della neve che la ricopre e la santifica, del cimitero monumetale maestoso e severo, delle statue bagnate dall'acqua piovana che piangono la drammaticità delle scelte e delle fratture insanabili.
Milano mi piace ancora, Milano è la mia città, trovarla in questo film che mi è così piaciuto, e vederla celebrata, lo devo dire, mi ha commossa.

domenica 4 marzo 2012

Portate, treni, per il mondo, scacciati dal paese/ questi allegri ragazzi a non ridere mai più

La miej zoventút (La meglio gioventù)
di Pier Paolo Pasolini

Signòur, i sin bessòj,   no ti ni clamis pí!
No ti ni òlmis pí    an par an, dí par dí!
Par di cà il nustri scur     par di là il To luzòur,
no ti às pal nustri mal   nè ira e nè dòul.
Nuja da trenta sècuj,   nuja no è gambiàt,
al è unít il pòpul     e unít al combàt,
ma il nustri scur al è    scur di ogniùn di nu
e spartí lus e scur   ti lu sas doma Tu!
Dìs di vura! Dìs muàrs!    A svolta la careta
su vièrs la stassiòn    par la plassa quieta,
e a si ferma denànt    la s-cialinada nova
russànt tal glerìn     che il puòr soreli al sbrova.
Li sbaris son sieradis     doi càmions a spètin
fers tra i rudinàs,    tra bars di cassis secis,
e na reciuta a poca     na cariola strinzìnt
afanada na ponta    dal fassolèt cui dinc'.
Il fantàt cu l'armònica     al salta ju sunànt
e il pì zovinùt     cu la scoria al flanc
ghi dà il fen al ciavàl,    po' al entra balànt
davòur di chej altris     luturàns dongia il blanc.
Un puc ciocs a ciàntin     la matina bunora
cui fassolès ros     strens atòr la gola,
e a comandin sgrausìs    quatri litros di vin
e cafè par li zòvinis     che ormai tazin planzìnt. 
Vegnèit, trenos, ciamàit     chis-ciu fantàs ch'a ciàntin
cui so blusòns inglèis     e li majetis blancis. 
Vegnèit, trenos, puartàit   lontàn la zoventút
a sercià par il mond    chel che cà a è pierdút.
Puartàit, trenos, pal mond    paràs via dal país,
chis-ciu legris fantàs     a no ridi mai pí.

1953

trad.: Signore, siamo soli, non ci chiami più!/ Non ci guardi più, anno per anno, giorno per giorno!/ Di qua il nostro scuro, di là il Tuo chiarore,/ per il nostro male non hai né collera né compassione./ Niente da trenta secoli, niente è cambiato,/ si è unito il popolo e unito combatte,/ ma il nostro male è male di ognuno di noi/ e spartire male e bene lo sai solo Tu!/Giorni di lavoro! Giorni morti! Svolta la carretta /su verso la stazione per la piazza quieta,/ e si ferma davanti alla scalinata nuova,/cigolando sul ghiaino che scotta al povero sole./ Sono chiuse le sbarre, due autocarri aspettano /fermi tra i calcinacci, tra siepi di acacie secche, /e una vecchietta spinge la carriola stringendo,/affannata, una punta del fazzoletto tra i denti. /Il giovane con l'armonica salta giù suonando, /e il più giovanino con al fianco la frusta, /dà al cavallo il fieno, poi entra ballando /dietro gli altri, spavaldi presso il banco. /Un poco ubriachi cantano, alla mattina presto, /coi fazzoletti rossi stretti intorno alla gola,/poi comandano rauchi quattro litri di vino, /e caffè per le ragazze, che ormai tacciono piangendo. /Venite, treni, caricate questi giovani che cantano/ coi loro blusoni inglesi e le magliette bianche. /Venite, treni, portate lontano la gioventù,/ a cercare per il mondo ciò che qui è perduto./ Portate, treni, per il mondo, scacciati dal paese/ questi allegri ragazzi a non ridere mai più).



scrive in friulano, in questa e altre poesie, Pasolini.
da qui il titolo del celebre film, quello di Giordana.
di Pasolini ho assistito un anno fa alla rappresentazione teatrale di "Na specie de cadavere lunghissimo", di sconcertante attualità tratto dai testi del Pasolini più 'corsaro' in cui forte e dura è la riflessione sulla nuova barbarie contemporanea, la pubblicità, il consumismo, la televisione, l'ampia e diffusa e 'tollerante' omologazione di usi, pensieri e costumi.
qui invece è poesia, verace e contadina, poesia che appartiene alla terra e alla gente.
quella che soffre, che spera, che parte e che va a morire.