bianco e nero

come una foto. in bianco e nero. nessuna concessione al colore, alla spettacolarita', ai nuovi barbari. bianco e nero colori vividi dell'essenziale, solo l'autenticita' della forma. della sostanza. l'occhio vede e non si inganna.
"questo e' il mio segreto.
veramente semplice.
si vede bene solo con il cuore.
L'essenziale e' invisibile agli occhi."
Il piccolo principe. A.d.S-E.

lunedì 29 gennaio 2018

La meraviglia dell’amicizia virile

La meraviglia dell’amicizia virile 
di Alessandro Piperno (mio maestro preferito)
La lettura, 28 gennaio 2018

Prima o poi può capitare a chiunque di imbattersi nella moglie di un amico in atteggiamenti licenziosi con un altro. Eccola lì – il tavolo più in disparte di un locale fuoriporta – scambiarsi tenerezze con uno sconosciuto! Al primo impulso di andare a salutare, goderti sadicamente il suo imbarazzo – le tempie paonazze, il balbettio di patetiche scuse – ne segue un altro di segno opposto: pagare il conto, filare via furtivi e riflettere sul da farsi.  A me accadde anni fa. Che choc vedere la ragazza di uno dei miei più cari amici – la coppia più affiatata del nostro gruppo – avvinghiata a un tizio in un cinema d’essai. Mi comportai nel modo che ancora oggi giudico il più appropriato. Non dissi niente, tenni quel segreto per me (fino ad ora, almeno). Dopotutto che diritto avevo di intromettermi? Chi mi assicurava di non essermi sbagliato? E qualora ci avessi visto giusto, chi mi diceva che la coppia più affiatata del nostro gruppo non lo fosse proprio in virtù della spregiudicatezza sessuale, un’indulgenza sapiente e reciproca? Del resto, non ho mai giudicato gli adulteri con severità. La monogamia è un oltraggio alla natura così sconsiderato che mai e poi mai mi sarei eletto a censore delle scappatelle altrui.
Ho fatto bene? Chi può dirlo! Se i due oggi sono sposati, hanno un paio di figli e veleggiano verso la maturità con un certo garbo, non lo devono anche un po’ alla mia discrezione? Non so se la signora nel frattempo ha rotto con il suo amante o se l’abbia sostituito, non so se il mio amico è al corrente di questa o altre infedeltà. So che l’amicizia pone dilemmi morali di questo tipo. Se l’amico in questione mi sta leggendo e sospetta che è suo il matrimonio di cui vado cianciando potrebbe giudicare il mio riserbo di allora non meno riprovevole della franchezza odierna (a mezzo stampa, per di più). Potrebbe pensare di essere stato tradito due volte: prima dalla malafede della moglie poi dalla reticenza di uno dei suoi più vecchi amici. La gente non è indulgente né con gli omertosi né con gli ipocriti. Mi chiedo: esiste in certi casi una deontologia comportamentale?
Amicizie virili È difficile spiegare cos’è l’amicizia virile a chi non l’abbia mai vissuta. Per me che ho radicate difficoltà a confrontarmi con l’altro sesso, è un diversivo spensierato, un’oasi alle fruste faccende quotidiane. Le cene, il cazzeggio, la Lazio (allo stadio, in tv, fa lo stesso), le lunghe sedute a Subbuteo o alla PlayStation, il bicchiere della staffa, le diatribe sui massimi sistemi filosofici, le dispute su quel libro che proprio non ti ha convinto e su quello che non riesci a scrivere, i sogni di gloria, le disfide ideologiche, le balle, il pettegolezzo, la maldicenza, le figure di merda, le confessioni più vergognose... Per non dire dei viaggi senza meta, i gesti di benevolenza reciproca, ma anche le prese in giro spietate ( cojonella, la chiamiamo a Roma). Tutto questo è impagabile, insostituibile. L’ultimo sorso di adolescenza a disposizione di un adulto. Ho più di un amico che esulta (senza darlo a vedere) quando la moglie va in vacanza come nel famoso film con Marilyn Monroe, e mica perché così potrà darsi alla pazza gioia, ma per dedicare un po’ di tempo agli amici, tornare ragazzo almeno per il weekend. E allora via con il turpiloquio, con la selvatichezza, con la libertà.
Adoro l’ultima scena de L’educazione sentimentale quando Frédéric Moreau e Deslauriers, rinvangando i bei tempi andati, si commuovono su quella volta che andarono al bordello insieme. Frédéric esclama: «È la cosa più bella che ci sia capitata» e Deslauriers non può che convenirne.
Dio sa se li capisco. Mica perché sia un frequentatore di bordelli, ma perché immagino che anche a me tra qualche anno capiterà di rimpiangere il cameratismo, la complicità, i simposi con i pochi amici di una vita.
In un passo famoso di Antropologia pragmatica Kant scrive: «La specie di benessere che sembra meglio accordarsi con l’umanità è un buon pranzo in buona (e, se è possibile, anche varia) compagnia, della quale Chesterfield dice che non deve essere al di sotto del numero delle Grazie, né al di sopra di quello delle Muse». In poche parole, meno di nove e più di tre. E trovo che Chesterfield esageri per eccesso. Il numero perfetto a tavola è quattro, come i Cavalieri dell’Apocalisse.
Solo i misantropi danno valore all’amicizia? Non deve sorprendere che un orso nichilista come Flaubert e un abitudinario incline alla solitudine come Kant tenessero in così alta considerazione amicizie e convivi. Chi se non colui che ha seri problemi a frequentare il prossimo può apprezzare i pochi simili con cui sta bene? Nulla è più raro al mondo che una persona abitualmente sopportabile, pensava Leopardi. E come al solito aveva ragione. Ecco cos’è un amico: un raro esemplare di persona abitualmente sopportabile. Pochi ma buoni, questo è il motto.
Perché era lui; perché ero io Il che spiega perché lo scrittore che meglio ha saputo descrivere l’insostituibilità dell’amicizia, i suoi incanti, l’empatia, è anche colui passato alla storia per la scelta di chiudersi nella sua torre d’avorio, trascurando ogni altra faccenda, a meditare e a scrivere per il resto dei suoi giorni: parlo di Michel Montaigne naturalmente. Il suo amico del cuore si chiamava Étienne de La Boétie e per via della morte prematura di quest’ultimo la loro amicizia durò poco più di un lustro. Montaigne passò i decenni che gli rimanevano da vivere a rimpiangerlo, parlandone sempre con toni più consoni all’amore forse, che all’amicizia, tanto da autorizzare in qualcuno il sospetto di omosessualità. Mai un legame fu più franco, profondo, elettivo. Nel saggio Dell’amicizia, Montaigne scrive infatti: «Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: Perché era lui; perché ero io». Conoscete una definizione più efficace e più struggente dell’amore e dell’amicizia? Perché amiamo qualcuno? Perché gli siamo così devoti? Semplice: perché noi siamo noi e loro sono loro. Cos’altro c’è da dire o da spiegare?
In un saggio più tardo, Montaigne, tornando sull’argomento, chiarisce ancora meglio il suo punto di vista. Parlando delle poche cose per cui la vita è degna di essere vissuta (donne, amicizie, libri), confessa di essere un buon conversatore ma di aborrire le amicizie frivole. Le vere grandi amicizie si contano sulle dita di una mano. Sta ancora pensando a La Boétie naturalmente. È per colpa di quell’amico morto da molti anni, quel compagno che lo ha in qualche modo viziato, che Montaigne ha perso interesse per tutti gli altri. Le amicizie, quelle vere e profonde, si basano solo sull’elezione e sull’affinità. Come si vede: solo gli isolati credono davvero nell’amicizia.
Chi aveva ragione tra Montaigne e La RochefoucauldAl contrario sono i mondani, gli estroversi, chi conta migliaia di amici su Facebook, chi non si perde un cocktail o una prima al cinema, a non tenere in gran conto l’amicizia, un po’ come i libertini per cui una donna vale l’altra.
E mi viene subito in mente un altro dei Gran Signori delle lettere francesi. Vissuto quasi un secolo dopo Montaigne, il duca di La Rochefoucauld frequentava assiduamente il salotto di Madame de Sablé, circolo parigino tra i più rinomati ed esclusivi nei formidabili anni della Reggenza. Intrecciò amicizie profonde – straordinariamente proficue per la letteratura occidentale – con Madame de La Fayette e Madame de Sévigné. Che trio incredibile! Il duca era bello, ricco, audace, un conversatore strepitoso, divertente e disincantato a un tempo. Oltre alle stupende Memorie gli dobbiamo le famose Massime. Dato il contesto, non ci sorprende che in una di esse scriva: «Per raro che sia il vero amore, è meno raro della vera amicizia». Assai più sorpresa ci suscita questa, altrettanto famosa: «Nelle avversità dei nostri migliori amici noi scopriamo sempre qualcosa che non ci dispiace». La Rochefoucauld mette il dito sulla piaga purulenta dell’amicizia, svela l’oscuro doppiofondo di qualsiasi sodalizio.
Per intenderci, provate a immaginare una telefonata con il vostro più caro amico. Ecco che, dopo il solito cazzeggio, vi annuncia: «Senti, ho una cosa da confessarti». «Tipo?». «Una cosa grossa». «Dai, non tenermi sulle spine». «Hai presente il vincitore della lotteria di Capodanno, quello che non si fa trovare? Il possessore del biglietto da dieci milioni di euro». «Be’, è il tuo benzinaio? La tua colf?». «No, sono io». «Dai, non scherzare». «Parlo seriamente».
Ditemi se non è un’ottima ragione per mettere alla prova la tenuta di una lunga consolidata amicizia. Dovremmo essere contenti per lui, il nostro amico è diventato milionario. Eppure in quel momento lo vorremmo morto. Facciamo di tutto per dissimulare questi impulsi biechi ma è più forte di noi. Siamo sconvolti. Non a caso Oscar Wilde, a suo modo un moralista classico non meno geniale di La Rochefoucauld, diceva: «Ognuno può compatire le sofferenze di un amico, ma è necessaria una natura davvero gentile per simpatizzare con i successi di un amico». Nessuna amicizia è mai davvero limpida. Ecco perché non c’è niente di meglio che parlare male di un amico. Ci piace ammirarlo, ma talvolta ci piace anche disprezzarlo. In fondo è invecchiato peggio di me, ci cogliamo ogni tanto a pensare. E ne proviamo conforto. Ma se muore, o se in qualche altro modo viene meno, lascia una voragine profonda, non un dolore che toglie il fiato, ma una specie di malinconia soffusa e immedicabile.
Insomma, credere o non credere nell’amicizia? Credere o non credere nella sua purezza e onestà? Chi aveva ragione, Montaigne o La Rochefoucauld? A chi dare retta, al solitario o al mondano?

domenica 28 gennaio 2018

spazi (leggeri?)













Fabio Adani
Affordable Art Fair, Milano, gennaio 2018

comunque a me non sembra leggero, a me sembra un macigno.
una visualizzazione angosciosa del non essere.
lo trovo strepitoso.


venerdì 26 gennaio 2018

ringrazio

ringrazio sentitamente Paolo Giordano per la sua serietà e per avermi insegnato qualcosa e per aver sollevato, almeno in parte, la categoria degli scrittori italiani.
ringrazio anche Fabrizio Gifuni perchè la sua prova attorale in qualità di Freud mi ha restituito fiducia, direi che proprio mi ha fatto bene.
ringrazio Luca Marinelli che strordinariamente rappresenta De Andrè e De Andrè per essere esistito.
ringrazio chi fa coscienziosamente il proprio lavoro, chi impegna la propria vita abitando il proprio desiderio, chi cerca di dare un senso, chi sa che il proprio ben-esistere rende possibile l'esistere di tutti gli altri.
spero che siano in molti.

domenica 21 gennaio 2018

museo dell'innocenza

“Era l’istante più felice della mia vita, e non me ne rendevo conto. Se l’avessi capito, se allora l’avessi capito, avrei forse potuto preservare quell’attimo e le cose sarebbero andate diversamente? Sì, se avessi intuito che quello era l’istante più felice della mia vita non mi sarei lasciato sfuggire una felicità così grande per nulla al mondo. Quell'istante prezioso che avvolse il mio corpo in un abbraccio profondo e sereno durò solo qualche secondo, è vero ma la felicità di quel momento parve proseguire per ore, estendersi per anni.” (Kemal, dall'incipit de “Il Museo dell’Innocenza” di Orhan Pamuk)
il museo dell'Innocenza di Orhan Pamuk mi ha deliziata.
un'intuizione geniale e potente sottende la ricerca di questo artista.
la linea che collega gli oggetti disseminati della nostra memoria costruisce la storia, la narrazione.
ed è una narrazione il filo conduttore degli oggetti del suo personaggio, Kemal. 
una narrazione romantica di una delusione d'amore. una delusione che ha preso corpo che ha conquistato uno spazio.
come dice Pamuk, nei musei il tempo (quella della narrazione) diventa spazio. l’allestimento è la riproduzione fedele di quello che il personaggio Kemal ha progettato e che Orhan Pamuk ha realizzato, ma è anche un modo per raccontare Istanbul, una rappresentazione della Città alla fine anni ’70 di questo secolo. ci sono circa 1500 oggetti esposti nelle 83 vetrine, una per ogni capitolo del suo libro in almeno 15 anni di paziente lavoro.
ed ecco il piccolo miracolo del museo dell'Innocenza, alcune delle teche del museo originario (che ha sede a Istanbul) sono esposte al Museo Bagatti Valsecchi e raccontano tramite lo spazio gli oggetti le cose, la parola della sofferenza. 















secondo Pamuk è ora di smetterla con i musei che incutono paura, che presentano una storia universale e sovragenerazionale, le culture dei grandi paesi. la vera sfida è raccontare attraverso i musei la storia dei singoli individui che vivono in questi paesi, con la stessa profondità intensità e forza.
la misura del successo di un museo dovrebbe consistere non nell'abilità di rappresentare uno stato ma nel rivelare l'umanità degli individui. secondo Pamuk il futuro dei musei è dentro le nostre case,  nell'intimità dei nostri angoli domestici, custodita negli oggetti che costellano la nostra memoria.
in un errare furibondo e forse terapeutico tra oggetti di ogni genere, saccheggiando rigattieri e mercati, e nel costruire un'impresa non da poco, una raccolta di riferimenti concreti a un dolore abbandonico altrimenti inesprimibile, Pamuk crea questa storia parallela tra i suo romanzo e il suo museo in una tensione costante basata sulla finzione, sulla costruzione fantastica di un intreccio che ti lascia spesso il dubbio di essere stato intrappolato in una storia vera. ah, il potere della narrativa. 
forse gli oggetti leniscono il dolore, ed è così che Pamuk attraverso il suo Kemal che soffre per amore visualizza anche una tavola anatomica “per mostrare al visitatore del museo i punti dove la mia sofferenza amorosa in quei giorni si manifestava, si acutizzava e si diffondeva” segnandoli “sull’immagine che ritraeva gli organi interni del corpo umano nel cartellone pubblicitario del Paradison, un antidolorifico che, in quel periodo, mi aveva colpito nelle vetrine delle farmacie di Istanbul”. ah, la meraviglia della narrativa.
assistiamo al dipanarsi in termini spaziali della verità di un romanzo che risiede nella parola, in una consecutio temporale che trova una traduzione visiva.
non un gioco innocente, secondo me, un gioco letterario che vibra sull'orlo dell'equivoco, ma è questo il gioco a cui giochiamo quando leggiamo un libro. 

uomo seme

chissà perchè fa così.
è incomprensibile.
forse, semplicemente, mi sono lungamente sbagliata, non è come credevo che fosse.
uno spettacolo godibile, ma niente più.
lo spettacolo vanta una bella presenza scenica di un gruppo di donne che cantano la femminilità ancestrale. si chiamano quartetto Faraualla. mi hanno ricordato le Ganes, gruppo della Val Badia che canta in ladino. queste invece sono pugliesi, rievocano polifonie e radici antiche. 
anche la scelta scenografica è piacevole, luci e oggetti e il grande albero. ma niente di nuovo.
il testo, l'Uomo seme di Violette Ailhaud, è fragile, debole, francamente poco interessante, poco incisivo. poco da raccontare. poco da lasciarsi dietro.
quel che salvo del testo è la rivendicazione della differenza dei generi necessaria in un mondo che predica spaventosamente il genderless. c'è il femminile, c'è il maschile, a una la voce o meglio la parola, della storia dell'umanità, all'altro il segno, la traccia del fare, del seminare, del tramandare il nome.
diciamo tutto benino senza lode, tranne la Bergamasco.
la nostra attrice insiste su questo tono caricaturale, enfatico, retorico, indigeribile.
quasi temevo che parlasse perchè la sua voce avrebbe certamente guastato la scena. ed è stato immancabilmente così. a volte attenuava il carico e io speravo lo lasciasse a terra ma poi ricominciava a portarsi sulle spalle il fardello di questa storpiatura.
è da tempo che la sento declamare con questo tono drammatico, con il vocione impostato. la sensazione che domina è che non sappia recitare se non così. mi sembrava, in tempi meno sospetti, meno sospinti dal successo attuale, meno indotti anche dalla ricerca sulla voce di suo marito, Fabrizio Gifuni, che sapesse usare ben altro che l'enfasi posticcia per dire qualcosa nel suo affascinante mestiere.
qualcuno glielo dice per favore che la deve piantare?
devo dire che anche l'ultimo audiolibro di Gifuni, Notturno cileno di Bolaño non mi piace. non mi piace il testo e non mi piace Gifuni che legge, anche lui impostato su un registro forzato, perfino con un falso accento spagnolo. un po' mi annoia un po' mi infastidisce.
non vorrei avessero deciso di cavalcare quest'onda accecati da un equivoco, entrambi.
è così: la purezza non esiste e forse è meglio così.
meglio essere periodicamente delusi per poi ricominciare a cercare altrove, e non fare mai di nessuna cosa un ideale.

venerdì 19 gennaio 2018

sono invisibile. sono sempre stata invisibile come la povertà in un paese ricco.

Mio nipote che dorme in un seminterrato 
ha messo un pannello di ferro fuori dalla finestra 
per catturare il suono della pioggia sul tetto.

Un pannello di ferro ripara solo i tetti.
Tuttora illeso dalla pretesa 
che cambiamento e differenza non si vedano mai, può ancora 
riparare i danni ricreando l’amato suono della pioggia 
che crede di aver udito nell’infanzia.

Non gli dico nemmeno, Nella vita errante della sconfitta 
il ferro è un fardello, che un giorno dovrà trovare 
dentro di sé nell’oscurità totale e nel silenzio 
quel ferro che non solo porterà il suono perduto della pioggia 
ma anche il sole, le voci dei morti, e tutto quello che è passato.

Janet Frame

lei è l'angelo alla tavola di Jane Campion. Dice: Non siamo feriti da una spina velenosa sconosciuta ma da una che è in noi cresce in noi la punta del nostro cuore e centro. dice anche: Il penny cesellato della luce che la nascita gli ha messo in mano. e poi dice: Sono invisibile. / Sono sempre stata invisibile / come la povertà in un paese ricco, / come i ricchi nelle stanze riservate delle loro case piene di stanze, / come le pulci, i pidocchi, come un’escrescenza sottoterra, / i mondi oltre il cielo, il vento, il tempo, le idee — / l’elenco dell’invisibilità è infinito, / e, dicono, non fa buona poesia. / Come le decisioni. / Come l’altrove.  

era schizofrenica, molti ricoveri, internata per otto anni in manicomio, sottoposta a circa 200 trattamenti di elettroshock.
parla come parla chi ha sofferto mentalmente. dolore, fragilità, oscurità e scrittura con la punta, che affonda.

mercoledì 17 gennaio 2018

senza punto

Dolores é morta
È dura ma è così
Ho conosciuto i Cranberries tramite un film, davvero molti anni fa
Era Butterfly kiss di Winterbottom
La morte è assenza e di lei non ci sarà più, per me, la sua voce
Era molto malata, un male di vivere immedicabile
Mi ricordo che vederla ai concerti era strano, era molto impacciata nel suo corpo, era innaturale, minuta e molto goffa
Non le apparteneva quel corpo, si vedeva, anche nei video
Lo ha restituito
Merita la maiuscola
E nessun punto
All'infinito

lunedì 15 gennaio 2018

l'umanità del teatro

è un titolo bellissimo per una mostra, e per un insieme di eventi, bellissimi.
ci sarebbe stato molto da vedere e sentire, se solo non dovessi lavorare, se solo fossi già in pensione chissà, me li sarei sentiti tutti gli interventi su Strehler e Goldoni, e Brecht e Shakespeare e Cechov.
e me le sarei guardate tutte le presentazioni di spettacoli con la sua regia. invece ho visto solo Il temporale di Strindberg e Vita di Galileo di Brecht.
la sera del 24 dicembre sono andata a sentire un pezzo dei Mémoires di Goldoni proiettati su Palazzo Reale, alle 18.00 - che bella dedica a Milano - ma la cena della vigilia, ovvero i fornelli, mi hanno tristemente richiamato a casa.
ho visto la mostra a Palazzo Reale, era il primo dell'anno, e ho sentito, ancora una volta, quel restringimento del miocardio.
qualcosa della mia circolazione corporea e della mia funzionalità cardiaca e respiratoria vanno mutando in presenza di Strehler, o della sua idealizzazione. si tratta di una patologia ereditaria, è una radice che tira verso il profondo, è una radice che affonda nella terra umida dell'appartenenza paterna, che mi fa stremire.
forse molti anni di analisi sono passati invano, oppure hanno fatto il loro dovere, del padre bisogna liberarsi per poi servirsene, forse per me è andata proprio così.
se giro per la mostra, in quel della Sala delle Cariatidi, e mi sento sul limitare del mio infinito, del mio dolce naufragar in questo mare, e se sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo ove per poco il cor non si spaura, certo, qualcosa mi sta succedendo.
ed è così, sento un'appartenenza che urla, sento un amore sconfinato per il teatro e la bellezza, e sento che sono a casa, a casa, a casa mia.
mi aggiro tra il Don Giovanni e Le baruffe Chiozzotte e Così fan tutte e, figurarsi, Arlecchino servitore di due padroni e provo struggimento. Arlecchino è lo spettacolo che più ho visto nella mia vita e penso che ancora lo rivedrò, e poi un'altra volta ancora, penso che sia Lo Spettacolo di Teatro, penso che sia la vita, la mia stessa vita. è in parte vero, è in parte una fantasia, un'idea e un'idealizzazione, va bene, lo penso, è una interpretazione tra altre possibili, ma troppo spesso si ripete questo invincibile cedimento per non pensare che lì qualcosa mi riguarda in modo intimo, così intimo da vergognarmene.

Goldoni è stato una specie di fratello maggiore col quale ho parlato tante sere, in una stanza, mangiando qualcosa e bevendo un po’ di vino e giocando spesso a carte. […] Mi ha sempre aiutato a cercare il mondo, l’uomo e a guardarlo con curiosità, amore e ironia in tutto il suo affanno. Mi ha insegnato un amore implacabile per il teatro.
Giorgio Strehler



















Alla fine la vera conoscenza di un'opera è un atto affettivo. Gli spettacoli. quelli, sono ormai cenere di un fuoco che ha bruciato in un lampo dando calore a molti, precipitando nel buio altri: sono memoria di chi li ha visti. Mito o racconto per chi non li ha vissuti. Ma questo è destino magnifico e desolante del teatro di tutti e di tutti i tempi. Bisogna accettarlo. così come si accettano la morte e la vita.
Giorgio Strehler

sabato 13 gennaio 2018

il sindaco del rione sanità

erano tutti molto presi.
come me.
la platea era assolutamente rapita e dentro la commedia.
nessuno, dico nessuno, più si muoveva, nessuno, e dico nessuno, guardava i cellulari.
segno distintivo di una platea che si annoia (oltre che maleducata, ci si può pure annoiare annoiandosi fermi) è la costellazione di luci emanati dai dispositivi durante gli spettacoli, o i concerti.
molti, a volte moltissimi.
lo si potrebbe adottare come metodo di rilevamento del gradimento, del livello di coinvolgimento.
ma questa volta ne sono certa: tutti erano là, in scena, in quel mondo.
il mondo è quello de Il sindaco del rione sanità, testo di Eduardo De Filippo, regia di Mario Martone, Teatro Piccolo Grassi di Milano.
lo spettacolo è sorprendente, coinvolgente, commuovente. potrei dire bello, senza sembrare banale.
il testo è strepitoso.
la scelta registica è moderna, attuale, apprezzabile.
di spettacoli ne vedo a bizzeffe, non so quante volte sono andata a teatro dall'inizio della stagione.
martedì ero al Parenti a vedere una boiata, Sorelle Materassi.
una rappresentazione scenica imbarazzante.
un susseguirsi di luoghi comuni, il buon Palazzeschi ridotto a una macchietta.
mi sono addormentata, eppure era in primissima serata, eppure vengo da una lunga vacanza riposante, non me lo spiego se non che la noia, e forse il disgusto, mi hanno proprio fatto chiudere gli occhi.
invece, la potenza del teatro, del buon teatro, è la sua enorme forza trainante.
è quell'entrare in sala con i propri pensieri e trovarsi, dato il tempo necessario per un abbandono, altrove.
in un completo altrove.
sappiamo che è finto, eppure è straordinariamente vero.
è l'umanità del teatro, è la sua verità: permettermi di credere.
Antonio Barracano può dare la vita per rimanere coerente alla sua personalissima etica.
Antonio Barracano, dopo avermi fatto vedere cosa pensa del mondo, decide che è ora di smettere di girare a vuoto, forse finalmente libero dal quel giro di vento.
e io, ieri sera, ci ho creduto.

italian idiots

anche al corso di scrittura non possono mancare gli idioti.
sono due.
lei femmina
lui maschio
categoria comune: homo sapiens?
no: idioti
lei arriva sempre mezz'ora dopo, oppure va via un'ora prima.
l'ultima volta è arrivata mezz'ora dopo ed è andata via un'ora prima.
non si fa mancare nulla, la signora.
lui arriva tardi, con moderazione, ma spesso se ne va prima.
elemento distintivo (nessuna medaglia al valore, per carità, somigliano ad altri milioni di idioti come loro): uso indiscriminato del cellulare.
quando? durante tutta la lezione (per quei minuti in cui ci sono).
elemento differenziale? lui, da bravo maschio, si vergogna, guarda di continuo whatsapp ma di nascosto, rendendosi ulteriormente meschino sbirciando sotto la sciarpa.
(ma, a onor del vero, l'ultima volta ha anche fatto una telefonata, nel pieno della lezione: quale indomito coraggio, così, davanti a tutti. però parlava sottovoce, forse non vale).
lei, da brava femmina, è assolutamente sfacciata, legge senza sosta senza alcuna vergogna, guarda, digita, alza, sposta, con anche annesso l'armamentario degli auricolari. impossibile non notarla dalla parte di chi fa lezione.
capisco che spesso le lezioni sono deludenti ma i due soggetti sono oltre la delusione.
sono nella rappresentazione del sottovuoto spinto cerebrale.
forse fieramente ribelli e io non lo capisco, forse con molti soldi da buttare dato che il corso ha un costo esorbitante (soprattutto alla luce della qualità delle lezioni).
ma, dato che non frega niente, non vale non venire, bisogna venire per dire a tutti gli altri idioti che si viene, venire ma al contempo essere altrove, in contatto con gli altri idioti ai quali, di lì a 10 minuti quando si esce un'ora prima per raggiungerli, si dirà (very cool): sono stato a lezione del corso di scrittura.
c'è da dire anche che spesso fanno i brillanti con i docenti, diciamo, si intrattengono, deve far parte del copione. spesso l'intrattenimento brillante con mossa giusta scaturisce dal vuoto mentale, dal bla bla, dal ripescaggio furbo dal repertorio cinematografico.
poi, vedrai, pubblicheranno anche un libro (e dopo quel che ho sentito nemmeno me ne stupirei, lo scrittore non è una categoria superiore).

venerdì 12 gennaio 2018

solo libri

quel che sto capendo in questi giorni è che gli scrittori (come forse anche gli attori) è meglio non conoscerli.
che scrivano e basta.
senza volto
senza voce
senza carattere
senza conoscenza
senza eloquio
quando parlano rivelano quel che sono, io non voglio più saperlo, assolutamente no, voglio solo e solo leggere libri.
così, rischio di smettere.

James Nachtwey. Io sono un testimone

Io sono un testimone, la mia testimonianza sono le mie fotografie. Voglio che siano potenti ed eloquenti, oneste e senza censure, voglio che riflettano l’esperienza delle persone che sto fotografando. Quando qualcuno soffre non significa che non abbia dignità, anzi, sopportare la sofferenza può essere una forma elevata di dignità. Avere paura non significa mancare di coraggio, anzi, superare la paura è la definizione stessa di coraggio. La speranza è diversa dalla pia illusione, che non richiede sforzo ma è fatta di sacrificio e perseveranza.





Ogni singola fotografia di questa mostra è un frammento della mia memoria catturato lungo il continuum della storia che ho vissuto. Ogni immagine è stata scattata con lo scopo di raggiungere un vasto pubblico all’epoca in cui gli eventi ritratti hanno avuto luogo per scuoterne la coscienza ed essere un contributo tra tanti al cambiamento. ... Condividere questi ricordi ci rende tutti testimoni. Non dimentichiamo.















Scrive Wim Wenders (Laudatio per J. Nachtwey ,Dresda, 2012):
Se lui si fa testimone, partecipe, non richiama anche noi alla condizione di testimoni? Se così è, allora, James Nachtwey fa delle persone fotografate e di noi una comunità, cui non possiamo sottrarci tanto facilmente. […] E se si spinge così vicino alla guerra, lo fa al nostro posto, per costringerci a guardare, e quasi offrendosi alle vittime, come un testimone oculare, che cerca di deporre in loro favore e di smentire così la guerra e la sua propaganda.
Dovremmo smettere di definirlo un “fotografo di guerra”. Bisogna vedere in lui un uomo di pace, uno che per desiderio di pace va in guerra e si espone…per creare la pace, partendo da un odio sconfinato per la guerra e da un amore sconfinato per gli esseri umani.





Se le tue fotografie non sono buone, vuole dire che non sei abbastanza vicino, diceva Robert Capa.
quelle di James Nachtwey (mostra a Palazzo Reale, Memoria) sono abbastanza vicine.
anche troppo, per chiunque.




giovedì 11 gennaio 2018

stupore e tremori

Non tutte le giapponesi sono belle. Ma quando una è bella, le altre devono reggersi forte. 
Ogni bellezza è struggente, ma la bellezza nipponica è ancora più struggente. Prima di tutto perché quella carnagione lattea, quegli occhi soavi, quelle inimitabili ali del naso, quelle labbra dai contorni così marcati, quella dolcezza complicata dei tratti bastano a eclissare i volti meglio riusciti. Poi perché le sue maniere la stilizzano, facendo di lei un'opera d'arte inaccessibile all'umano intendimento. Infine e soprattutto perché una bellezza che ha resistito a tanti corsetti fisici e mentali, a tante costrizioni, soprusi, divieti assurdi, dogmi, asfissia, desolazione, sadismo, cospirazioni del silenzio e umiliazioni - una bellezza del genere è un miracolo di eroismo. 
Non che la Giapponese sia una vittima, tutt'altro. Tra le donne del pianeta non è certo la più sfavorita dalla sorte. Il suo potere è notevole: so quel che dico. No, se bisogna ammirare la Giapponese (e bisogna farlo) è perché non si suicida. 
La cospirazione contro il suo ideale comincia in tenerissima età. Le ingessano il cervello: "Se a venticinque anni non sei ancora sposata, hai di che vergognarti", "se ridi, non sei fine", "se il tuo viso esprime un sentimento, sei volgare", "se menzioni l'esistenza di un pelo sul tuo corpo, sei immonda", "se un ragazzo ti bacia sulla guancia in pubblico, sei una puttana", "se mangi con piacere, sei una scrofa", "se provi piacere a dormire, sei una vacca". Precetti del genere sarebbero ridicoli se non ti si conficcassero dentro. Perché, in fin dei conti, ciò che si trasmette alla Giapponese attraverso questi dogmi insensati è che non bisogna sperare in niente di bello. Non sperare di godere, perché il piacere ti annienterà. Non sperare di innamorarti, perché non vali abbastanza: quelli che ti ameranno lo faranno per i tuoi miraggi, mai per la tua verità. Non sperare che la vita ti porti qualcosa, perché ogni anno che passa ti leverà qualcosa. Non sperare in una cosa semplice come la tranquillità, perché non hai nessuna ragione per startene in pace. Spera di lavorare. Visto il tuo sesso avrai poche possibilità di arrivare in alto, ma spera di servire la tua azienda. Lavorare ti farà guadagnare dei soldi dai quali non trarrai nessuna gioia, ma da cui potrai eventualmente trarre dei vantaggi, per esempio in caso di matrimonio - perché non sarai tanto stupida da supporre che qualcuno possa volerti per il tuo valore intrinseco. A parte questo, puoi sperare di vivere a lungo, cosa che in sé non ha nulla di interessante, e di non conoscere il disonore, cosa che invece ha un fine in sé. 
Qui si ferma la lista delle tue speranze lecite. E comincia la serie interminabile dei tuoi doveri sterili. Dovrai essere irreprensibile, per la semplice ragione che non si può fare altro. Essere irreprensibile ti porterà solo a essere irreprensibile, non sarà motivo di orgoglio e tanto meno di voluttà. Non è possibile enumerare tutti i tuoi doveri, perché non esiste attimo della tua vita che non sia dominato da uno di essi. Anche quando sarai chiusa in bagno per dare umile sollievo alla vescica, avrai il dovere di vegliare perché nessuno possa sentire il canto del tuo ruscello: dovrai quindi tirare la catena in continuazione. Ho fatto questo esempio per farti capire una cosa: se perfino la sfera più intima e insignificante della tua esistenza è sottomessa a una regola, figurati quale sarà la vastità degli obblighi che, a maggior ragione, peseranno sui momenti essenziali della tua vita.

Fubuki Mori è bellissima, ci dice Amélie Nothomb in Stupore e Tremori (brutto titolo però, ma è una traduzione fedele). la sua è più di ammirazione, è una religiosa devozione.
però con questa scrittrice bisogna prendere le giusta misura, molto di quello che scrive, almeno in questo libro che sto leggendo, mi sembra abbia la connotazione della provocazione, di un'enfasi sarcastica.
la sua descrizione assassina dell'educazione femminile giapponese e del martirio cui sono spose promesse tutte le nate femmine del Giappone ha certamente un'azione di smottamento, quel che produce è l'immediata indignazione della mente liberale occidentale. forse lo stupore del titolo richiama quella che l'autrice provoca in chi legge, ben sapendo che l'idea di un vestito di spine portato come un onorevole sacrificio non può che far salire la febbre della ribellione, passando dall'incredulià per arrivare all'orrore.
ma è solo un moto dell'animo, la Nothomb lo sa bene. Brava.
“Non sappiamo niente di noi. Ci crediamo abituati a essere noi stessi. E’ il contrario. Più gli anni passano e meno capiamo chi sia la persona nel nome della quale agiamo e parliamo. Non costituisce un problema. Che c’è di male a vivere la vita di uno sconosciuto? Forse è meglio: conosci te stesso e ti prenderai in antipatia”.

venerdì 5 gennaio 2018

ossessione natura

una strana pittura quella di Marzio Tamer, fotografica.
non so se 
sia un'arte che consenta la restituzione di una natura profondamente ossessiva al suo curatore
o
se sia una forma di profondo rispetto per la natura.
si tratta di una natura riprodotta in studio, non vista sul campo, ma tratta da libri fotografici, enciclopedie dell'infanzia, regali materni. a volte semplicemente inventata.
su di me ha un effetto un po' straniante, una natura riprodotta in una stanza, con un dettaglio estremo nella sua configurazione pittorica (peli di folti lupi e conifere aghiformi ricostruiti in un dettaglio ostinatamente accurato), un rigore puntiglioso nella preparazione dei colori.
un atto ossessivo che forse con la natura ha molto poco a che vedere.
in verità.
la piccola mostra, al Museo di Storia Naturale, è accompagnata da un bel corto di Salvatores che implora il rispetto per la natura degli animali, in particolare del cane: "rispetta la mia natura" dice un bel lupo dagli occhi di ghiaccio, dopo aver visto sfilare addestramenti militareschi e molossi con il cappellino o chihuahua con il cappottino. perversioni odierne, aggressioni alla natura non solo tollerate perfino favorite.
alcune, poche, immagini della mostra sono efficaci, ma il senso di tutto questo francamente mi sfugge, a volte mi annoia, certi pappagalli e uccellini sono piuttosto artificiosi, e uggiosi. 
l'ossessione è poco divertente, si sa. 





martedì 2 gennaio 2018

Il teatro, proprio perché teatro, anche mentre si sta preparando è sempre e soltanto un profondo atto d’amore

Ho passato una vita nel buio del palcoscenico, ho mandato su dagli inferi più di duecento spettacoli in prosa e in musica, ho contribuito qua e là a disegnare un profilo critico più corretto di opere di teatro e di autori tanti e vari nel mondo, ho insegnato a essere in un certo modo morale nel teatro a centinaia di esseri umani, ho dato qualcosa a migliaia di persone nella platea, domande e risposte o solo domande sulle cose, ho aiutato un piccolo cerchio, piccolissimo, il mondo a muoversi e cambiare.

Giorgio Strehler

Milano - Invece di stelle ogni sera si accendono parole

Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio
villeggiatura. Mi riposo in Piazza
del Duomo. Invece di stelle
ogni sera si accendono parole.

Nulla riposa della vita come
la vita.

Umberto Saba

piaceva a Giorgio Strehler, questa poesia, la citava spesso. Come Saba era un triestino-milanese.

lunedì 1 gennaio 2018

La maschera - Perché il teatro continui in questa "epoca buia" ad aiutare l’uomo a stare con l’uomo

La maschera è un istrumento misterioso, terribile. A me ha sempre dato e continua a dare un senso di sgomento. Con la maschera, siamo alle soglie di un mistero teatrale, riaffiorano i demoni, i visi immutabili, immobili estatici, che stanno alle radici del teatro. Ci si accorse, ad esempio, ben presto, che l’attore, sulla scena, non può toccare la maschera, con un gesto consueto (mano sulla fronte, dito sugli occhi, coprirsi il viso con le mani). Il gesto diventa assurdo inumano, sbagliato. Per ritrovare la sua espressione l’attore deve indicare il gesto con la mano, non compierlo "realisticamente" sulla maschera.
La maschera insomma non sopporta la concretezza del gesto reale. La maschera è rituale. In questo senso ricordo che ad un certo punto, durante gli applausi finali avevo indicato agli attori di apparire finalmente al pubblico a viso scoperto. Per non perdere tempo tra una chiusura di sipario e la successiva apertura, gli attori si smascheravano e gettavano in quinta la propria maschera. A poco a poco furono gli attori stessi, prima a raccogliere le maschere appena possibile poi ad imparare un modo per togliersele e tenerle in mano o alte sulla fronte. E da allora non ho più vista una sola maschera gettata in un canto, anche nel camerino. Essa ha troneggiato sempre in mezzo alla natura morta del tavolo da trucco, al posto d’onore.



da Giorgio Strehler.
Intorno a Goldoni. Spettacoli e scritti.