«Pare che l'essere delle cose abbia per suo proprio e unico obbietto il
morire [...] le creature animate [...] in tutta la loro vita,
ingegnandosi adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per
altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento
della natura, che è la morte»
Giacomo Leopardi
a proposito di natura e di morte, temi che vanno alla grande da queste parti ultimamente, mi sono ritrovata a teatro al Franco Parenti in questa curiosa circostanza.
la messa in scena delle Operette Morali di Leopardi.
il tutto ad opera di Mario Martone, regista napoletano di nota fama.
l'operazione ha un suo fascino, tutto sommato la posso dire riuscita anche se non è un allestimento di irresistibile bellezza, di certo si leggono tratti di materia letteraria e filosofica -anche gravosa e complessa- con l'adeguata leggerezza che la renda fruibile a teatro.
si ascolta volentieri, si valuta, si annuisce e si nega, ci si ritrova e anche ci si ribella. un lavoro teatrale onesto ma non incisivo, ammettiamolo.
Leopardi lo conoscono anche i sassi e devo dire l'ho ritrovato nella sua immensa infelicità e drammatico materialismo ma ho scoperto anche la sua vena ironica, la vastità del pensiero, filosofico in quest'opera, a tratti la comicità dei motti umoristici.
Leopardi ricorre a esseri immaginari, (gnomi, folletti,
mummie), storici (Torquato Tasso, Cristoforo Colombo),
mitologici (Ercole, Atlante, Giove),
filosofici (Plotino, Porfirio),
letterari, comuni
(passeggeri, islandesi, venditori ambulanti), inanimati (la Terra, la
Luna), simbolici (la Natura, l'Anima, la Morte) per una satira
dell'antropocentrismo e la derisione del progresso moderno. la natura prevale sempre, l'uomo non decide niente, nemmeno della sua incurabile infelicità. ma il linguaggio è vivace, serrato, ironico, incalzante. sono quasi tutti dialoghi tra questi personaggi di varia estrazione, sono confronti di pensiero, sono spunti di riflessione su tutto, la vita e la morte, l'infelicità e il destino, l'amore e la natura, il corpo e il dolore, la giovinezza e la vecchiaia.
si pensa e si sorride, in fondo l'uomo è dotato del riso, ci dice nell'Elogio degli Uccelli, al pari degli uccelli che sono dotati del canto per esprimere la loro gaiezza.
«Cosa certamente mirabile è questa, che nell'uomo, il quale infra tutte le creature è la più travagliata e misera, si trovi la facoltà del riso, aliena da ogni altro animale. Mirabile ancora si è l'uso che noi facciamo di questa facoltà: poiché si veggono molti in qualche fierissimo accidente, altri in grande tristezza d'animo, altri che quasi non serbano alcuno amore alla vita, certissimi della vanità di ogni bene umano, presso che incapaci di ogni gioia, e privi di ogni speranza; nondimeno ridere.»
la rappresentazione si sviluppa nel susseguirsi di siparietti e dialoghi, alcuni suggestivi, altri interrogativi.
questo tra il Tasso e il suo genio è intrigante, su sogno e il desiderio, materia nobilissima di quotidiana attualità.
"Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai."
DIALOGO DI
TORQUATO TASSO E DEL SUO GENIO FAMILIARE
Genio. Come
stai Torquato?
Tasso. Ben sai
come si può stare in una prigione, e dentro ai guai fino al collo.
Genio. Via, ma
dopo cenato non è tempo da dolersene. Fa buon animo, e ridiamone insieme.
Tasso. Ci son
poco atto. Ma la tua presenza e le tue parole sempre mi consolano. Siedimi qui accanto.
Genio. Che io
segga? La non è già cosa facile a uno spirito. Ma ecco: fa conto ch'io sto seduto.
Tasso. Oh
potess'io rivedere la mia Leonora. Ogni volta che ella mi torna alla mente, mi nasce un brivido di gioia, che
dalla cima del capo mi si stende fino all'ultima punta de' piedi; e non resta in me nervo né vena che
non sia scossa. Talora, pensando a lei, mi si ravvivano nell'animo certe
immagini e certi affetti, tali, che per quel poco tempo, mi pare di essere
ancora quello stesso Torquato che fui prima di
aver fatto esperienza delle sciagure e degli uomini, e che ora io piango tante volte per morto. In
vero, io direi che l'uso del mondo, e l'esercizio de' patimenti, sogliono come
profondare e sopire dentro a ciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il
quale di tratto in tratto si desta per
poco spazio, ma tanto più di rado quanto è il progresso degli anni; sempre più poi si ritira verso il
nostro intimo, e ricade in maggior sonno di prima; finché durando ancora la nostra vita, esso
muore. In fine, io mi maraviglio come il pensiero di una donna abbia tanta forza, da rinnovarmi, per
così dire, l'anima, e farmi dimenticare tante calamità. E se non fosse che io non ho più speranza
di rivederla, crederei non avere ancora perduta la facoltà di essere felice.
Genio. Quale
delle due cose stimi che sia più dolce: vedere la donna amata, o pensarne?
Tasso. Non so.
Certo che quando mi era presente ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea.
Genio. Coteste
dee sono così benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano
la loro divinità, si spiccano i raggi d'attorno, e se li pongono in tasca, per
non abbagliare il mortale che si fa innanzi.
Tasso. Tu dici
il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato delle donne; che alla prova, elle ci riescano
così diverse da quelle che noi le immaginavamo?
Genio. Io non
so vedere che colpa s'abbiano in questo, d'esser fatte di carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e
nettare. Qual cosa del mondo ha pure un'ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate che
abbia a essere nelle donne? E anche mi pare strano, che non facendovi maraviglia che gli
uomini sieno uomini, cioè creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come
accada, che le donne in fatti non sieno angeli.
Tasso. Con
tutto questo, io mi muoio dal desiderio di rivederla, e di riparlarle.
Genio. Via,
questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventù; e
cortese in modo, che tu prenderai cuore di favellarle molto più franco e
spedito che non ti venne fatto mai per l'addietro: anzi all'ultimo le
stringerai la mano; ed ella guardandoti fisso, ti metterà nell'animo una dolcezza tale, che
tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani, qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti
sentirai balzare il cuore dalla tenerezza.
Tasso. Gran
conforto: un sogno in cambio del vero.
Genio. Che
cosa è il vero?
Tasso. Pilato
non lo seppe meno di quello che lo so io.
Genio. Bene,
io risponderò per te. Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza,
se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che
quello non può mai.
Tasso. Dunque
tanto vale un diletto sognato, quanto un diletto vero?
Genio. Io
credo. Anzi ho notizia di uno che quando la donna che egli ama, se gli rappresenta
dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente, fugge di
ritrovarsi con 36 quella e di rivederla; sapendo
che ella non potrebbe reggere al paragone dell'immagine che il sonno gliene ha lasciata
impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che
ne ritrae. Però non sono da condannare gli antichi, molto più solleciti,
accorti e industriosi di voi, circa a ogni sorta di godimento possibile alla
natura umana, se ebbero per costume di procurare
in vari modi la dolcezza e la giocondità dei sogni; né Pitagora è da riprendere per avere
interdetto il mangiare delle fave, creduto
contrario alla tranquillità dei medesimi sogni, ed atto a
intorbidarli; e sono da scusare i superstiziosi che avanti di coricarsi solevano orare e far libazione a
Mercurio conduttore dei sogni, acciò ne menasse loro di quei lieti; l'immagine
del quale tenevano a quest'effetto intagliata in su' piedi delle lettiere. Così, non trovando mai la felicità nel tempo della
vigilia, si studiavano di essere felici dormendo: e credo che in parte, e in qualche modo,
l'ottenessero; e che da Mercurio fossero esauditi meglio che dagli altri Dei.
Tasso. Per
tanto, poiché gli uomini nascono e vivono al solo piacere, o del corpo o
dell'animo; se da altra parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni,
converrà ci determiniamo a vivere per sognare: alla qual cosa, in verità, io
non mi posso ridurre.
Genio. Già vi
sei ridotto e determinato, poiché tu vivi e che tu consenti di vivere. Che cosa
è il piacere?
Tasso. Non ne
ho tanta pratica da poterlo conoscere che cosa sia.
Genio. Nessuno
lo conosce per pratica, ma solo per ispeculazione: perché il piacere è un subbietto speculativo, e non
reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l'uomo concepisce col
pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto e non un sentimento. Non
vi accorgete voi che nel tempo stesso di qualunque vostro diletto, ancorché
desiderato infinitamente, e procacciato con fatiche e molestie indicibili; non
potendovi contentare il goder che fate in ciascuno di quei momenti, state sempre
aspettando un goder maggiore e più vero, nel quale consista insomma quel tal
piacere; e andate quasi riportandovi di continuo agl'istanti futuri di quel
medesimo diletto? Il quale finisce sempre innanzi al giungere dell'istante che
vi soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza
cieca di goder meglio e più veramente in altra occasione, e il conforto di fingere e narrare a
voi medesimi di aver goduto, con raccontarlo anche agli altri, non per sola ambizione, ma per
aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur fare a voi stessi. Però chiunque
consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilità
che di sognare; cioè credere di avere a godere, o di
aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.
Tasso. Non
possono gli uomini credere mai di godere presentemente?
Genio. Sempre
che credessero cotesto, godrebbero in fatti. Ma narrami tu se in alcun istante
della tua vita, ti ricordi aver detto con piena sincerità ed opinione: io godo.
Ben tutto giorno dicesti e dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma
con sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è sempre o
passato o futuro, e non mai presente.
Tasso. Che è
quanto dire è sempre nulla.
Genio. Così
pare.
Tasso. Anche
nei sogni.
Genio.
Propriamente parlando.
Tasso. E
tuttavia l'obbietto e l'intento della vita nostra, non pure essenziale ma
unico, è il piacere stesso; intendendo per
piacere la felicità, che debbe in effetto esser piacere; da qualunque cosa ella abbia a procedere.
Genio.
Certissimo.
Tasso. Laonde
la nostra vita, mancando sempre del suo fine, è continuamente imperfetta: e quindi il vivere è di sua
propria natura uno stato violento.
Genio. Forse.
Tasso. Io non
ci veggo forse. Ma dunque perché viviamo noi? voglio dire, perché consentiamo
di vivere?
Genio. Che so
io di cotesto? Meglio lo saprete voi, che siete uomini.
Tasso. Io per me
ti giuro che non lo so.
Genio.
Domandane altri de' più savi, e forse troverai qualcuno che ti risolva cotesto
dubbio.
Tasso. Così
farò. Ma certo questa vita che io meno, è tutta uno stato violento: perché
lasciando anche da parte i dolori, la noia sola mi uccide.
Genio. Che
cosa è la noia?
Tasso. Qui
l'esperienza non mi manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare che la noia sia della natura dell'aria:
la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in
ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così
tutti gl'intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono
occupati dalla noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici,
non si dà vòto alcuno; così nella
vita nostra non si dà vòto; se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l'usodel
pensiero. Per tutto il resto del tempo, l'animo, considerato anche in se proprio e come disgiunto dal
corpo, si trova contenere qualche passione; come quello a cui l'essere vacuo da
ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia, la quale anco è
passione, non altrimenti che il dolore e il
diletto.
Genio. E da
poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli; tenuissima,
radissima e trasparente; perciò come l'aria in questi, così la noia penetra in
quelli da ogni parte, e li riempie. Veramente per la noia
non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità; non
soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere. Il buon
desiderio, come dicevamo poco innanzi, non è mai soddisfatto; e il piacere
propriamente non si trova. Sicché la vita umana, per modo di dire,
è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall'una delle quali passioni non ha
riposo se non cadendo nell'altra. E questo non è tuo destino particolare, ma
comune di tutti gli uomini.
Tasso. Che
rimedio potrebbe giovare contro la noia?
Genio. Il
sonno, l'oppio, e il dolore. E questo è il più potente di tutti; perché l'uomo
mentre patisce, non si annoia per niuna maniera.
Tasso. In
cambio di cotesta medicina, io mi contento di annoiarmi tutta la vita. Ma pure
la varietà delle azioni, delle
occupazioni e dei sentimenti, se bene non ci libera dalla noia, perché non ci crea diletto vero,
con tutto ciò la solleva ed alleggerisce. Laddove in questa prigionia, separato
dal commercio umano, toltomi eziandio lo scrivere, ridotto a notare per
passatempo i tocchi dell'oriuolo, annoverare i
correnti, le fessure e i tarli del palco, considerare il mattonato del
pavimento, trastullarmi colle farfalle e coi moscherini che vanno attorno alla
stanza, condurre quasi tutte le ore a un modo; io non ho
cosa che mi scemi in alcuna parte il carico della noia.
Genio. Dimmi:
quanto tempo ha che tu sei ridotto a cotesta forma di vita?
Tasso. Più
settimane, come tu sai.
Genio. Non
conosci tu dal primo giorno al presente, alcuna diversità nel fastidio che ella ti reca?
Tasso. Certo
che io lo provava maggiore a principio: perché di mano in mano la mente,
non occupata da altro e non
isvagata, mi si viene accostumando a conversare seco medesima assai più e con maggior sollazzo di prima, e acquistando un abito e una virtù di favellare in
se stessa, anzi di cicalare, tale, che parecchie volte mi pare quasi avere una
compagnia di persone in capo che stieno ragionando, e
ogni menomo soggetto che mi si appresenti al pensiero, mi basta a farne tra me e me una gran
diceria.
Genio. Cotesto
abito te lo vedrai confermare e accrescere di giorno in giorno per modo, che quando poi ti si renda la
facoltà di usare cogli altri uomini, ti parrà essere più disoccupato stando in compagnia loro, che in
solitudine. E quest'assuefazione in sì fatto tenore di vita, non credere che intervenga solo a'
tuoi simili, già consueti a meditare; ma ella interviene in più o men tempo a chicchessia. Di più,
l'essere diviso dagli uomini e, per dir così, dalla vita stessa, porta seco questa utilità; che l'uomo,
eziandio sazio, chiarito e disamorato delle cose umane per l'esperienza; a poco
a poco assuefacendosi di nuovo a mirarle da lungi, donde elle paiono molto più belle e più degne che da vicino,
si dimentica della loro vanità e miseria; torna a formarsi e quasi crearsi il mondo a suo modo;
apprezzare, amare e desiderare la vita; delle cui speranze, se non gli è tolto o il potere o il
confidare di restituirsi alla società degli uomini, si va nutrendo e
dilettando, come egli soleva a' suoi primi anni. Di modo che la solitudine fa
quasi l'ufficio della gioventù; o certo ringiovanisce l'animo, ravvalora e
rimette in opera l'immaginazione, e rinnuova nell'uomo esperimentato i
beneficii di quella prima inesperienza che tu sospiri. Io ti lascio; che veggo che il sonno ti viene
entrando; e me ne vo ad apparecchiare il bel sogno che ti ho promesso. Così,
tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità
che di consumarla; che questo è l'unico frutto che al mondo se ne può avere, e
l'unico intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi.
Spessissimo ve la conviene strascinare co' denti: beato quel dì che potete o
trarvela dietro colle mani, o portarla in sul dosso. Ma, in fine, il tuo tempo non è più lento a correre
in questa carcere, che sia nelle sale e negli orti quello di chi ti opprime. Addio.
Tasso. Addio.
Ma senti. La tua conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella
interrompa la mia tristezza: ma questa per la più parte del tempo è come una
notte oscurissima, senza luna né stelle; mentre son teco, somiglia al bruno dei
crepuscoli, piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa
chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare.
Genio. Ancora
non l'hai conosciuto? In qualche liquore generoso.