va bene, così doveva essere.
l'ho guardato morire e poi rinascere non una ma due volte. anche dopo la battaglia di Borodino era morto, schiantato da una granata che gli era scoppiata nel ventre.
morto.
ma poi l'ho ritrovato moribondo e sofferente nelle carovane che si allontanano da Mosca, prima del terrificante e solenne incendio della città madre e santa.
ad accudirlo, fino alla fine, la sua Nataša, il cui amore casualmente ma salvificamente ritrovato avrebbe avuto il solo e unico scopo di accompagnarlo dolcemente verso la morte.
era nella natura malinconica e infelice di Andrej, era in lui, il seme della morte. lo ha coltivato tutta la vita, si sentiva, si sospettava, si coglieva che lo lasciava crescere in sè. era il suo fascino, era la sua innata inclinazione, era la sua bellezza.
questo libro è meraviglioso. straordinario e potentissimo. e anche Tolstoj, come tutti i grandi, romanzieri e non, diventa immenso e profondissimo, irresistibile e ipnotico, quando affronta il tema sottostante la vita, la morte.
da leggere, assolutamente.
Il principe Andrej non solo sapeva che sarebbe morto, ma sentiva che stava morendo, sentiva d'essere già morto per metà. Provava un senso di estraneità da ogni cosa terrena e insieme un'impressione- strana e gioiosa - di leggerezza. Senza fretta né ansia, attendeva quello che doveva accadere. Quella cosa terribile, eterna, sconosciuta e lontana, la cui presenza non aveva mai cessato di avvertire durante tutta la sua vita, adesso gli era vicina e - per quello strano stato di leggerezza in cui ora si trovava - quasi comprensibile e percettibile...Prima, aveva paura della fine. Due volte aveva provato quel terribile tormento della paura della morte, della fine; adesso non lo capiva più. La prima volta che aveva provato quel tormento era stato quando la granata si era messa a roteare come una trottola davanti ai suoi occhi, e lui aveva alzato lo sguardo alle stoppie, ai cespugli, al cielo,cosciente che lì, davanti a lui c'era la morte. Quando, dopo la ferita, aveva ripreso i sensi e in fondo all'anima, come se si fosse liberato dagli impacci della vita terrena, era sbocciato quel fiore dell'amore eterno, libero, indipendente dalla vita, la morte ormai non gli faceva più paura, e aveva smesso di pensarci. Quanto più, in quelle ore di penosa solitudine e di semincoscienza trascorse dopo la ferita, aveva riflettuto al nuovo principio dell'amore eterno che gli s'era svelato, tanto più, senza avvedersene s'eravenuto distaccando dalla vita terrena. Amare tutto, tutti, sacrificare in ogni momento se stesso per l'amore: voleva dire non amare nessuno, voleva dire non vivere di questa vita terrena. E quanto più egli si compenetrava in quel principio d'amore, tanto più rinunciava alla vita, e tanto più radicalmente distruggeva quella terribile barriera che sta, se non c'è l'amore, fra la vita e la morte. Quando, nei primi tempi della malattia, pensava che avrebbe dovuto morire, diceva a se stesso: «Ebbene, tanto meglio.»
Il principe Andrej non solo sapeva che sarebbe morto, ma sentiva che stava morendo, sentiva d'essere già morto per metà. Provava un senso di estraneità da ogni cosa terrena e insieme un'impressione- strana e gioiosa - di leggerezza. Senza fretta né ansia, attendeva quello che doveva accadere. Quella cosa terribile, eterna, sconosciuta e lontana, la cui presenza non aveva mai cessato di avvertire durante tutta la sua vita, adesso gli era vicina e - per quello strano stato di leggerezza in cui ora si trovava - quasi comprensibile e percettibile...Prima, aveva paura della fine. Due volte aveva provato quel terribile tormento della paura della morte, della fine; adesso non lo capiva più. La prima volta che aveva provato quel tormento era stato quando la granata si era messa a roteare come una trottola davanti ai suoi occhi, e lui aveva alzato lo sguardo alle stoppie, ai cespugli, al cielo,cosciente che lì, davanti a lui c'era la morte. Quando, dopo la ferita, aveva ripreso i sensi e in fondo all'anima, come se si fosse liberato dagli impacci della vita terrena, era sbocciato quel fiore dell'amore eterno, libero, indipendente dalla vita, la morte ormai non gli faceva più paura, e aveva smesso di pensarci. Quanto più, in quelle ore di penosa solitudine e di semincoscienza trascorse dopo la ferita, aveva riflettuto al nuovo principio dell'amore eterno che gli s'era svelato, tanto più, senza avvedersene s'eravenuto distaccando dalla vita terrena. Amare tutto, tutti, sacrificare in ogni momento se stesso per l'amore: voleva dire non amare nessuno, voleva dire non vivere di questa vita terrena. E quanto più egli si compenetrava in quel principio d'amore, tanto più rinunciava alla vita, e tanto più radicalmente distruggeva quella terribile barriera che sta, se non c'è l'amore, fra la vita e la morte. Quando, nei primi tempi della malattia, pensava che avrebbe dovuto morire, diceva a se stesso: «Ebbene, tanto meglio.»
Ma dopo
quella notte a Mytišèi, quando, immerso in una sorta di delirio, gli era
apparsa colei cheaveva tanto desiderato, e quando, premendosi la mano di lei
sulle labbra, aveva pianto sommesse lacrime di gioia, l'amore per quella donna
si era inavvertitamente insinuato nel suo cuore e l'aveva nuovamente legato alla
vita. E pensieri gioiosi e tormentosi avevano cominciato ad attraversargli la
mente. Se ricordava quel momento al posto di medicazione, quando aveva scorto
Kuragin, non poteva più tornare al sentimento di allora; ora lo tormentava
soltanto la domanda se l'altro fosse ancora vivo. E non osava chiederlo
a nessuno.
La malattia
aveva continuato il suo normale decorso, ma quello che Nataša chiamava: «gli è accaduto
questo», era sopravvenuto due giorni prima dell'arrivo della principessina
Mar'ja. Era stata un'estrema lotta interiore fra la vita e la morte, in cui la
morte era uscita vittoriosa. Era stata un'improvvisa consapevolezza di essere
ancora attaccato alla vita, che gli si presentava sotto la forma dell'amore per
Nataša, e un ultimo, definitivo accesso di terrore di fronte all'ignoto. Era
sera. Come di solito dopo il pasto, si trovava in un leggero stato febbrile e i
suoi pensieri erano straordinariamente chiari. Sonja era seduta al tavolo. Si
era assopito. A un tratto l'aveva invaso un'intensa sensazione di felicità. «Ah,
è lei che è entrata!» aveva detto a se stesso.
Effettivamente
al posto di Sonja ora stava seduta Nataša, che era appena entrata nella stanza
a passi silenziosi.
Da quando
Nataša aveva cominciato ad assisterlo, aveva sempre percepito nettamente
la sensazione fisica della sua vicinanza. Gli stava seduta accanto, nella
poltrona, girata verso di lui per ripararlo dalla luce della candela, intenta a
far la calza. (Aveva imparato a far la calza da quando, una volta, il
principe Andrej le aveva detto che nessuno sa assistere meglio i malati delle
vecchie njanje che fanno la calza, e che nell'atto di far la calza c'è qualcosa
che infonde calma.) Le sue dita sottili muovevano rapidamente i ferri, ed egli
vedeva distintamente il profilo pensoso del suo viso chinato. Nataša fece un
movimento e il gomitolo le rotolò giù dalle ginocchia. Lei trasalì, si voltò a
guardarlo e, facendo schermo alla candela con la mano, si piegò con un movimento
cauto, flessuoso, preciso; raccolse il gomitolo e si rimise a sedere nella
posizione di prima.Lui la guardava immobile e capiva che, dopo il movimento che
aveva fatto, lei avrebbe avuto bisogno di tirare un sospiro profondo, ma non si
decideva a farlo, e misurava il respiro con precauzione. Al convento di Troica,
avevano parlato del passato e lui le aveva detto che, se fosse vissuto,
avrebbe ringraziato per sempre Dio della ferita che l'aveva riunito a lei; ma da
allora non avevano mai più parlato dell'avvenire. «Potrà avverarsi, questo, o non
potrà avverarsi?» pensava lui adesso, osservandola e ascoltando il leggero suono
metallico dei ferri. «Possibile che il destino mi abbia riunito in modo così
strano a lei, solo per poi farmi morire?... Possibile che la verità della vita
mi si sia svelata solo per farmi comprendere d'aver vissuto nella menzogna? Io
l'amo più di ogni cosa al mondo. Ma che debbo farci, se l'amo tanto?» disse e
gli sfuggì un gemito, per un'abitudine presa nel corso delle sue sofferenze.
Sentendo
quel suono, Nataša aveva posato la calza, si era piegata verso di lui e,
notando i suoi occhi lucidi, si era avvicinata con passo leggero e si era
chinata su di lui. «Non dormite?» «No, vi sto guardando da un pezzo, vi ho
sentita entrare. Nessuno come voi mi dà tanta pace...tanta luce. Avrei voglia
di piangere di gioia.»
Nataša gli
si avvicinò ancor di più. Il suo viso splendeva d'una gioia estatica.
«Nataša, io
vi amo troppo. Vi amo più di ogni altra cosa al mondo.»
«E
io?» Si voltò per un attimo dall'altra parte. «E perché troppo?» disse. «Perché
troppo?... Ditemi, cosa pensate, cosa sentite nell'anima, proprio nel profondo
dell'anima: vivrò? Cosa pensate?»
«Io ne sono
sicura, sicura!» gridò quasi Nataša stringendogli tutt'e due le mani con un
gesto
appassionato. Egli
tacque per un po'.«Come sarebbe bello!» disse, e prendendole una mano, gliela
baciò.
Nataša era
felice e sconvolta; ma subito si riscosse, ricordò che non si poteva fare così,
che lui aveva bisogno di tranquillità. «Però non dormivate,» disse, tentando di
soffocare la propria gioia. «Cercate di addormentarvi... vi prego.» Le strinse la
mano prima di lasciarla andare, e lei tornò verso la candela e si sedette nella
posizionedi prima. Due volte si voltò a guardarlo: gli occhi di lui
continuavano a fissarla, scintillanti. Allora si obbligò afare un certo numero
di maglie, dicendo a se stessa che non si sarebbe voltata a guardarlo finché
non leavesse terminate. Difatti, poco dopo, lui chiuse gli occhi e si
addormentò. Ma non dormì a lungo, e si svegliò d'improvviso, coperto da un
sudore gelido. Addormentandosi, aveva continuato a pensare a ciò che aveva
tenuto occupato il suo pensiero pertutto quel tempo: alla vita e alla morte. E
soprattutto alla morte: la sentiva più vicina. «L'amore? Che cos'è l'amore?»
pensava. «L'amore è d'ostacolo alla morte. L'amore è vita. Capisco solo quello
che amo. Tutto è, tutto esiste soltanto perché io amo. Tutto è tenuto in vita
dall'amore. L'amore è Dio, e per me, parte infinitesimale dell'amore, morire
significa ritornare alla sorgente eterna e universale». Questi pensieri gli
parvero rassicuranti. Ma erano soltanto pensieri. In essi mancava qualcosa, c'era
qualcosa di unilaterale, di soggettivo, di intellettualistico: mancava
l'evidenza. E restava sempre la stessa inquietudine, la stessa incertezza... Poi
si riaddormentò. In sogno si vide coricato nella stessa stanza in cui davvero si
trovava, ma non era ferito, stava bene. Molte persone, insignificanti,
indifferenti, stanno davanti a lui. E lui parla con loro, discute di cose senza importanza.
Quelle persone stanno per partire per chissà dove. Il principe Andrej ha la
vaga sensazione che tutto questo sia insensato, ricorda di avere molte altre
preoccupazioni, più importanti, ma continua apronunciare parole vuote e argute,
destando la meraviglia dei presenti. A poco a poco, inavvertitamente, tutte
queste persone cominciano a sparire, e a tutto si sostituisce la questione
della porta: è chiusa ma non sbarrata. Lui si alza e va alla porta per
chiuderla col catenaccio. Tutto sembra dipendere dal fatto che riescao meno a
chiudere la porta. Fa per muoversi, per avviarsi, ma le sue gambe non si
muovono; sa che nonriuscirà a chiudere la porta e tuttavia si tende
dolorosamente, al limite delle proprie forze. E una paura terrificante
s'impossessa di lui. È la paura della morte: al di là della porta c'è quella
cosa.
Ma, quando
arriva, con movimenti stentati e goffi, a trascinarsi fino alla porta, quella
cosa terribile, incalzando dall'altra parte,la spinge, vi preme contro.
Qualcosa di sovrumano - la morte - fa impeto contro la porta ed è
necessario trattenerla. Lui s'aggrappa alla porta, fa un estremo sforzo -
chiuderla ormai è impossibile - almeno per trattenerla, ma le sue forze sono
deboli, maldestre, e la porta, premuta da quella cosa orrenda, si apre e poidi
nuovo si richiude. Ancora una volta, dall'altra parte della soglia, si sentì spingere.
Gli ultimi sforzi furono vani e i due battenti si aprirono senza rumore. La cosa
entrò, la cosa era la morte.
E il
principe Andrej moriva.Ma in quel momento stesso il principe Andrej si ricordò
che dormiva; e, nel momento stesso in cui moriva, compiendo uno sforzo su se
stesso, si svegliò. «Sì, questa era la morte. Io sono morto - e mi sono
svegliato. Sì, la morte è un risveglio,» la sua anima fu come illuminata da
questo pensiero, e il velo che finora aveva nascosto l'ignoto si sollevò
dinanzi allo sguardo della sua mente. Ebbe la sensazione che dentro di lui si
liberasse una forza che finora era stata violentemente costretta, e per la prima
volta avvertì quello strano senso di leggerezza che da allora non lo abbandonò
mai.
Quando,
svegliatosi in un sudore freddo, si era agitato sul divano, Nataša si era
avvicinata e gli aveva
domandato che cos' avesse. Lui non le aveva risposto e l'aveva guardata in modo
strano, senza capire cosa gli dicesse.Ecco cosa gli era successo due giorni
prima dell'arrivo della principessina Mar'ja. Da quel giorno, come aveva
detto il dottore, la febbre che lo tormentava aveva preso un carattere maligno,
ma Nataša non si preoccupava di quello che diceva il dottore; vedeva coi suoi
stessi occhi quei tremendi sintomi mortali, che per lei erano indiscutibili. Da
quel giorno, insieme al risveglio dal sonno, per il principe Andrej, era
cominciato il risveglio dalla vita. E in proporzione alla durata della vita,
esso non gli sembrava più lento del risveglio dal sonno in proporzione alla durata
del suo incubo. Non c'era nulla di terribile e di brusco in quel lento
risveglio.Le ultime giornate e ore di lui trascorrevano in modo semplice e
uguale. La principessina Mar'ja, e Nataša, che non si allontanavano nemmeno per
un attimo da lui, lo sentivano. Non piangevano, non tremavano e negli ultimi
tempi, consapevoli del suo peggioramento, non era più lui che assistevano (lui
non c'era già più, era già lontano), ma il più vicino ricordo di lui: il suo
corpo. Era tanta, in entrambe, la forza del loro sentimento, che non si
impressionavano per l'aspetto esteriore, pauroso, della morte, né provavano
il bisogno di esasperare il proprio dolore. Non piangevano né in sua presenza,
né lontano da lui, e neanche parlavano mai di lui fra loro. Sentivano che non
potevano esprimere a parole ciò che avevano compreso nell'intimo. Entrambe lo
vedevano sprofondare sempre più giù, sempre più lontano da loro, chissà dove,
ed entrambe sapevano che così doveva essere, che così era giusto. Ricevette gli
ultimi sacramenti, tutti vennero a dirgli addio. Quando gli portarono il
figlio, lo sfiorò appena con un bacio e poi si voltò dall'altra parte, non
perché provasse dolore e pietà (la principessina Mar'ja e Nataša lo capivano),
ma solo perché supponeva d'aver fatto tutto quello che da lui s'aspettavano.
Ma quando
gli dissero di benedire il figlio, eseguì quanto ancora da lui si esigeva, e
volse intorno lo sguardo come per domandare se non occorresse fare altro. Quando
sopravvennero le ultime contrazioni del corpo, abbandonato dallo spirito, la
principessina Mar'ja e
Nataša erano presenti.
«È
finita?!» disse la principessina Mar'ja, quando il corpo disteso innanzi a
loro, immobile da qualche minuto, cominciò a raffreddarsi. Nataša si avvicinò,
guardò gli occhi del morto e si affrettò a chiuderli. Li chiuse e anziché
baciarli, si appoggiò con la fronte a quello che era il più prossimo ricordo di
lui. «Dov'è andato? Dov'è adesso?...»Quando il corpo, lavato e vestito, fu nella
bara sul tavolo, tutti si avvicinarono per rendergli l'estremo saluto, e tutti
piangevano.
Nikoluška
piangeva per lo straziante sbigottimento che gli lacerava il cuore. La contessa
e Sonja piangevano
per compassione di Nataša, e perché lui non c'era più. Il vecchio conte
piangeva perché presto,lo sentiva, anche lui avrebbe affrontato quel passo
tremendo.
Adesso anche
Nataša e la principessina Mar'ja piangevano, ma non per il loro personale,
intimo dolore;
piangevano per la reverente commozione che aveva invaso le loro anime in
presenza del semplice e solenne mistero della morte.
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