di Alessandro Piperno (mio maestro preferito)
La lettura, 28 gennaio 2018
Prima o poi può capitare a chiunque di imbattersi nella moglie di un amico in atteggiamenti licenziosi con un altro. Eccola lì – il tavolo più in disparte di un locale fuoriporta – scambiarsi tenerezze con uno sconosciuto! Al primo impulso di andare a salutare, goderti sadicamente il suo imbarazzo – le tempie paonazze, il balbettio di patetiche scuse – ne segue un altro di segno opposto: pagare il conto, filare via furtivi e riflettere sul da farsi.
A me accadde anni fa. Che choc vedere la ragazza di uno dei miei più cari amici – la coppia più affiatata del nostro gruppo – avvinghiata a un tizio in un cinema d’essai. Mi comportai nel modo che ancora oggi giudico il più appropriato. Non dissi niente, tenni quel segreto per me (fino ad ora, almeno). Dopotutto che diritto avevo di intromettermi? Chi mi assicurava di non essermi sbagliato? E qualora ci avessi visto giusto, chi mi diceva che la coppia più affiatata del nostro gruppo non lo fosse proprio in virtù della spregiudicatezza sessuale, un’indulgenza sapiente e reciproca? Del resto, non ho mai giudicato gli adulteri con severità. La monogamia è un oltraggio alla natura così sconsiderato che mai e poi mai mi sarei eletto a censore delle scappatelle altrui.
Ho fatto bene? Chi può dirlo! Se i due oggi sono sposati, hanno un paio di figli e veleggiano verso la maturità con un certo garbo, non lo devono anche un po’ alla mia discrezione? Non so se la signora nel frattempo ha rotto con il suo amante o se l’abbia sostituito, non so se il mio amico è al corrente di questa o altre infedeltà. So che l’amicizia pone dilemmi morali di questo tipo. Se l’amico in questione mi sta leggendo e sospetta che è suo il matrimonio di cui vado cianciando potrebbe giudicare il mio riserbo di allora non meno riprovevole della franchezza odierna (a mezzo stampa, per di più). Potrebbe pensare di essere stato tradito due volte: prima dalla malafede della moglie poi dalla reticenza di uno dei suoi più vecchi amici. La gente non è indulgente né con gli omertosi né con gli ipocriti. Mi chiedo: esiste in certi casi una deontologia comportamentale?
Amicizie virili È difficile spiegare cos’è l’amicizia virile a chi non l’abbia mai vissuta. Per me che ho radicate difficoltà a confrontarmi con l’altro sesso, è un diversivo spensierato, un’oasi alle fruste faccende quotidiane. Le cene, il cazzeggio, la Lazio (allo stadio, in tv, fa lo stesso), le lunghe sedute a Subbuteo o alla PlayStation, il bicchiere della staffa, le diatribe sui massimi sistemi filosofici, le dispute su quel libro che proprio non ti ha convinto e su quello che non riesci a scrivere, i sogni di gloria, le disfide ideologiche, le balle, il pettegolezzo, la maldicenza, le figure di merda, le confessioni più vergognose... Per non dire dei viaggi senza meta, i gesti di benevolenza reciproca, ma anche le prese in giro spietate ( cojonella, la chiamiamo a Roma). Tutto questo è impagabile, insostituibile. L’ultimo sorso di adolescenza a disposizione di un adulto. Ho più di un amico che esulta (senza darlo a vedere) quando la moglie va in vacanza come nel famoso film con Marilyn Monroe, e mica perché così potrà darsi alla pazza gioia, ma per dedicare un po’ di tempo agli amici, tornare ragazzo almeno per il weekend. E allora via con il turpiloquio, con la selvatichezza, con la libertà.
Adoro l’ultima scena de L’educazione sentimentale quando Frédéric Moreau e Deslauriers, rinvangando i bei tempi andati, si commuovono su quella volta che andarono al bordello insieme. Frédéric esclama: «È la cosa più bella che ci sia capitata» e Deslauriers non può che convenirne.
Dio sa se li capisco. Mica perché sia un frequentatore di bordelli, ma perché immagino che anche a me tra qualche anno capiterà di rimpiangere il cameratismo, la complicità, i simposi con i pochi amici di una vita.
In un passo famoso di Antropologia pragmatica Kant scrive: «La specie di benessere che sembra meglio accordarsi con l’umanità è un buon pranzo in buona (e, se è possibile, anche varia) compagnia, della quale Chesterfield dice che non deve essere al di sotto del numero delle Grazie, né al di sopra di quello delle Muse». In poche parole, meno di nove e più di tre. E trovo che Chesterfield esageri per eccesso. Il numero perfetto a tavola è quattro, come i Cavalieri dell’Apocalisse.
Solo i misantropi danno valore all’amicizia? Non deve sorprendere che un orso nichilista come Flaubert e un abitudinario incline alla solitudine come Kant tenessero in così alta considerazione amicizie e convivi. Chi se non colui che ha seri problemi a frequentare il prossimo può apprezzare i pochi simili con cui sta bene? Nulla è più raro al mondo che una persona abitualmente sopportabile, pensava Leopardi. E come al solito aveva ragione. Ecco cos’è un amico: un raro esemplare di persona abitualmente sopportabile. Pochi ma buoni, questo è il motto.
Perché era lui; perché ero io Il che spiega perché lo scrittore che meglio ha saputo descrivere l’insostituibilità dell’amicizia, i suoi incanti, l’empatia, è anche colui passato alla storia per la scelta di chiudersi nella sua torre d’avorio, trascurando ogni altra faccenda, a meditare e a scrivere per il resto dei suoi giorni: parlo di Michel Montaigne naturalmente. Il suo amico del cuore si chiamava Étienne de La Boétie e per via della morte prematura di quest’ultimo la loro amicizia durò poco più di un lustro. Montaigne passò i decenni che gli rimanevano da vivere a rimpiangerlo, parlandone sempre con toni più consoni all’amore forse, che all’amicizia, tanto da autorizzare in qualcuno il sospetto di omosessualità. Mai un legame fu più franco, profondo, elettivo. Nel saggio Dell’amicizia, Montaigne scrive infatti: «Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: Perché era lui; perché ero io». Conoscete una definizione più efficace e più struggente dell’amore e dell’amicizia? Perché amiamo qualcuno? Perché gli siamo così devoti? Semplice: perché noi siamo noi e loro sono loro. Cos’altro c’è da dire o da spiegare?
In un saggio più tardo, Montaigne, tornando sull’argomento, chiarisce ancora meglio il suo punto di vista. Parlando delle poche cose per cui la vita è degna di essere vissuta (donne, amicizie, libri), confessa di essere un buon conversatore ma di aborrire le amicizie frivole. Le vere grandi amicizie si contano sulle dita di una mano. Sta ancora pensando a La Boétie naturalmente. È per colpa di quell’amico morto da molti anni, quel compagno che lo ha in qualche modo viziato, che Montaigne ha perso interesse per tutti gli altri. Le amicizie, quelle vere e profonde, si basano solo sull’elezione e sull’affinità. Come si vede: solo gli isolati credono davvero nell’amicizia.
Chi aveva ragione tra Montaigne e La RochefoucauldAl contrario sono i mondani, gli estroversi, chi conta migliaia di amici su Facebook, chi non si perde un cocktail o una prima al cinema, a non tenere in gran conto l’amicizia, un po’ come i libertini per cui una donna vale l’altra.
E mi viene subito in mente un altro dei Gran Signori delle lettere francesi. Vissuto quasi un secolo dopo Montaigne, il duca di La Rochefoucauld frequentava assiduamente il salotto di Madame de Sablé, circolo parigino tra i più rinomati ed esclusivi nei formidabili anni della Reggenza. Intrecciò amicizie profonde – straordinariamente proficue per la letteratura occidentale – con Madame de La Fayette e Madame de Sévigné. Che trio incredibile! Il duca era bello, ricco, audace, un conversatore strepitoso, divertente e disincantato a un tempo. Oltre alle stupende Memorie gli dobbiamo le famose Massime. Dato il contesto, non ci sorprende che in una di esse scriva: «Per raro che sia il vero amore, è meno raro della vera amicizia». Assai più sorpresa ci suscita questa, altrettanto famosa: «Nelle avversità dei nostri migliori amici noi scopriamo sempre qualcosa che non ci dispiace». La Rochefoucauld mette il dito sulla piaga purulenta dell’amicizia, svela l’oscuro doppiofondo di qualsiasi sodalizio.
Per intenderci, provate a immaginare una telefonata con il vostro più caro amico. Ecco che, dopo il solito cazzeggio, vi annuncia: «Senti, ho una cosa da confessarti». «Tipo?». «Una cosa grossa». «Dai, non tenermi sulle spine». «Hai presente il vincitore della lotteria di Capodanno, quello che non si fa trovare? Il possessore del biglietto da dieci milioni di euro». «Be’, è il tuo benzinaio? La tua colf?». «No, sono io». «Dai, non scherzare». «Parlo seriamente».
Ditemi se non è un’ottima ragione per mettere alla prova la tenuta di una lunga consolidata amicizia. Dovremmo essere contenti per lui, il nostro amico è diventato milionario. Eppure in quel momento lo vorremmo morto. Facciamo di tutto per dissimulare questi impulsi biechi ma è più forte di noi. Siamo sconvolti. Non a caso Oscar Wilde, a suo modo un moralista classico non meno geniale di La Rochefoucauld, diceva: «Ognuno può compatire le sofferenze di un amico, ma è necessaria una natura davvero gentile per simpatizzare con i successi di un amico». Nessuna amicizia è mai davvero limpida. Ecco perché non c’è niente di meglio che parlare male di un amico. Ci piace ammirarlo, ma talvolta ci piace anche disprezzarlo. In fondo è invecchiato peggio di me, ci cogliamo ogni tanto a pensare. E ne proviamo conforto. Ma se muore, o se in qualche altro modo viene meno, lascia una voragine profonda, non un dolore che toglie il fiato, ma una specie di malinconia soffusa e immedicabile.
Insomma, credere o non credere nell’amicizia? Credere o non credere nella sua purezza e onestà? Chi aveva ragione, Montaigne o La Rochefoucauld? A chi dare retta, al solitario o al mondano?
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