“Era l’istante più felice della mia vita, e non me ne rendevo conto. Se l’avessi capito, se allora l’avessi capito, avrei forse potuto preservare quell’attimo e le cose sarebbero andate diversamente? Sì, se avessi intuito che quello era l’istante più felice della mia vita non mi sarei lasciato sfuggire una felicità così grande per nulla al mondo. Quell'istante prezioso che avvolse il mio corpo in un abbraccio profondo e sereno durò solo qualche secondo, è vero ma la felicità di quel momento parve proseguire per ore, estendersi per anni.” (Kemal, dall'incipit de “Il Museo dell’Innocenza” di Orhan Pamuk)
il museo dell'Innocenza di Orhan Pamuk mi ha deliziata.
un'intuizione geniale e potente sottende la ricerca di questo artista.
la linea che collega gli oggetti disseminati della nostra memoria costruisce la storia, la narrazione.
ed è una narrazione il filo conduttore degli oggetti del suo personaggio, Kemal.
una narrazione romantica di una delusione d'amore. una delusione che ha preso corpo che ha conquistato uno spazio.
come dice Pamuk, nei musei il tempo (quella della narrazione) diventa spazio. l’allestimento è la riproduzione fedele di quello che il personaggio Kemal ha progettato e che Orhan Pamuk ha realizzato, ma è anche un modo per raccontare Istanbul, una rappresentazione della Città alla fine anni ’70 di questo secolo. ci sono circa 1500 oggetti esposti nelle 83 vetrine, una per ogni capitolo del suo libro in almeno 15 anni di paziente lavoro.
ed ecco il piccolo miracolo del museo dell'Innocenza, alcune delle teche del museo originario (che ha sede a Istanbul) sono esposte al Museo Bagatti Valsecchi e raccontano tramite lo spazio gli oggetti le cose, la parola della sofferenza.
secondo Pamuk è ora di smetterla con i musei che incutono paura, che presentano una storia universale e sovragenerazionale, le culture dei grandi paesi. la vera sfida è raccontare attraverso i musei la storia dei singoli individui che vivono in questi paesi, con la stessa profondità intensità e forza.
la misura del successo di un museo dovrebbe consistere non nell'abilità di rappresentare uno stato ma nel rivelare l'umanità degli individui. secondo Pamuk il futuro dei musei è dentro le nostre case, nell'intimità dei nostri angoli domestici, custodita negli oggetti che costellano la nostra memoria.
in un errare furibondo e forse terapeutico tra oggetti di ogni genere, saccheggiando rigattieri e mercati, e nel costruire un'impresa non da poco, una raccolta di riferimenti concreti a un dolore abbandonico altrimenti inesprimibile, Pamuk crea questa storia parallela tra i suo romanzo e il suo museo in una tensione costante basata sulla finzione, sulla costruzione fantastica di un intreccio che ti lascia spesso il dubbio di essere stato intrappolato in una storia vera. ah, il potere della narrativa.
forse gli oggetti leniscono il dolore, ed è così che Pamuk attraverso il suo Kemal che soffre per amore visualizza anche una tavola anatomica “per mostrare al visitatore del museo i punti dove la mia sofferenza amorosa in quei giorni si manifestava, si acutizzava e si diffondeva” segnandoli “sull’immagine che ritraeva gli organi interni del corpo umano nel cartellone pubblicitario del Paradison, un antidolorifico che, in quel periodo, mi aveva colpito nelle vetrine delle farmacie di Istanbul”. ah, la meraviglia della narrativa.
assistiamo al dipanarsi in termini spaziali della verità di un romanzo che risiede nella parola, in una consecutio temporale che trova una traduzione visiva.
non un gioco innocente, secondo me, un gioco letterario che vibra sull'orlo dell'equivoco, ma è questo il gioco a cui giochiamo quando leggiamo un libro.
assistiamo al dipanarsi in termini spaziali della verità di un romanzo che risiede nella parola, in una consecutio temporale che trova una traduzione visiva.
non un gioco innocente, secondo me, un gioco letterario che vibra sull'orlo dell'equivoco, ma è questo il gioco a cui giochiamo quando leggiamo un libro.
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