è chiaro che questo lunghissimo estratto da Il Gattopardo che religiosamente ripongo qui è per la mia gioia di lettrice, per la mia estasi letteraria, per il mio totale assoluto compiacimento di una lettura che ritengo superba, un omaggio alla bellezza, all'erotismo, alla sapienza. se solo qualcuno leggesse e si decidesse di prendere in mano lo stesso libro, o audiolibro, mi potrei ritenere più che soddisfatta.
ma anche in mancanza di questa evoluzione, mi basta sapere che questo capolavoro ha un suo posto qui.
intanto sono grata a quella creatura che mi ha consentito, grazie a un suo lavoro, di accedere al testo via internet e di ricopiarlo: chiunque sia e qualsiasi cosa stia facendo ora, grazie.
non vorrei perdermi troppo dietro a parole inutili, ma questo viaggio sensuale nei labirinti di una casa che sembra non avere confini, non finire mai, perdersi tra misteriosi spazi, luoghi oscuri e inquietanti, inneggianti la trasgressione o la punizione, questo rincorrersi, prima mostrandosi poi celandosi, dei due innamorati lungo stanze e corridoi che poi sfociano nell'incontro, che esaltano la passione senza mai consumarla, è una sublime metafora del desiderio, è erotismo sottile e più che consapevole, è il gioco dell'amore e del sesso, misterioso, mai svelato fino in fondo, che lascia sempre inesplorato un luogo oscuro che non si conosce, che fa paura, che non si vuole nè si può lambire. come dice Don Fabrizio, il protagonista altero e superbo di questa storia siciliana, "un palazzo del quale si conoscevano tutte le camere non era degno di essere abitato". un eros che non ha misteri non ha nessun valore, non è degno di essere abitato, consumato tutto -se mai fosse possibile- è vuoto e senza valore. è solo orgia di godimento, senza fine, senza pace, è pulsione di morte.
con buona pace delle "sfumature" che tanto eccitano il mondo globalizzato ma alienato nell'uso comunitario di un vibratore di plastica.
Tancredi voleva che Angelica conoscesse tutto il palazzo nel suo complesso inestricabile di foresterie, appartamenti di rappresentanza, cucine, cappelle, teatri, quadrerie, rimesse odorose di cuoi, scuderie, serre afose, passaggi, scalette, terrazzini e porticati, e soprattutto di una serie di appartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decenni e che formavano un intrico labirintico e misterioso. Tancredi non si rendeva conto (oppure si rendeva conto benissimo) che trascinava la ragazza verso il centro nascosto del ciclone sensuale; ed Angelica, in quel tempo, voleva ciò che Tancredi aveva deciso. Le scorribande attraverso il quasi illimitato edificio erano interminabili; si partiva come verso una terra incognita, ed incognita era davvero perché in molti di quegli appartamenti e ripieghi neppure don Fabrizio aveva mai posto piede, il che del resto gli era cagione di grande soddisfazione, perché soleva dire che un palazzo del quale si conoscevano tutte le camere non era degno di essere abitato.
I due innamorati s'imbarcavano verso Citera su una nave fatta di camere cupe e di camere solatie, di ambienti sfarzosi o miserabili, vuoti o affollati di relitti di mobilio eterogeneo. Partivano accompagnati da Cavriaghi o da mademoiselle Dombreuil (padre Pirrone con la sagacia del suo Ordine si rifiutò sempre a farlo), talvolta da tutti e due: la decenza esteriore era salva.
Ma nel palazzo di Donnafugata non era difficile di fuorviare chi volesse seguirvi: bastava infilare un corridoio (ve ne erano lunghissimi, stretti e tortuosi, con finestrine grigliate che non si potevano percorrere senza angoscia), svoltare per un ballatoio, salire una scaletta complice, e i due ragazzi erano lontani, invisibili, soli come su un'isola deserta. Restavano a guardarli soltanto un ritratto a pastello sfumato via e che l'inesperienza del pittore aveva creato cieco, o su un soffitto obliterato una pastorella subito consenziente. Cavriaghi del resto si stancava presto ed appena trovava sulla propria rotta un ambiente conosciuto o una scaletta che scendeva in giardino se la svignava, tanto per far piacere all'amico, come per andare a sospirare guardando le gelide mani di Concetta. La governante resisteva piú a lungo, ma non per sempre; per qualche tempo si udivano sempre piú lontani i suoi appelli mai corrisposti: Tancrèdi, Angelicà? Poi tutto si richiudeva nel silenzio striato solo dal galoppo dei topi al di sopra dei soffitti, dallo strisciare di una lettera centenaria dimenticata che il vento faceva errare sul pavimento: pretesti per desiderate paure, per un aderire rassicurante delle membra. E l'eros era sempre con loro, malizioso e tenace; il gioco in cui trascinava i fidanzati era pieno di malia e di azzardi. Tutti e due vicinissimi ancora all'infanzia prendevano piacere al giocare in sé, godevano nell'inseguirsi, nel perdersi, nel ritrovarsi; ma quando si erano raggiunti i loro sensi aguzzati prendevano il sopravvento e le cinque dita di lui che si incastravano nelle dita di lei, nel gesto caro ai sensuali indecisi, il soave soffregamento dei polpastrelli sulle vene pallide del dorso, scombussolava tutto il loro essere, preludeva a piú insinuate carezze.
Una volta lei si era nascosta dietro un enorme quadro posato per terra; e per un po' Arturo Corbera all'assedio di Antiochia protesse l'ansia speranzosa della ragazza; ma quando fu scoperta, col sorriso intriso di ragnatele e le mani velate di polvere, venne avvinghiata e stretta, e rimase una eternità a dire: - No, Tancredi, no, - diniego che era un invito perché di fatto lui non faceva altro che fissare nei verdissimi occhi di lei i propri azzurri. Una volta, in una mattina luminosa e fredda, essa tremava nella veste ancora estiva: su di un divano coperto di stoffa a brandelli lui la strinse a sé per riscaldarla; il fiato odoroso di lei gli agitava i capelli in fronte; e furono momenti estatici e pensosi, durante i quali il desiderio diventava tormento, i freni, a loro volta, delizia.
Negli appartamenti abbandonati le camere non avevano né fisionomia precisa né nome; e come gli scopritori del Nuovo Mondo essi battezzavano gli ambienti attraversati, celebrandoli coi nomi delle scoperte reciproche. Una vasta stanza da letto nella cui alcova stava lo spettro di un letto adorno sul baldacchino da scheletri di penne di struzzo fu ricordata poi come la camera delle penne; una scaletta dai gradini di lavagna lisi e sbrecciati venne chiamata da Tancredi la scala dello scivolone felice. Piú d'una volta non seppero davvero dove erano: a furia di giravolte, di ritorni, di inseguimenti, di lunghe soste riempite di mormorii e di contatti perdevano l'orientamento e dovevano sporgersi da una finestra senza vetri per comprendere dall'aspetto di un cortile, dalla prospettiva del giardino, in quale ala del palazzo si trovassero. Talvolta però non si raccapezzavano lo stesso, perché la finestra dava non su uno dei grandi cortili ma su di un andito interno, anonimo anch'esso e mai intravisto, contrassegnato solo dalla carogna di un gatto o dalla solita manciata di pasta al pomidoro non si sa mai se vomitata o buttata via; e da un'altra finestra li scorgevano gli occhi di una cameriera pensionata.
Un pomeriggio rinvennero dentro un armadio quattro carillon, di quelle scatole per musica delle quali si dilettava l'affettata ingenuità del Settecento. Tre di esse, sommerse nella polvere e nelle tele di ragno, rimasero mute; ma l'ultima, piú recente, meglio chiusa nell'astuccio di legno scuro, mise in moto il proprio cilindro di rame irto di punte, e le linguette di acciaio sollevate fecero ad un tratto udire una musichetta gracile, tutta in toni acuti, argentini: il famoso Carnevale di Venezia; ed essi ritmarono i loro baci in accordo con quei suoni di gaiezza disillusa; e quando la loro stretta si allentò si sorpresero nell'accorgersi che i suoni erano cessati da tempo e che le loro espansioni non avevano seguito altra traccia che quella del ricordo di quel fantasma di musica.
Una volta la sorpresa fu di colore diverso. In una stanza della foresteria vecchia si avvidero di una porta nascosta da un armadio; la serratura centenaria cedette presto a quelle dita che godevano nell'incrociarsi e nel soffregarsi per forzarla: dietro, una lunga scala stretta si svolgeva in soffici curve con i suoi scalini di marmo rosa. In cima un'altra porta, aperta, e con spesse imbottiture disfatte; e poi un appartamentino vezzoso e strambo, sei piccole camere raccolte attorno ad un salotto di mediocre grandezza, tutte, e il salotto stesso, con pavimenti di bianchissimo marmo, un po' in pendio, declinanti verso una canaletta laterale. Sui soffitti bassi, bizzarri stucchi colorati che l'umidità aveva fortunatamente resi incomprensibili; sulle pareti grandi specchi attoniti, appesi troppo in giú, uno fracassato da un colpo quasi nel centro, ciascuno col contorto reggi-candele del Settecento. Le finestre davano su un cortile segregato, una specie di pozzo cieco e sordo, che lasciava entrare una luce grigia e sul quale non spuntava nessun altra apertura. In ogni camera ed anche nel salotto, ampi, troppo ampi divani che mostravano sulle inchiodature tracce di una seta strappata via; appoggiatoi maculati; sui caminetti, delicati, intricati intagli di marmo, nudi parossistici, martoriati però, mutilati da un martello rabbioso. L'umidità aveva macchiato i muri in alto ed anche forse, in basso, ad'altezza d'uomo, dove essa aveva assunto configurazioni strane, inconsueti spessori, tinte cupe.
Tancredi, inquieto, non volle che Angelica toccasse un armadio a muro del salotto: lo schiuse lui stesso. Era profondissimo ma vuoto, tranne che per un rotolo di stoffa sudicia, ritto in un angolo; dentro vi era un fascio di piccole fruste, di scudisci in nervo di bue, alcuni con manichi in argento, altri rivestiti sino a metà da una graziosa seta molto vecchia, bianca a righine azzurre, sulla quale si scorgevano tre file di macchie nerastre: ed attrezzini metallici, inspiegabili. Tancredi ebbe paura, anche di sé stesso: - Andiamo via, cara, qui non cè niente d'interessante. Richiusero bene la porta, ridiscesero in silenzio la scala, rimisero a posto l'armadio; e tutto il giorno, poi, i baci di Tancredi furono lievissimi, come dati in Sogno ed in espiazione.
Dopo il Gattopardo, a dire il vero, la frusta sembrava essere l'oggetto piú frequente a Donnafugata. L'indomani della loro scoperta dell'appartamentino enigmatico, i due innamorati s'imbatterono in un altro frustino. Questo in verità non era negli appartamenti ignorati, ma anzi in quello, venerato, detto del Duca-Santo, dove a metà del Seicento un Salina si era ritirato come in un convento privato, ed aveva fatto penitenza e predisposto il proprio itinerario verso il Cielo. Erano stanze ristrette, basse di soffitto, con l'ammattonato di umile creta, con le pareti candide a calce, simili a quelle dei contadini piú derelitti. L'ultima dava su un poggiuolo dal quale si dominava la distesa gialla dei feudi accavallati ai feudi, tutti immersi in una triste luce. Su di una parete un enorme crocifisso, piú grande del vero: la testa del Dio martoriato toccava il soffitto, i piedi sanguinanti sfioravano il pavimento: la piaga sul costato sembrava una bocca cui la brutalità avesse vietato di pronunciare le parole della salvezza ultima. Accanto al cadavere divino pendeva giú da un chiodo una frusta col manico corto, dal quale si ripartivano sei striscie di cuoio ormai indurito, terminanti in sei palle di piombo grosse come nocciole. Era la disciplina del Duca-Santo. In quella stanza Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli che le goccie del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle: nella sua pia esaltazione doveva sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne, come si dice. Invece le zolle erano sfuggite, e molte di quelle, che da lassú si vedevano, appartenevano ad altri, a don Calogero anche: a don Calogero, cioè ad Angelica, quindi al suo futuro figlio.
L'evidenza del riscatto attraverso la bellezza, parallelo all'altro riscatto attraverso il sangue, diede a Tancredi come una vertigine. Angelica inginocchiata baciava i piedi trafitti di Cristo. - Vedi, tu sei come quell'arnese lí, servi agli stessi scopi. E mostravala disciplina; e poiché Angelica non capiva ed alzato il capo sorrideva, bella ma vacua, lui si chinò e cosí genuflessa com’era le diede un aspro bacio che la fece gemere perché le ferí il labbro e le raschiò il palato. I due passavano cosí quelle giornate in vagabondaggi trasognati, in scoperte d'inferni che l'amore poi redimeva, in rinvenimenti di paradisi trascurati che lo stesso amore profanava. Il pericolo di far cessare il gioco per incassarne subito la posta si acuiva, urgeva per tutti e due; alla fine non cercavano piú, ma se ne andavano assorti nelle stanze piú remote, quelle dalle quali nessun grido avrebbe potuto giungere a nessuno; ma grida non vi sarebbero state: solo invocazioni e singulti bassi. Invece se ne stavano lí tutti e due stretti ed innocenti, a compatirsi l'un l'altro. Le piú pericolose per loro erano le stanze della foresteria vecchia: appartate, meglio curate, ciascuna col suo bel letto dalle materassa arrotolate che un colpo della mano sarebbe bastato a distendere... Un giorno, non il cervello di Tancredi che in questo non aveva nulla da dire, ma tutto il suo sangue aveva deciso di finirla: quella mattina Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto:
- Sono la tua novizia, - richiamando alla mente di lui, con la chiarezza di un invito, il primo incontro di desideri che fosse corso fra loro; e già la donna resa scarmigliata si offriva, già il maschio stava per sopraffare l'uomo, quando il boato del campanone della chiesa piombò quasi a picco sui loro corpi giacenti, aggiunse il proprio fremito agli altri; le bocche compenetrate dovettero disgiungersi per un sorriso.
Si ripresero, e l'indomani Tancredi doveva partire.