se non fosse un tempo di morte potrebbe anche essere un tempo di meraviglia.
ma non vorrei sembrare blasfema.
io sono stata a teatro lunedì.
e sono stata al Globe Theatre, a Londra.
ho visto Romeo and Juliet.
in inglese.
che inglese.
(con i sottotitoli, in inglese, altrimenti non avrei avuto speranza, e anche così...)
che musica.
che teatro meraviglioso teatro.
solo teatro.
purezza di diamante.
testo, attori, scena.
e Shakespeare.
l'immortalità è per pochi.
tre ore in un inglese difficile passate come un lampo in guizzi di puro divertimento.
gioia.
bello mondo
questo ricordo, questo io lo ricordo
bello, molto bello mondo, con cielo
diurno e notturno, con facce che
mi piacevano
...tirando via chili e scarponi interiori che mi
infangavano, tirando via ferri da stiro
che mi portavo nel petto
...
C’è splendore
in ogni cosa. Io l’ho visto.
Io ora lo vedo di piu’.
giovedì 30 aprile 2020
bello mondo, bambina mia..
Bello, bello, bello mondo, bello ridere di
mondo in luce mattutina in
colorazione di mondo con stagioni e
popolazione e animali. Bello mondo
questo ricordo, questo io lo ricordo
bello, molto bello mondo, con cielo
diurno e notturno, con facce che
mi piacevano e musi e zampe e
vegetazione che mi sospirava e mi
sospirava leggera leggera, tirando
via chili e scarponi interiori che mi
infangavano, tirando via ferri da stiro
che mi portavo nel petto, e gran pulitura
di dentro. Bello, questo io lo ricordo
bello.
Io ho avuto soccorso a volte da
una piccola foglia, da un frutto così
ben fatto che dava sollievo a mio
disordine di fondo. Sì sì.
Mariangela Gualtieri
Bambina mia,
Per te avrei dato tutti i giardini
del mio regno, se fossi stata regina,
fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma.
Tutto il regno per te.
E invece ti lascio baracche e spine,
polveri pesanti su tutto lo scenario
battiti molto forti
palpebre cucite tutto intorno.
Ira nelle periferie della specie.
E al centro,
ira.
Ma tu non credere a chi dipinge l’umano
come una bestia zoppa e questo mondo
come una palla alla fine.
Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e
di sangue. Lo fa perché è facile farlo.
Noi siamo solo confusi,credi.
Ma sentiamo. Sentiamo ancora.
Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci
di amare qualcosa.
Ancora proviamo pietà.
Tocca a te,ora,
a te tocca la lavatura di queste croste
delle cortecce vive.
C’è splendore
in ogni cosa. Io l’ho visto.
Io ora lo vedo di piu’.
C’è splendore. Non avere paura.
Ciao faccia bella,
gioia piu’ grande.
L’amore è il tuo destino.
Sempre. Nient’altro.
Nient’altro. Nient’altro.
Mariangela Gualtieri
mondo in luce mattutina in
colorazione di mondo con stagioni e
popolazione e animali. Bello mondo
questo ricordo, questo io lo ricordo
bello, molto bello mondo, con cielo
diurno e notturno, con facce che
mi piacevano e musi e zampe e
vegetazione che mi sospirava e mi
sospirava leggera leggera, tirando
via chili e scarponi interiori che mi
infangavano, tirando via ferri da stiro
che mi portavo nel petto, e gran pulitura
di dentro. Bello, questo io lo ricordo
bello.
Io ho avuto soccorso a volte da
una piccola foglia, da un frutto così
ben fatto che dava sollievo a mio
disordine di fondo. Sì sì.
Mariangela Gualtieri
Bambina mia,
Per te avrei dato tutti i giardini
del mio regno, se fossi stata regina,
fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma.
Tutto il regno per te.
E invece ti lascio baracche e spine,
polveri pesanti su tutto lo scenario
battiti molto forti
palpebre cucite tutto intorno.
Ira nelle periferie della specie.
E al centro,
ira.
Ma tu non credere a chi dipinge l’umano
come una bestia zoppa e questo mondo
come una palla alla fine.
Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e
di sangue. Lo fa perché è facile farlo.
Noi siamo solo confusi,credi.
Ma sentiamo. Sentiamo ancora.
Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci
di amare qualcosa.
Ancora proviamo pietà.
Tocca a te,ora,
a te tocca la lavatura di queste croste
delle cortecce vive.
C’è splendore
in ogni cosa. Io l’ho visto.
Io ora lo vedo di piu’.
C’è splendore. Non avere paura.
Ciao faccia bella,
gioia piu’ grande.
L’amore è il tuo destino.
Sempre. Nient’altro.
Nient’altro. Nient’altro.
Mariangela Gualtieri
mercoledì 29 aprile 2020
Strada
La strada non c’è.
Da qui in poi, speranza.
Mi manca il respiro,
da qui in poi, speranza.
Se la strada non c’è,
la costruisco mentre procedo.
Da qui in poi, storia.
Storia non come passato,
ma come tutto ciò che è.
Dal futuro,
dai suoi pericoli,
alla mia vita presente,
fino all’ignoto che segue,
all’oscurità che segue.
Oscurità
è solo assenza di luce.
Da qui in poi, speranza.
La strada non c’è.
Perciò
la costruisco mentre procedo.
Ecco la strada.
Ecco la strada, e porta con sé, impeccabili,
innumerevoli domani.
Ko Un
Da qui in poi, speranza.
Mi manca il respiro,
da qui in poi, speranza.
Se la strada non c’è,
la costruisco mentre procedo.
Da qui in poi, storia.
Storia non come passato,
ma come tutto ciò che è.
Dal futuro,
dai suoi pericoli,
alla mia vita presente,
fino all’ignoto che segue,
all’oscurità che segue.
Oscurità
è solo assenza di luce.
Da qui in poi, speranza.
La strada non c’è.
Perciò
la costruisco mentre procedo.
Ecco la strada.
Ecco la strada, e porta con sé, impeccabili,
innumerevoli domani.
Ko Un
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lunedì 27 aprile 2020
non voglio cambiare pianeta
Seguiteranno a viaggiare
tra gli astri oggetti metallici
con dentro uomini stanchi,
violenteranno la luna
aprendovi farmacie.
E’ il tempo dell’uva piena
e il vino comincia a vivere
tra le montagne e il mare.
In Cile ballano le ciliege,
cantano le ragazze brune,
l’acqua nelle chitarre luccica.
Il sole bacia ogni porta
e col grano fa miracoli.
Il primo vino è rosato,
dolce come un bimbo tenero;
il secondo vino è robusto
come voce di marinaio;
e il terzo vino è un topazio,
un papavero e un incendio.
La mia casa ha mare e terra,
la mia donna ha grandi occhi
color nocciola selvatica,
quando si fa notte il mare
si veste di bianco e di verde,
e la luna tra le schiume
sogna come una sposa marina.
Non voglio cambiare pianeta.
Pablo Neruda
(lo stile di Neruda lo riconoscerei anche sorda e cieca)
tra gli astri oggetti metallici
con dentro uomini stanchi,
violenteranno la luna
aprendovi farmacie.
E’ il tempo dell’uva piena
e il vino comincia a vivere
tra le montagne e il mare.
In Cile ballano le ciliege,
cantano le ragazze brune,
l’acqua nelle chitarre luccica.
Il sole bacia ogni porta
e col grano fa miracoli.
Il primo vino è rosato,
dolce come un bimbo tenero;
il secondo vino è robusto
come voce di marinaio;
e il terzo vino è un topazio,
un papavero e un incendio.
La mia casa ha mare e terra,
la mia donna ha grandi occhi
color nocciola selvatica,
quando si fa notte il mare
si veste di bianco e di verde,
e la luna tra le schiume
sogna come una sposa marina.
Non voglio cambiare pianeta.
Pablo Neruda
(lo stile di Neruda lo riconoscerei anche sorda e cieca)
invito tutti a seguire Jovanotti nella sua scorribanda ciclistica in Cile, tra gennaio e febbraio di questo infausto anno il cui tempo scorre in modo altro. io non ho più percezione del tempo. io non so più nulla del tempo.
se ci penso, è incredibile che a febbraio fossero in Cile Jovanotti, mio fratello e mio marito.
un gioco del destino.
serenità di fronte a ciò che è prevedibile, coraggio di fronte all'imprevedibile, buon senso nel distinguere tra i due casi.
regole della vita, regole anti contagio, regole di sopravvivenza, a Milano a inizio tragedia, in Cile in viaggio, in bici o meno.
Jovanotti è francamente simpatico, lo ascolto volentieri, e guardo estasiata il viaggio nel nulla cileno, terra fantastica e tormentatissima.
inoltre ogni episodio, sono 16 credo in tutto, di breve durata e tutti disponibili su Raiplay, termina con una poesia.
una più bella dell'altra.
e poi mi piace come le dice Lorenzo.
inizio con Pablo, la sua poesia da il titolo a questo incredibile viaggio nell'altrove, magari le posto tutte.
buon viaggio.
episodio 2
https://www.raiplay.it/video/2020/04/Non-Voglio-Cambiare-Pianeta---Km-70--Il-pigro-bf3a45dd-42a7-4628-ba6f-9bc5520e495e.html?wt_mc=2.www.wzp.raiplay.
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venerdì 24 aprile 2020
la conquista dell'inutile
il tempo si trascina come un elefante e i cani mi strappano il cuore.
Werner Herzog ha girato un film, molti anni fa.
Fitzcarraldo.
un film passato alla storia per gli infiniti problemi che ha causato a chi vi ha partecipato, anche morti sul set, disgrazie, imprevisti, incidenti, litigi furibondi con l'attore protagonista Klaus Kinski, abbandoni celebri, Mick Jagger abbandonò il set.
un uomo ha un grande sogno: costruire un grande Teatro dell'Opera in un piccolo villaggio amazzonico isolato dal resto del mondo, per farvi esibire i più grandi nomi della lirica, uno su tutti il famoso cantante Enrico Caruso. a Herzog non interessava la scalata al successo di quell'uomo, bensì l'idea che per raggiungere i propri obiettivi si potesse far passare una nave per una montagna.
e così si fece nel film.
non un modellino, non una simulazione.
una nave sulla montagna.
La conquista dell'inutile è un libro di Werner Herzog del 2007, dove è raccolto il diario tenuto dal regista durante la lavorazione del film, tra giugno 1979 e novembre 1981, pubblicato a oltre 20 anni dall'uscita del film. vi si raccontano la foresta amazzonica e le sue popolazioni di indios, spesso usati come comparse, e il lavoro d'attore di Klaus Kinski, protagonista del film. soprattutto, ci sono dichiarazioni e visioni poetiche del regista.
Werner Herzog ha girato un film, molti anni fa.
Fitzcarraldo.
un film passato alla storia per gli infiniti problemi che ha causato a chi vi ha partecipato, anche morti sul set, disgrazie, imprevisti, incidenti, litigi furibondi con l'attore protagonista Klaus Kinski, abbandoni celebri, Mick Jagger abbandonò il set.
un uomo ha un grande sogno: costruire un grande Teatro dell'Opera in un piccolo villaggio amazzonico isolato dal resto del mondo, per farvi esibire i più grandi nomi della lirica, uno su tutti il famoso cantante Enrico Caruso. a Herzog non interessava la scalata al successo di quell'uomo, bensì l'idea che per raggiungere i propri obiettivi si potesse far passare una nave per una montagna.
e così si fece nel film.
non un modellino, non una simulazione.
una nave sulla montagna.
La conquista dell'inutile è un libro di Werner Herzog del 2007, dove è raccolto il diario tenuto dal regista durante la lavorazione del film, tra giugno 1979 e novembre 1981, pubblicato a oltre 20 anni dall'uscita del film. vi si raccontano la foresta amazzonica e le sue popolazioni di indios, spesso usati come comparse, e il lavoro d'attore di Klaus Kinski, protagonista del film. soprattutto, ci sono dichiarazioni e visioni poetiche del regista.
Come la folle rabbia di un cane, che si ostina ad azzannare la zampa di un capriolo ormai morto e insiste a scuotere e a tirare con forza la selvaggina abbattuta, al punto che il cacciatore rinuncia ad ogni tentativo di calmarlo, una visione si era radicata dentro di me: l'immagine di un grande battello a vapore su una montagna – la barca che si trascina tra i fumi grazie alla sua stessa forza, risalendo un ripido pendio nel cuore della giungla e, in mezzo a una natura che annienta senza distinzione i deboli e i forti, la voce di Caruso, che riduce al silenzio il dolore e il clamore degli animali nella foresta amazzonica e smorza il canto degli uccelli. O meglio: le grida degli uccelli, perché in questa terra, incompiuta e abbandonata da Dio nella sua ira, gli uccelli non cantano, gridano di dolore, e colossali alberi intricati si artigliano l'uno con l'altro come in una gigantomachia, da orizzonte a orizzonte, tra le esalazioni di una creazione che qui non si è ancora conclusa. Trasudando nebbia, spossati, si ergono in questo mondo irreale – e io, come nella strofa di una poesia in una lingua sconosciuta che non capisco, mi ritrovo a provare un profondo terrore.
Werner Herzog
La conquista dell'inutile
mi piace l'estratto dal libro, moltissimo. l'ho ascoltato su Fiesta immobile, dalla lettura di Andrea Tarabbia, e ringrazio.
ma ciò che mi introga più di tutto è il titolo del libro, la conquista dell'inutile.
ciò che serve per vivere, soprattutto di questi tempi, ma in tutti i tempi in generale, non è la conquista di qualcosa, ma la conquista di non qualcosa.
dell'inutile.
spazio infinito per il pensiero.
Werner Herzog
La conquista dell'inutile
mi piace l'estratto dal libro, moltissimo. l'ho ascoltato su Fiesta immobile, dalla lettura di Andrea Tarabbia, e ringrazio.
ma ciò che mi introga più di tutto è il titolo del libro, la conquista dell'inutile.
ciò che serve per vivere, soprattutto di questi tempi, ma in tutti i tempi in generale, non è la conquista di qualcosa, ma la conquista di non qualcosa.
dell'inutile.
spazio infinito per il pensiero.
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giovedì 23 aprile 2020
bisognerebbe saper attendere
Bisognerebbe saper attendere, raccogliere, per una vita intera e possibilmente lunga, senso e dolcezza, e poi, proprio alla fine, si potrebbero forse scrivere dieci righe valide. Perché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si acquistano precocemente), sono esperienze. Per scrivere un verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna capire il volo degli uccelli e comprendere il gesto con cui i piccoli fiori si aprono al mattino. Bisogna saper ripensare a itinerari in regioni sconosciute, a incontri inaspettati e congedi previsti da tempo, a giorni dell'infanzia ancora indecifrati, ai genitori che eravamo costretti a ferire quando portavano una gioia e non la comprendevamo (era una gioia per qualcun altro), a malattie infantili che cominciavano in modo così strano con tante profonde e grevi trasformazioni, a giorni in stanze silenziose e raccolte e a mattine sul mare, al mare sopratutto, a mari, a notti di viaggio che passavano con un alto fruscio e volavano assieme alle stelle - e ancora non è sufficiente poter pensare a tutto questo. Bisogna avere ricordi di molte notti d'amore, nessuna uguale all'altra, di grida di partorienti e di lievi, bianche puerpere addormentate che si rimarginano. Ma bisogna anche essere stati accanto ad agonizzanti, bisogna essere rimasti vicino ai morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori intermittenti. E non basta ancora avere ricordi. Bisogna saperli dimenticare, quando sono troppi, e avere la grande pazienza di attendere che ritornino. Perché i ricordi in sé ancora non sono. Solo quando diventano sangue in noi, sguardo e gesto, anonimi e non più distinguibili da noi stessi, soltanto allora può accadere che in un momento eccezionale si levi dal loro centro e sgorghi la prima parola di un verso.
Rainer Maria Rilke
I quaderni di Malte
bisogna saper attendere perchè questo ricordo diventi sangue e carne.
lo diventerà.
domenica 19 aprile 2020
guarda che non sono io
Quello che conosce il tempo, e che ti spiega il mondo
Quello che ti perdona e ti capisce
Che non ti lascia sola, e che non ti tradisce
Guarda che non sono io quello seduto accanto
Che ti prende la mano e che ti asciuga il pianto
Cammino per la strada
Qualcuno mi vede
E mi chiama per nome
Si ferma e mi ringrazia
Vuole sapere qualcosa
Di una vecchia canzone
Ed io gli dico "Scusami però non so di cosa stai parlando
Sono qui con le mie buste della spesa
Lo vedi, sto scappando
Se credi di conoscermi
Non è un problema mio
E guarda che non sto scherzando
Guarda come sta piovendo
Guarda che ti stai bagnando
Guarda che ti stai sbagliando
Guarda che non sono io"
Guarda che non sono io quello che mi somiglia
L'angelo a piedi nudi, o il diavolo in bottiglia
Il vagabondo sul vagone
La pace fra gli ulivi, e la rivoluzione
Guarda che non sono io la mia fotografia
Che non vale niente e che ti porti via
Cammino per la strada
Qualcuno mi vede
E mi chiama per nome
Si ferma e vuol sapere
E mi domanda qualcosa
Di una vecchia canzone
Ed io gli dico "Scusami però non so di cosa stai parlando
Sono qui con le mie buste della spesa
Se credi di conoscermi
Non è un problema mio
E guarda che non sto scherzando
Guarda come sta piovendo
Guarda che ti stai bagnando
Guarda che ti stai sbagliando
Guarda che non sono io"
Francesco De Gregori
questa canzone l'ho sentita a Fiesta Immobile questa canzone è di De Gregori che amo da sempre questa canzone mi dice moltissimo e ringrazio De Gregori per avermela scritta si, a me grazie
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venerdì 17 aprile 2020
Portrait, Wayne McGregor
di questi tempi si può avere molto dal web, io ho sentito fantastici concerti di retti da Abbado, Von Karajan e Muti dei Berliner Philarmoniker, visto spettacoli teatrali vecchi e nuovi, goduto di film fantastici di Kubrick, Wells, Chaplin, Coppola che magari non avrei mai visto altrimenti sempre tesa verso le ultime uscite al cinema, fatto giri virtuali tra mostre e musei, approfittato di spettacoli online della mia amatissima Scala, ho guardato tutti i balletti disponibili, ascoltato il Trovatore e anche Maria Stuarda.
non mi sono fatta mancare nemmeno il balletto di Monaco.
Bayerisches Staatsballett.bei nomi, belle composizioni di parole, i tedeschi.
nello specifico: Portrait di Wayne McGregor.
una festa.
una baldoria.
in tre parti.
il primo, Kairos, su musiche di Vivaldi, le Quattro Stagioni, è una cuccagna.
strepitoso.
certo, la musica fa tre quarti del tutto.
ballare sui violini di Vivaldi è una partita vinta in partenza, ma il coreografo, e il corpo di ballo di Monaco, mi sono sembrati all'altezza.
(si, faccio la sborona, Vivaldi è una medaglia d'oro sul petto dell'Italia)
il secondo, Sunyata, mi ha lasciato indifferente, (anche perchè la musica mi ha raggelato).
il terzo, Bordelands, acido e vibrante, mi è piaciuto.
andate e godete, è per tutti.
Borderlands.
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giovedì 16 aprile 2020
Adenoyd Hynkel, ovvero il fui della Tomania. Bonito Napoloni, duce di Batalia.
Adenoyd Hynkel, ovvero il fui della Tomania.
Bonito Napoloni, duce di Batalia.
e già questo basterebbe.
siamo ne "Il grande dittatore", scritto, diretto, prodotto e interpretato da Charlie Chaplin nel 1940.
trovo singolare che nel pieno della guerra, nel pieno delle dittature, nel pieno del momento storico caldissimo dei totalitarismi, Chaplin abbia trovato la lucidità per fare una parodia del nazismo, e del fascismo.
credo abbia affermato che, se avesse saputo delle atrocità dei campi concentrazionari, il film è del 1940, non avrebbe avuto l'ardire di fare dell'ironia sul nazismo e la persecuzione degli ebrei.
ma l'ha fatta e gliene siamo grati.
non riesco ad immaginare che effetto abbia fatto allora, adesso, a distanza di ottanta anni, l'effetto è di una pellicola straordinaria.
intanto Chaplin parla, Charlot è alle spalle, sebbene la sua mimica da attore muto rimanga la forza trainante del suo, dei suoi personaggi.
parlano il suo dittatore e il suo barbiere ebreo. parlano il linguaggio del corpo, e con grande maestria.e parla Napoloni, straordinaria parodia di Mussolini, complice di alcune delle scene più esilaranti del film.
la leggerezza del film, la sua raffinata ironia, la straordinaria mobilità espressiva dei suoi personaggi, l'ilarità delle scene con Napoloni, la storpiatura di nomi e nazioni, creano un apparato scenico e narrativo indimenticabile, assurgono a poetica dell'ironia.
for ever.
for ever.
lunedì 13 aprile 2020
sono come noi, sono bambini ingannati
Quando rimanemmo nuovamente sole, ci prese una sensazione di paura nei confronti dell'America. Era una società artificiale senza abbastanza artifici, perché fino ad allora non erano stati necessari: non era un paese indifferente ai propri cittadini, non era un paese crudele. Semplicemente, un evento imprevedibile aveva inflitto ferite di un genere mai sperimentato prima e ancora non erano stati trovati un bendaggio e un laccio emostatico adeguati.
Si, era proprio così, e l'innocenza di quel paese era ancora più elementare.E fu difficile tenere la mente concentrata sulla musica durante il tour, quando ci trovammo difronte a quella situazione, che era estrema. La si potrebbe anche mettere in questi termini: due persone si conoscevano da molto tempo, e la loro amicizia era basata su quella che sembrava essere una cultura comune. Sarebbero potuti andare a Venezia insieme e non essere mai sorpresi da quello che l'altro voleva vedere, e insieme avrebbero visitato ogni cosa. Ma improvvisamente a uno dei due un incidente provocava un taglio profondo nel corpo e lo faceva gridare, non per lo stupore di essere stato ferito, ma per la perdita di sangue. Fino a quel momento sembrava che non avesse mai avuto idea che sotto la pelle corresse il sangue, ed era ancora la persona che sapeva tutto delle chiese di Venezia, era il più meraviglioso dei compagni.
...
Nessuno di loro era in politica e questo era ciò che rendeva le città americane diverse da Londra, dove alle feste si ha sempre la sensazione di incontrare molti più dei seicentoventisei membri del parlamento effettivi. Ma quella gente parlava sempre del disastro generale che non li aveva toccati, ma che tuttavia era destinato, rispetto a quel momento di paralisi, a espandersi ulteriormente. Parlavano anche delle ricette per mettere fine a quella crisi e si mostravano nudi e sinceri della loro innocenza, inconsapevoli del fatto che il sangue scorresse nelle loro vene.
"Sono come noi quando papà se ne è andato", disse Mary, mentre guidavamo verso casa. "Ti ricordi come parlavamo di andare a lavorare in fabbrica, senza sapere nulla delle fabbriche, e di guadagnare abbastanza per mantenere la famiglia?".
"Sono come noi anche in altri sensi", dissi io. "Parlano della borsa come di un organismo che ha un'esistenza indipendente e in alcuni momenti regala un sacco di denaro. Per loro è come un padre: sono come noi, sono bambini ingannati".
di cosa parlano Rose e Mary? dellìAmerica di oggi?
no, dell'America nel 1929, durante la Grande crisi.
è Rebecca West, Rosamund, 1985
domenica 12 aprile 2020
pasqua
c'è qualcosa di veramente sacro, umanamente sacro, in questa pasqua così modesta umile silenziosa deserta provata sacrificata carica di morte e di solitudine, per la prima volta nella mia vita sento che pasqua significa qualcosa, per me, per tutti
venerdì 10 aprile 2020
ero sicura che sarei morta quando mi avrebbe toccata e, invece, naturalmente, cominciai a vivere.
riflettendo su questo libro, ogni volta che lo richiudo dopo la lettura serale, ogni volta che lo riapro la sera dopo, e mi ritrovo tra le righe di questa prosa non sempre facile, non sempre lineare, mi convinco che sono approdata a qualcosa di molto complesso.
non è solo una storia, una narrazione di fatti ed eventi, è una trattazione sulla crudeltà della vita.
sulla crudeltà dei legami.
sulla insostituibilità dei legami primordiali, ancestrali.
è un pianto, diciamo, ininterrotto su quell'affettività primigenia che si è destinati a perdere.
chi narra, Rose, pianista di eccellenza, gemella di Mary, altra pianista di eccellenza, rincorre senza speranza tutti i legami straordinari che ha perso. primo tra tutti quello con la madre, figura insostituibile e originalissima, poi quello con il fratello, altrettanto unico animato da pura energia vitale, poi quello con il padre, figura invece enigmatica e misteriosa, poi quello con Rosamund, personaggio a me meno chiaro ma illuminato, fino a un certo punto, da una grazia cristallina, infine quello con la sorella stessa, amatissima ma sempre più distante dopo anni di profonda simbiosi affettiva e artistica.
tutto quel che viene dopo, tutto quello che verrà, poi, nella vita, di Rose ma di tutti noi, non sarà mai paragonabile a ciò che abbiamo lasciato.
quell'impronta è unica indelebile. nessun passo potrà mai sostenere il ritmo della vita che ci ha indicato la nostra famiglia. ogni nuovo legame sarà una sorpresa, inaspettata, regalata, gradita, ma pallida, e solo vagamente consolatoria.
(Oliver) Smise di suonare e si alzò in piedi. Entrai nella stanza e ci trovammo l'una di fronte all'altro, tremanti.
Uno sguardo colpevole gli si dipinse in volto e poi scomparve. Disse esultante: "Ora posso amare di nuovo."
Mi colpì come una stretta al cuore che lui la mettesse in quel modo, ma il mio io più profondo mi disse freddamente che se avessi avuto lui, nient'altro sarebbe più importato. Venne verso di me e io mi irrigidii per il disgusto, ero sicura che sarei morta quando mi avrebbe toccata e, invece, naturalmente, cominciai a vivere.
Uno sguardo colpevole gli si dipinse in volto e poi scomparve. Disse esultante: "Ora posso amare di nuovo."
Mi colpì come una stretta al cuore che lui la mettesse in quel modo, ma il mio io più profondo mi disse freddamente che se avessi avuto lui, nient'altro sarebbe più importato. Venne verso di me e io mi irrigidii per il disgusto, ero sicura che sarei morta quando mi avrebbe toccata e, invece, naturalmente, cominciai a vivere.
inizierà a vivere? il passo è potente, perché preceduto, per molte pagine, da un malessere violentissimo di Rose. la prossimità di Oliver, che sarà suo sposo, la porterà a sbandare, a provare disgusto per i corpi, a ipotizzare l'abbandono di tutto, anche dalla musica, pur di ricreare distanza tra lei e un altro che si avvicina paurosamente. si, era solo paura, era il terrore di un linguaggio nuovo, inedito, rispetto a quello già noto (e la maestria letteraria di Rebecca West raggiunge vette altissime). l'Altro rimane sempre un'ombra oscura e inconoscibile. ci potremo mai fidare? l'episodio segna la fine dei legami certi, quelli familiari, e pone l'avvio di quelli incerti, quelli amorosi.
tre libri per parlare di questo, il passaggio dolorosissimo dalla matrice nota della nostra radice familiare a quella ignota e instabile del mondo dell'altro.
tre libri per parlare di questo, il passaggio dolorosissimo dalla matrice nota della nostra radice familiare a quella ignota e instabile del mondo dell'altro.
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giovedì 9 aprile 2020
racconti sull'erba
la primavera si fa sentire
gioia e rabbia si confondono
spalanco le finestre, mi dico: entrerà lo stesso in casa, la primavera
guardo film e mi sembra lontanissimo il tempo in cui si poteva uscire, la gente si muove per le vie e si incontra nei luoghi e il mio pensiero è già condizionato: ma non si può, una voce dentro mi dice, già ammaestrata dal contagio che ci trasforma
immagini fotografiche tra fine '800 e primi '900 sono radunate sul sito di Museo Villa Bernasconi, in una mostra virtuale (https://www.villabernasconi.eu/racconti-sull-erba-mostra-virtuale/) che ci ricorda le gite di pasquetta
le foto antiche mi raggelano sempre, testimoniano quello che altrimenti non posso sapere, posso solo immaginare fidandomi della storia. cento, duecento anni fa la gente esisteva e le persone in vita allora non esistono più sulla terra. il ciclo della vita rinnova gli abitanti, il reale della natura non si ferma, nasciamo per morire, e come poi si muore è tutto da vedere, anche io sono un punto sulla terra destinato a scomparire a meno che qualcuno non mi faccia una foto sull'erba che risulterà sbiadita e scolorata agli abitanti del 3020
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lunedì 6 aprile 2020
citta ospedale, l'afa di morte sale, città scorta, il si che veramente ti rinnova
Laura Marinoni fino ad un mese fa, prima dell’inizio della quarantena, era protagonista dei Promessi sposi alla prova di Giovanni Testori al Franco Parenti, nella doppia parte della Monaca di Monza e della madre di Cecilia.
qui propone un passaggio del testo, quello dedicato a Milano, e pronunciato da Fra Cristoforo in occasione della peste.
un brivido, si sente odore di morte.
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domenica 5 aprile 2020
conversazione con la morte
Federica Fracassi, già protagonista di Erodiàs e della Monaca di Monza, legge alcune pagine iniziali di “Conversazione con la morte”, il testo scritto da Giovanni Testori nel 1978, dopo la perdita della madre.
ripensiamo al valore delle parole, al valore degli eventi, al valore degli atti della vita.
al valore dell'innominabile morte.
Nei tempi lontani e perduti
quando quella lingua arcana
si usava ancora almeno per certi atti della vita
come il nascere, il morire
...
tutto in quelle parole un tempo
era più rispettoso, più lucido e più forte,
le sillabe erano come una carezza
che scendeva sopra un taglio
o sopra una ferita.
Oggi chi muove più la mano
per calmare il dolore di tutti i tagli
e di tutte le ferite che compiamo sugli altri
o che vengono compiute su di noi?
...
Cari, poveri, forse delusi amici,
il teatro, le sue assi, il sipario
le quinte, le luci, tutto ciò che fu per anni
la mia fatica, la mia gloria
la mia battaglia, il mio sole,
la mia perdizione, la mia vanità
tutto questo e ben altro
si è ridotto a questi muri scrostati,
a questo gocciolare d’acqua dentro le tubature,
a quest’odor di muschio e di salnitro,
a questa nebbia.
Negli anni della mia gloria, dissipavo
il mio corpo, la mia mente, la mia stessa anima
...
anima, perduta anima,
scura anima d’affanno e di morte.
Una parola che, lungo il giro dei tempi,
abbiamo lasciato cadere:
anima
una parola che abbiamo resa vuota e inerte,
come la spoglia di una cicala.
Ma il giorno in cui le spoglie s’alzeranno
anche le parole, sì, anche loro
ci punteranno contro il dito, già.
...
Quel giorno, se sarà veramente un giorno,
o non piuttosto un’alba
una di quelle albe in cui il sole s’alza
come una spada dorata,
o una notte d’uragani e di tempesta.
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Conversazione con la morte,
Federica Fracassi,
Giovanni Testori,
morte
venerdì 3 aprile 2020
Egli è d'una rara imparzialità e simpatizza ugualmente con le due parti belligeranti. Di conseguenza, anche i risultati sono sempre uguali per le due parti. Abadonna!
CAPITOLO TRENTADUESIMO
Il perdono e l'eterno rifugio
Il perdono e l'eterno rifugio
Dei, o miei dei! Com'è triste la terra di sera! Come sono misteriose le brume sulle paludi! Chi
ha vagato in queste brume, chi ha molto sofferto prima della morte, chi ha volato su questa terra
portando su di sé un peso troppo gravoso, lo sa. Lo sa chi è stanco. Ed egli senza rimpianto
abbandona le brume della terra, le sue paludi e i suoi fiumi, a cuore leggero si consegna nelle mani
della morte sapendo che essa soltanto lo placherà.
Anche i magici cavalli neri erano spossati e portavano i loro cavalieri lentamente e la notte ineluttabile cominciò a raggiungerli. Sentendola alle proprie spalle, si zittí anche l'instancabile Behemoth, che, avvinghiato alla sella con le unghie, volava silenzioso e serio, con la coda dispiegata.
La notte aveva cominciato a coprire di un nero scialle i boschi e i prati, la notte aveva acceso piccole luci meste laggiú in basso, luci estranee, ormai indifferenti e inutili per Margherita e il Maestro. La notte aveva superato la cavalcata, si disseminava su di essa dall'alto e lanciava ora qua ora là nel cielo rattristato le bianche macchioline delle stelle.
La notte s'infittiva, volava accanto, afferrava i cavalieri al galoppo pei mantelli e, strappatili dalle loro spalle, smascherava gli inganni. E quando Margherita, avvolta dal vento fresco, aprí gli occhi, vide come andava mutando l'aspetto di tutti quelli che volavano verso la loro meta. Quando incontro a loro dall'estremità del bosco cominciò a uscire, purpurea e piena, la luna, tutti gli inganni scomparvero, cadde nella palude, affondò tra le brume l'instabile veste stregonesca.
Difficilmente adesso avrebbero riconosciuto Korov’ev-Fagotto, sedicente traduttore del misterioso consulente che non aveva bisogno di traduzione alcuna, in colui che volava accanto a Woland, a destra dell'amica del Maestro.
In luogo di chi, in una lacera veste da circo, aveva lasciato i Monti dei Passeri sotto il nome di Korov'ev-Fagotto adesso galoppava, facendo tintinnare sommessamente la catena d'oro della briglia, un cavaliere di colore violetto scuro con un volto cupissimo che non sorrideva mai. Teneva il mento appoggiato sul petto, non guardava la luna non si interessava della terra, pensava a qualcosa di suo mentre volava accanto a Woland.
- Perché è tanto cambiato? - chiese sommessa Margherita a Woland, accompagnata dal sibilo del vento.
- Questo cavaliere, un giorno, scherzò in modo poco felice, - rispose Woland voltando verso Margherita il volto dall'occhio placidamente luminoso, - e la freddura che aveva detto mentre discorreva di luce e di tenebre non era molto buona. Da allora il cavaliere dovette scherzare un po' piú a lungo di quanto avesse previsto. Ma oggi è la notte che si tirano le somme. Il cavaliere ha saldato e chiuso il suo conto.
La notte aveva strappato anche la coda piumosa di Behemoth, lo aveva spellato e aveva gettato il pelo a ciocche nelle paludi. Quello che era stato il gatto che svagava il principe delle tenebre, adesso era un giovine smilzo, un demone-paggio, il miglior buffone che mai sia esistito sulla terra. Anche lui adesso si era zittito e volava silenziosamente, col suo giovane volto offerto alla luce che si spandeva dalla luna.
All'estremo lato volava Azazello, facendo rilucere l'acciaio dell'armatura. La luna aveva mutato anche il suo volto. Era scomparsa senza lasciar traccia la zanna assurda e orribile, e il leucoma si era rivelato falso. Entrambi gli occhi di Azazello erano uguali, vuoti e neri, e il viso era bianco e freddo. Adesso Azazello volava col suo sembiante reale, come un demone dell'arido deserto, come un demone assassino.
Margherita non poteva vedere se stessa, ma vedeva bene com'era mutato il Maestro. I suoi capelli biancheggiavano ora alla luce della luna e si erano raccolti dietro in una treccia che volava al vento. Quando il vento soffiò via il mantello dai piedi del Maestro, Margherita vide sui suoi stivaloni le piccole stelle, che ora si smorzavano ora si accendevano, degli speroni. Simile a un demone giovinetto, il Maestro volava senza staccare gli occhi dalla luna, ma le sorrideva come se la conoscesse bene e l'amasse e, per l'abitudine acquisita nella stanza n. 118, borbottava qualcosa tra se.
E, finalmente, Woland volava anch'egli col suo vero sembiante. Margherita non avrebbe potuto dire di che cosa erano fatte le briglie del suo cavallo, e pensava che, forse, erano catenelle di raggi lunari e il cavallo era soltanto un blocco di tenebra, e la criniera di questo cavallo, una nube, e gli speroni del cavaliere, bianche macchie di stelle.
Cosí volarono in silenzio a lungo, finché anche il paesaggio in basso non cominciò a mutare.
I tristi boschi affondarono nel buio terrestre e trassero con sé le opache lame dei fiumi. In basso comparvero e presero a luccicare dei massi, e tra essi nereggiavano abissi, nei quali non penetrava la luce della luna.
Woland arrestò il suo cavallo sulla piatta, squallida cima pietrosa, e allora i cavalieri si mossero al passo, ascoltando i cavalli premere coi loro ferri le selci e i sassi. La luna inondava il pianoro di luce verde e chiara, e Margherita presto scorse in quel luogo deserto una scranna e, su di essa, la bianca figura di un uomo seduto. Forse, quell'uomo era sordo o troppo immerso nelle riflessioni. Non sentiva come fremeva la terra pietrosa sotto il peso dei cavalli, e i cavalieri, senza disturbarlo, gli si avvicinarono.
La luna aiutava bene Margherita, illuminava meglio del miglior lampione elettrico, e Margherita vide che l'uomo seduto, i cui occhi sembravano ciechi, si stropicciava con forza le mani e affissava quei suoi occhi ottenebrati nel disco lunare. Adesso Margherita vedeva che accanto alla pesante scranna di pietra, su cui la luna faceva brillare scintille, giaceva uno scuro, enorme cane dalle orecchie aguzze e come il suo padrone, guardava inquieto la luna. Ai piedi dell'uomo c'erano cocci di una brocca spezzata e si stendeva, senza mai prosciugarsi, una pozza di color rosso-nero. I cavalieri fermarono i loro cavalli.
- Il suo romanzo è stato letto, - prese a dire Woland, voltandosi verso il Maestro, - ed è stato detto soltanto che, purtroppo, non è finito. Ecco, ho voluto mostrarle il suo eroe. Sono quasi due millenni che sta qui, su questo pianoro, e dorme, ma quando viene la luna piena, come vede, lo strazia l'insonnia. Essa tormenta non solo lui, ma anche il suo guardiano fedele, il cane. Se è vero che la viltà è il vizio piú grave, il cane, forse, non ne porta la colpa. L'unica cosa che questo animale coraggioso temesse, era la tempesta. Ma chi ama, deve dividere la sorte di colui che egli ama. - Che cosa dice? - chiese Margherita, e il suo volto completamente tranquillo si appannò d'un velo di compassione.
- Dice, - rispose Woland, - una sola cosa. Dice che anche quando c'è la luna, per lui non c'è pace e che brutto è il suo mestiere. Cosí dice sempre, quando non dorme, e quando dorme, vede una sola cosa: una strada illuminata dalla luna, e vuole percorrerla e parlare con l'arrestato Hanozri perché, come egli afferma, non ha finito di dire qualcosa allora, tanto tempo fa, il giorno quattordici del mese primaverile di Nisan. Ma, ahimè, per questa strada non gli riesce di incamminarsi, e da lui non viene nessuno. Allora, che fare?, gli tocca parlare con se stesso. Ma, è pure necessaria un po' di varietà, e al suo discorso sulla luna egli sovente aggiunge che piú di ogni altra cosa al mondo odia la sua immortalità e la gloria inaudita. Afferma che muterebbe volentieri la sua sorte col vagabondo straccione Levi Matteo.
- Dodicimila lune per una sola luna d'un tempo, non è molto? - chiese Margherita. - Si ripete la storia di Frida? - disse Woland. - Ma Margherita, qui non devi inquietarti. Tutto sarà giusto, su questo è costruito il mondo.
- Liberatelo! - gridò a un tratto con voce penetrante Margherita cosí come aveva gridato una volta, quando era una strega, e questo grido fece cadere una pietra sulle montagne, ed essa volò per le balze nel precipizio, riempiendo i monti di fragore. Ma Margherita non avrebbe potuto dire se quello fosse il fragore di un masso caduto o il fragore di una risata satanica. Comunque, Woland rideva, sogguardando Margherita, e diceva:
- Non bisogna gridare sulle montagne, tanto lui è abituato alle valanghe e questo non lo allarma. Lei non deve intercedere per lui, Margherita, perché per lui ha già intercesso la persona con la quale egli brama tanto di parlare -. Qui Woland si voltò di nuovo verso il Maestro e disse: - Ebbene, ora lei può finire il suo romanzo con una sola frase!
Il Maestro sembrava che già aspettasse queste parole, mentre stava immobile e guardava il procuratore seduto. Egli atteggiò le mani a portavoce e gridò in modo che l'eco rimbalzò pei monti deserti e brulli:
- Sei libero! Sei libero! Egli ti aspetta!
Le montagne trasformarono la voce del Maestro in un tuono, e questo tuono le distrusse. Le maledette mura rocciose caddero. Restò soltanto il pianoro con la scranna di pietra. Sul nero abisso, nel quale erano finite le mura, s'accese una città immensa, con gli idoli lucenti che regnavano su essa, al di sopra di un giardino rigogliosamente cresciuto nel corso di molte migliaia di lune. Fino al limitare di questo giardino si protese la strada illuminata dalla luna tanto attesa dal procuratore, e per primo lungo di essa si gettò a correre il cane dalle orecchie aguzze. L'uomo col mantello bianco foderato di un rosso sanguigno si alzò dalla scranna e gridò qualcosa con voce rauca, esausta. Non si poteva capire se stesse piangendo o ridendo e che cosa gridasse. Si vedeva soltanto che dietro al suo fedele guardiano lungo la strada illuminata dalla luna correva a precipizio anche lui.
- Devo andare là, seguirlo? - chiese inquieto il Maestro, toccando le briglia.
- No, - rispose Woland. - Perché seguire le orme di ciò che ormai è finito?
- Allora là? - chiese il Maestro, si voltò e indicò con la mano là dove, alle spalle, si era delineata la città da poco abbandonata con le torri di marzapane dei monasteri e col sole in mille pezzi nei vetri.
- Neppure, - rispose Woland, e la sua voce s’ispessí e colò sopra le rocce. - Romantico Maestro! Colui che tanto brama di vedere l'eroe da lei inventato, or ora messo in libertà da lei stesso, ha letto il suo romanzo -. Qui Woland si volse verso Margherita. - Margherita Nikolaevna! Non si può non credere che lei abbia cercato di inventare il futuro migliore per il Maestro, ma, veramente, ciò che io vi propongo, e ciò che Jeshua ha chiesto per voi, è ancora migliore! Lasciateli soli loro due, - disse Woland, piegandosi dalla sua sella verso la sella del Maestro e facendo un cenno verso il procuratore che si era allontanato, - non disturbiamoli. E forse, su qualcosa finiranno per mettersi d'accordo -. A questo punto Woland fece un gesto con la mano in direzione di Jerushalajim e quella si spense.
- E anche là, - Woland indicò ciò che avevano lasciato alle spalle, - che farà mai in quell'interrato? - Qui si smorzò il sole frantumato nei vetri. - Perché? - proseguí Woland convincente e dolce. - Oh, tre volte romantico Maestro, possibile che lei non voglia di giorno passeggiare con la sua compagna sotto i ciliegi che cominciano a fiorire, e di sera ascoltare la musica di Schubert? Possibile che non provi piacere a scrivere alla luce delle candele con una penna d'oca? Possibile che lei non voglia, come Faust, starsene su una storta nella speranza che le riesca di modellare un nuovo homunculus? Là, là! Là vi aspetta una casa e un vecchio servo, le candele sono già accese, ma presto si spegneranno perché subito vi verrà incontro l'alba. Per questa strada, Maestro, per questa strada! Addio, per me è ora!
- Addio! - con un sol grido risposero a Woland Margherita e il Maestro. Allora il nero Woland, senza badare a strada alcuna, si gettò nel precipizio e dietro di lui, tumultuando, si slanciò il suo seguito. Intorno non c'erano piú né rocce, né il pianoro, né la strada illuminata dalla luna, né Jerushalajim. Erano scomparsi anche i neri cavalli.
Il Maestro e Margherita videro l'alba promessa. Essa cominciò subito, immediatamente dopo la luna di mezzanotte. Il Maestro camminava con la sua compagna nello splendore dei primi raggi mattutini attraverso un muschioso ponticello di pietra. Lo attraversarono. Il ruscello restò alle spalle dei fedeli amanti, ed essi andarono lungo una strada sabbiosa.
- Ascolta la quiete, - diceva Margherita al Maestro, e la sabbia frusciava sotto i suoi piedi nudi, - ascolta e godi ciò che non ti hanno mai concesso in vita: il silenzio. Guarda, ecco là davanti la tua casa eterna, che ti è stata data per ricompensa. Già vedo la trifora e la vite che s'attorce e s'alza fino al tetto. Ecco la tua casa, la tua casa eterna. So che alla sera ti verranno a trovare coloro che tu ami, che ti interessano e che non ti inquieteranno. Suoneranno per te, canteranno per te, vedrai che luce ci sarà nella camera quando saranno accese le candele. Ti addormenterai, col tuo berretto consunto ed eterno, ti addormenterai col sorriso sulle labbra. Il sonno ti rinvigorirà e saggi saranno i tuoi pensieri. E mandarmi via ormai non potrai. Il tuo sonno lo proteggerò io.
Cosí parlava Margherita, seguendo il Maestro verso la loro casa eterna, e al Maestro parve che le parole di Margherita fluissero come fluiva e bisbigliava il ruscello lasciato alle spalle, e la memoria del Maestro, l'inquieta e martoriata memoria del Maestro cominciò a spegnersi. Qualcuno lo lasciava libero, come poco prima egli aveva lasciato libero l'eroe da lui creato. Questo eroe era scomparso, era scomparso irrevocabilmente, perdonato nella notte tra il sabato e la domenica, il figlio del re astrologo, il crudele quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato.
potrei copiarlo tutto, questo libro, il Maestro e Margherita. Mikhail Bulgakov,
vorrei ricordarlo tutto a memoria, se fosse possibile.
vorrei non averlo ancora letto per rileggerlo tutto, per la prima volta.
e poi di nuovo.
vorrei che non finisse mai, che durasse in eterno.
amo Woland, questo satana così immenso, questo satana crudele giustiziere, inesorabile giustiziere.
non cattivo, non spietato. giusto. dispensatore di giustizia.
amo la narrazione di Ponzio Pilato, un romanzo nel romanzo che segna la storia dell'uomo, che segue parallelamente la storia dei personaggi, metafora della ricongiunzione con la luce.
amo Abadonna, figura fugace, angelo della morte, appena sfiorato dal racconto ma così potente.
amo il sublime e l'abisso di questo libro.
il dileggio, la satira, il divertimento e i dialoghi, tutta letteratura alla sua massima espressione, un godimento vibrante, interminabile.
Anche i magici cavalli neri erano spossati e portavano i loro cavalieri lentamente e la notte ineluttabile cominciò a raggiungerli. Sentendola alle proprie spalle, si zittí anche l'instancabile Behemoth, che, avvinghiato alla sella con le unghie, volava silenzioso e serio, con la coda dispiegata.
La notte aveva cominciato a coprire di un nero scialle i boschi e i prati, la notte aveva acceso piccole luci meste laggiú in basso, luci estranee, ormai indifferenti e inutili per Margherita e il Maestro. La notte aveva superato la cavalcata, si disseminava su di essa dall'alto e lanciava ora qua ora là nel cielo rattristato le bianche macchioline delle stelle.
La notte s'infittiva, volava accanto, afferrava i cavalieri al galoppo pei mantelli e, strappatili dalle loro spalle, smascherava gli inganni. E quando Margherita, avvolta dal vento fresco, aprí gli occhi, vide come andava mutando l'aspetto di tutti quelli che volavano verso la loro meta. Quando incontro a loro dall'estremità del bosco cominciò a uscire, purpurea e piena, la luna, tutti gli inganni scomparvero, cadde nella palude, affondò tra le brume l'instabile veste stregonesca.
Difficilmente adesso avrebbero riconosciuto Korov’ev-Fagotto, sedicente traduttore del misterioso consulente che non aveva bisogno di traduzione alcuna, in colui che volava accanto a Woland, a destra dell'amica del Maestro.
In luogo di chi, in una lacera veste da circo, aveva lasciato i Monti dei Passeri sotto il nome di Korov'ev-Fagotto adesso galoppava, facendo tintinnare sommessamente la catena d'oro della briglia, un cavaliere di colore violetto scuro con un volto cupissimo che non sorrideva mai. Teneva il mento appoggiato sul petto, non guardava la luna non si interessava della terra, pensava a qualcosa di suo mentre volava accanto a Woland.
- Perché è tanto cambiato? - chiese sommessa Margherita a Woland, accompagnata dal sibilo del vento.
- Questo cavaliere, un giorno, scherzò in modo poco felice, - rispose Woland voltando verso Margherita il volto dall'occhio placidamente luminoso, - e la freddura che aveva detto mentre discorreva di luce e di tenebre non era molto buona. Da allora il cavaliere dovette scherzare un po' piú a lungo di quanto avesse previsto. Ma oggi è la notte che si tirano le somme. Il cavaliere ha saldato e chiuso il suo conto.
La notte aveva strappato anche la coda piumosa di Behemoth, lo aveva spellato e aveva gettato il pelo a ciocche nelle paludi. Quello che era stato il gatto che svagava il principe delle tenebre, adesso era un giovine smilzo, un demone-paggio, il miglior buffone che mai sia esistito sulla terra. Anche lui adesso si era zittito e volava silenziosamente, col suo giovane volto offerto alla luce che si spandeva dalla luna.
All'estremo lato volava Azazello, facendo rilucere l'acciaio dell'armatura. La luna aveva mutato anche il suo volto. Era scomparsa senza lasciar traccia la zanna assurda e orribile, e il leucoma si era rivelato falso. Entrambi gli occhi di Azazello erano uguali, vuoti e neri, e il viso era bianco e freddo. Adesso Azazello volava col suo sembiante reale, come un demone dell'arido deserto, come un demone assassino.
Margherita non poteva vedere se stessa, ma vedeva bene com'era mutato il Maestro. I suoi capelli biancheggiavano ora alla luce della luna e si erano raccolti dietro in una treccia che volava al vento. Quando il vento soffiò via il mantello dai piedi del Maestro, Margherita vide sui suoi stivaloni le piccole stelle, che ora si smorzavano ora si accendevano, degli speroni. Simile a un demone giovinetto, il Maestro volava senza staccare gli occhi dalla luna, ma le sorrideva come se la conoscesse bene e l'amasse e, per l'abitudine acquisita nella stanza n. 118, borbottava qualcosa tra se.
E, finalmente, Woland volava anch'egli col suo vero sembiante. Margherita non avrebbe potuto dire di che cosa erano fatte le briglie del suo cavallo, e pensava che, forse, erano catenelle di raggi lunari e il cavallo era soltanto un blocco di tenebra, e la criniera di questo cavallo, una nube, e gli speroni del cavaliere, bianche macchie di stelle.
Cosí volarono in silenzio a lungo, finché anche il paesaggio in basso non cominciò a mutare.
I tristi boschi affondarono nel buio terrestre e trassero con sé le opache lame dei fiumi. In basso comparvero e presero a luccicare dei massi, e tra essi nereggiavano abissi, nei quali non penetrava la luce della luna.
Woland arrestò il suo cavallo sulla piatta, squallida cima pietrosa, e allora i cavalieri si mossero al passo, ascoltando i cavalli premere coi loro ferri le selci e i sassi. La luna inondava il pianoro di luce verde e chiara, e Margherita presto scorse in quel luogo deserto una scranna e, su di essa, la bianca figura di un uomo seduto. Forse, quell'uomo era sordo o troppo immerso nelle riflessioni. Non sentiva come fremeva la terra pietrosa sotto il peso dei cavalli, e i cavalieri, senza disturbarlo, gli si avvicinarono.
La luna aiutava bene Margherita, illuminava meglio del miglior lampione elettrico, e Margherita vide che l'uomo seduto, i cui occhi sembravano ciechi, si stropicciava con forza le mani e affissava quei suoi occhi ottenebrati nel disco lunare. Adesso Margherita vedeva che accanto alla pesante scranna di pietra, su cui la luna faceva brillare scintille, giaceva uno scuro, enorme cane dalle orecchie aguzze e come il suo padrone, guardava inquieto la luna. Ai piedi dell'uomo c'erano cocci di una brocca spezzata e si stendeva, senza mai prosciugarsi, una pozza di color rosso-nero. I cavalieri fermarono i loro cavalli.
- Il suo romanzo è stato letto, - prese a dire Woland, voltandosi verso il Maestro, - ed è stato detto soltanto che, purtroppo, non è finito. Ecco, ho voluto mostrarle il suo eroe. Sono quasi due millenni che sta qui, su questo pianoro, e dorme, ma quando viene la luna piena, come vede, lo strazia l'insonnia. Essa tormenta non solo lui, ma anche il suo guardiano fedele, il cane. Se è vero che la viltà è il vizio piú grave, il cane, forse, non ne porta la colpa. L'unica cosa che questo animale coraggioso temesse, era la tempesta. Ma chi ama, deve dividere la sorte di colui che egli ama. - Che cosa dice? - chiese Margherita, e il suo volto completamente tranquillo si appannò d'un velo di compassione.
- Dice, - rispose Woland, - una sola cosa. Dice che anche quando c'è la luna, per lui non c'è pace e che brutto è il suo mestiere. Cosí dice sempre, quando non dorme, e quando dorme, vede una sola cosa: una strada illuminata dalla luna, e vuole percorrerla e parlare con l'arrestato Hanozri perché, come egli afferma, non ha finito di dire qualcosa allora, tanto tempo fa, il giorno quattordici del mese primaverile di Nisan. Ma, ahimè, per questa strada non gli riesce di incamminarsi, e da lui non viene nessuno. Allora, che fare?, gli tocca parlare con se stesso. Ma, è pure necessaria un po' di varietà, e al suo discorso sulla luna egli sovente aggiunge che piú di ogni altra cosa al mondo odia la sua immortalità e la gloria inaudita. Afferma che muterebbe volentieri la sua sorte col vagabondo straccione Levi Matteo.
- Dodicimila lune per una sola luna d'un tempo, non è molto? - chiese Margherita. - Si ripete la storia di Frida? - disse Woland. - Ma Margherita, qui non devi inquietarti. Tutto sarà giusto, su questo è costruito il mondo.
- Liberatelo! - gridò a un tratto con voce penetrante Margherita cosí come aveva gridato una volta, quando era una strega, e questo grido fece cadere una pietra sulle montagne, ed essa volò per le balze nel precipizio, riempiendo i monti di fragore. Ma Margherita non avrebbe potuto dire se quello fosse il fragore di un masso caduto o il fragore di una risata satanica. Comunque, Woland rideva, sogguardando Margherita, e diceva:
- Non bisogna gridare sulle montagne, tanto lui è abituato alle valanghe e questo non lo allarma. Lei non deve intercedere per lui, Margherita, perché per lui ha già intercesso la persona con la quale egli brama tanto di parlare -. Qui Woland si voltò di nuovo verso il Maestro e disse: - Ebbene, ora lei può finire il suo romanzo con una sola frase!
Il Maestro sembrava che già aspettasse queste parole, mentre stava immobile e guardava il procuratore seduto. Egli atteggiò le mani a portavoce e gridò in modo che l'eco rimbalzò pei monti deserti e brulli:
- Sei libero! Sei libero! Egli ti aspetta!
Le montagne trasformarono la voce del Maestro in un tuono, e questo tuono le distrusse. Le maledette mura rocciose caddero. Restò soltanto il pianoro con la scranna di pietra. Sul nero abisso, nel quale erano finite le mura, s'accese una città immensa, con gli idoli lucenti che regnavano su essa, al di sopra di un giardino rigogliosamente cresciuto nel corso di molte migliaia di lune. Fino al limitare di questo giardino si protese la strada illuminata dalla luna tanto attesa dal procuratore, e per primo lungo di essa si gettò a correre il cane dalle orecchie aguzze. L'uomo col mantello bianco foderato di un rosso sanguigno si alzò dalla scranna e gridò qualcosa con voce rauca, esausta. Non si poteva capire se stesse piangendo o ridendo e che cosa gridasse. Si vedeva soltanto che dietro al suo fedele guardiano lungo la strada illuminata dalla luna correva a precipizio anche lui.
- Devo andare là, seguirlo? - chiese inquieto il Maestro, toccando le briglia.
- No, - rispose Woland. - Perché seguire le orme di ciò che ormai è finito?
- Allora là? - chiese il Maestro, si voltò e indicò con la mano là dove, alle spalle, si era delineata la città da poco abbandonata con le torri di marzapane dei monasteri e col sole in mille pezzi nei vetri.
- Neppure, - rispose Woland, e la sua voce s’ispessí e colò sopra le rocce. - Romantico Maestro! Colui che tanto brama di vedere l'eroe da lei inventato, or ora messo in libertà da lei stesso, ha letto il suo romanzo -. Qui Woland si volse verso Margherita. - Margherita Nikolaevna! Non si può non credere che lei abbia cercato di inventare il futuro migliore per il Maestro, ma, veramente, ciò che io vi propongo, e ciò che Jeshua ha chiesto per voi, è ancora migliore! Lasciateli soli loro due, - disse Woland, piegandosi dalla sua sella verso la sella del Maestro e facendo un cenno verso il procuratore che si era allontanato, - non disturbiamoli. E forse, su qualcosa finiranno per mettersi d'accordo -. A questo punto Woland fece un gesto con la mano in direzione di Jerushalajim e quella si spense.
- E anche là, - Woland indicò ciò che avevano lasciato alle spalle, - che farà mai in quell'interrato? - Qui si smorzò il sole frantumato nei vetri. - Perché? - proseguí Woland convincente e dolce. - Oh, tre volte romantico Maestro, possibile che lei non voglia di giorno passeggiare con la sua compagna sotto i ciliegi che cominciano a fiorire, e di sera ascoltare la musica di Schubert? Possibile che non provi piacere a scrivere alla luce delle candele con una penna d'oca? Possibile che lei non voglia, come Faust, starsene su una storta nella speranza che le riesca di modellare un nuovo homunculus? Là, là! Là vi aspetta una casa e un vecchio servo, le candele sono già accese, ma presto si spegneranno perché subito vi verrà incontro l'alba. Per questa strada, Maestro, per questa strada! Addio, per me è ora!
- Addio! - con un sol grido risposero a Woland Margherita e il Maestro. Allora il nero Woland, senza badare a strada alcuna, si gettò nel precipizio e dietro di lui, tumultuando, si slanciò il suo seguito. Intorno non c'erano piú né rocce, né il pianoro, né la strada illuminata dalla luna, né Jerushalajim. Erano scomparsi anche i neri cavalli.
Il Maestro e Margherita videro l'alba promessa. Essa cominciò subito, immediatamente dopo la luna di mezzanotte. Il Maestro camminava con la sua compagna nello splendore dei primi raggi mattutini attraverso un muschioso ponticello di pietra. Lo attraversarono. Il ruscello restò alle spalle dei fedeli amanti, ed essi andarono lungo una strada sabbiosa.
- Ascolta la quiete, - diceva Margherita al Maestro, e la sabbia frusciava sotto i suoi piedi nudi, - ascolta e godi ciò che non ti hanno mai concesso in vita: il silenzio. Guarda, ecco là davanti la tua casa eterna, che ti è stata data per ricompensa. Già vedo la trifora e la vite che s'attorce e s'alza fino al tetto. Ecco la tua casa, la tua casa eterna. So che alla sera ti verranno a trovare coloro che tu ami, che ti interessano e che non ti inquieteranno. Suoneranno per te, canteranno per te, vedrai che luce ci sarà nella camera quando saranno accese le candele. Ti addormenterai, col tuo berretto consunto ed eterno, ti addormenterai col sorriso sulle labbra. Il sonno ti rinvigorirà e saggi saranno i tuoi pensieri. E mandarmi via ormai non potrai. Il tuo sonno lo proteggerò io.
Cosí parlava Margherita, seguendo il Maestro verso la loro casa eterna, e al Maestro parve che le parole di Margherita fluissero come fluiva e bisbigliava il ruscello lasciato alle spalle, e la memoria del Maestro, l'inquieta e martoriata memoria del Maestro cominciò a spegnersi. Qualcuno lo lasciava libero, come poco prima egli aveva lasciato libero l'eroe da lui creato. Questo eroe era scomparso, era scomparso irrevocabilmente, perdonato nella notte tra il sabato e la domenica, il figlio del re astrologo, il crudele quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato.
potrei copiarlo tutto, questo libro, il Maestro e Margherita. Mikhail Bulgakov,
vorrei ricordarlo tutto a memoria, se fosse possibile.
vorrei non averlo ancora letto per rileggerlo tutto, per la prima volta.
e poi di nuovo.
vorrei che non finisse mai, che durasse in eterno.
amo Woland, questo satana così immenso, questo satana crudele giustiziere, inesorabile giustiziere.
non cattivo, non spietato. giusto. dispensatore di giustizia.
amo la narrazione di Ponzio Pilato, un romanzo nel romanzo che segna la storia dell'uomo, che segue parallelamente la storia dei personaggi, metafora della ricongiunzione con la luce.
amo Abadonna, figura fugace, angelo della morte, appena sfiorato dal racconto ma così potente.
amo il sublime e l'abisso di questo libro.
il dileggio, la satira, il divertimento e i dialoghi, tutta letteratura alla sua massima espressione, un godimento vibrante, interminabile.
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Il maestro e Margherita,
Mikhail Bulgakov
mercoledì 1 aprile 2020
voglio la dittatura cinese
voglio il comunismo cinese
voglio i carri armati
i cyborg
i droni
la corte marziale
“Il minaccioso non si avvicina, esso ci è già, è così vicino che ci opprime e ci mozza il fiato, ma non è in nessun luogo. Esso è ovunque” (Heidegger, 1927).
voglio i carri armati
i cyborg
i droni
la corte marziale
“Il minaccioso non si avvicina, esso ci è già, è così vicino che ci opprime e ci mozza il fiato, ma non è in nessun luogo. Esso è ovunque” (Heidegger, 1927).
chiede io mio amico marco:
qui chiusi in macro-zone rosse piene di virus e psico-virus come facciamo?
soluzioni finali che sradicano il male cioè il virus. i cinesi prima ci hanno mostrato questa
soluzione.
pure i coreani, dopo. controllo degli spostamenti umani con la localizzazione degli smartphone, utilizzo delle informazioni presenti su chat e social network, caschi indossati dai militari in
grado di riconoscere i volti e dotati di dispositivi per rilevare la temperatura, robot per le strade
con funzione di monitoraggio sociale, a telecamere Ovunque, a banche dati a disposizione per
incrociare dati sensibili hanno controllato e battuto il virus. una parte primordiale e terrorizzata di me esige tutto ciò. una mia parte pretende il controllo “mortifero” sulla pericolosa vita-vera. anch’io voglio essere un Post-Umano
quantificato e sanificato una volta per tutte.
io non lo so, se voglio essere un post-umano.
ma certamente voglio che vengano fermati
il footing
le passeggiate dei bambini con i genitori
(ma si, ultima trovata lungimirante del Viminale, tutti fuori, migliaia di bambini ora, adesso, tutti fuori, ora con la mamma, ora con il papà
PRONTI VIA
LIBERI TUTTI)
o i papà fuori con figlio e skate
la spesa in tre
i COVID positivi in gita
i traslochi in codominio
le richieste di portare fuori i pazienti autistici
lunedì ho visto una coppia.
lei bionda chilometrica, lui solo o soprattutto un povero cretino.
erano in giro con i due cani, lunghi guinzagli e atteggiamento arrogante, da copertina di Vogue, dei padroni e dei cani.
camminavano come fossero in passerella.
senza mascherine.
si muovevano verso il supermercato come se fossero ripresi da una telecamera, perchè alcuni pensano a se stessi solo come immagini virtuali, non soggetti immersi nel reale tragico della vita, ma ideogrammi, come perennemente sotto selfie, come eternamente esposti al giudizio mediatico.
parlavano a voce alta, molto alta, c'è coda? no? perfetto, prendi il carrello.
urlavano come se ci fossero solo loro.
e certamente si pensano come fossero solo loro al mondo, così si pensano così agiscono.
lei si sposta senza alcuna cautela, nessuna valutazione delle distanze, si avvicina paurosamente.
la sua psicosi le fa credere che i capelli lunghi e le gambe chilometriche faranno differenza per il corona.
la sua psicosi le impedisce di sapere, perchè le inibisce l'attività cerebrale, che a parte la sua delirante invulnerabilità lei, bionda stronza, è pericolosa per l'umanità nella sua arroganza ebete.
fa la spesa, l'altro con i due cani non può entrare, come se non ci fossero limitazioni, si tocca i capelli, prende la frutta senza guanti, apre e richiude di continuo i frigoriferi, fa mossettine, smorfie, mostra il culo.
a che livello umano siamo?
ci si può mettere in mostra come se non stesse succedendo niente? come se fosse un normale giorno di merda della sua vuota esistenza di abissi di nulla?
si può fare footing e mostrare il culo senza considerare i morti soffocati in ospedale?
o c'è un'etica che ci costringe a camminare per strada, ad alzarci la mattina, a fare la spesa, a respirare con un pensiero costante, perenne, a chi muore ogni minuto?
esco dal supermercato e l'irrimediabile cretino non è andato a casa, come dovrebbe, sta fuori seduto, un corpo e una vita inutili e ingombranti se non fossero al contempo mortalmente pericolosi per il resto degli umani, è fuori con i due cani.
la banalità del male.
due coglioni in libera uscita.
io, per questo, e per l'ideona delle uscite dei bambini con mamma e papà con l'ombra retrostante di oltre 100 mila contagiati, per le richieste di una sorella di fare passeggiate con il fratello autistico ricoverato in comunità -di soggetti fragili e suscettibili di morte per polmonite interstiziale virale- perchè per lui è "importante"
per questo
si
voglio la dittatura cinese
non voglio nessuno per strada
voglio che tutto questo finisca
lo voglio per i morti
voglio restituire ai miei colleghi in ospedale uno sguardo oltre il terrore
voglio aiutarli, al più presto, a lenire il dolore che hanno negli occhi, che i loro occhi hanno registrato da settimane. oltre l'immaginabile.
basta.
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